Tra Shakespeare e rivoluzione: intervista a Dario Marconcini

Dario Marconcini durante l’intervista (ph Lorenzo Gori)

Dario Marconcini si racconta a tutto campo in un’intervista “dietro le quinte” rilasciata ai “Giornalisti di Confine”, il laboratorio coordinato da Altre Velocità in occasione del festival pistoiese “Teatri di Confine”.

L’attore è stato protagonista, insieme a Giovanna Daddi, dello spettacolo Minimacbeth andato in scena giovedì 23 giugno al Centro culturale “Il Funaro” di Pistoia, nell’ambito della rassegna “Teatri di Confine” organizzata dall’Associazione Teatrale Pistoiese e dalla Fondazione Toscana Spettacolo onlus.

Marconcini, attualmente direttore artistico presso il teatro “Di Bartolo” di Buti, nel corso di una lunghissima carriera teatrale è stato attore, regista e coreografo votato alla sperimentazione e alla ricerca di soluzioni artistiche non convenzionali, che lo hanno portato all’introduzione di elementi esotici e popolari nella rivisitazione dei classici del teatro da Shakespeare a Cechov, da Ibsen a Pinter.

Da più di un quindicennio Marconcini collabora stabilmente con l’attrice Giovanna Daddi: l’esito più interessante e originale della loro produzione è proprio Minimacbeth, versione reinterpretata e ridotta del celebre capolavoro shakespeariano, nonché efficace sintesi artistica dei percorsi e delle esperienze teatrali dei due attori.

Iniziamo dalla tua carriera teatrale: quali sono state le esperienze più significative per la tua formazione artistica?

La mia carriera teatrale, se così si può definire, inizia nell’adolescenza. Per anni sono stato attore dilettante, ho collaborato con diverse compagnie itineranti, ho alternato lavori interessanti con insuccessi e profonde delusioni. La mia fortuna è stata quella di non arrendermi mai e di voler continuare a crescere e a sperimentare l’arte teatrale: in questo senso è stato decisivo il periodo degli anni Settanta, con la diffusione di un nuovo tipo di teatro, popolare e “rivoluzionario”, capace di rompere gli schemi e le convenzioni artistiche e sceniche del tempo. Un teatro dove non esiste più il palcoscenico, dove l’attore con la sola presenza fisica disegna la scena, dove la recitazione si sposta lungo le strade, e dove finalmente l’attore è libero di muoversi e calcare lo spazio scenico a piedi nudi. È stata un’esperienza realmente rivoluzionaria, oggi non più ripetibile, che ci ha condotti al superamento di vincoli consolidati e alla riscoperta di una grande libertà di interpretazione, gestualità e movimento. Molto utili, in tal senso, si sono rivelati i viaggi compiuti in India e in altri Paesi dell’Oriente, dalle cui culture ho assimilato un ricco bagaglio teatrale: sono state proprio le rappresentazioni indiane a convincermi a “gettare via” le scarpe e tornare a una recitazione diretta, immediata, popolare, da eseguire scalzo in spazi “improvvisati” agli incroci delle strade.

Quando e da dove è nata l’idea del Minimacbeth? Quali difficoltà dal punto di vista scenico e interpretativo avete dovuto affrontare tu e Giovanna nel confrontarvi con il grande capolavoro di Shakespeare?

L’idea di mettere in scena una versione ridotta, aggiornata e rivisitata del Macbeth è nata nel 1995, quando un nostro amico, Andrea Taddei, ci propose un lavoro di reinterpretazione dell’opera shakespeariana, lasciando a me e Giovanna ampia libertà artistica. Per cinque anni lasciammo il progetto nel cassetto, domandandoci come fosse possibile da un punto di vista artistico sintetizzare un capolavoro di tale portata in uno spettacolo di tre quarti d’ora, senza stravolgerne completamente il significato. Poi abbiamo cercato di percorrere una strada comune, adottando soluzioni sceniche di tipo contemporaneo ma mantenendo invariati i nodi fondamentali del testo: ritengo infatti che sia impossibile “riscrivere” Shakespeare, i cui testi possono essere riadattati ma non cambiati. Quello dell’autore inglese è un teatro diretto e popolare, che non ha bisogno di riscritture personali: si possono tagliare o aggiungere alcuni pezzi, ma non si può avere la presunzione di modificare il senso dell’opera.

Qual è il motivo dell’insolita disposizione del pubblico che avete scelto per questa rappresentazione?

Abbiamo scelto di disporre il pubblico sue due file ai due lati del tavolo sul quale si svolge la rappresentazione del Minimacbeth per rendere gli spettatori partecipi e fortemente coinvolti alle vicende narrate. In questa opera il palcoscenico non esiste e le scene, separate da momenti di buio e da intervalli musicali, sono rappresentate intorno a un grande tavolo con due sedie alle estremità. In questo modo il pubblico, anche se non prende direttamente parte alla storia, è osservatore attento di tutto ciò che si svolge all’interno del castello di Inverness.

All’inizio dello spettacolo, nella penombra, appare al centro della scena un lungo tavolo coperto di foglie secche.

Abbiamo pensato a questo espediente del tavolo come mezzo efficace per risolvere i molti problemi scenici che la messa in atto del Minimacbeth ci poneva di fronte. Un tavolo avvolto nell’oscurità, illuminato solo a tratti da alcuni coni di luce, ci è sembrato uno strumento in grado di sostenere l’intero svolgimento della trama e di rendere molto bene l’idea di uno scenario notturno dai toni lugubri e macabri, dove si consuma la tragica e sanguinosa sequenza di congiure e assassinii. All’inizio il tavolo è coperto di foglie secche perché sono l’elemento che, secondo noi, meglio rappresenta un’ambientazione interamente notturna dell’opera.

Sulla scena del Minimacbeth compaiono molti oggetti, alcuni piuttosto particolari. Qual è la loro storia?

Gli oggetti portati in scena rappresentano, in un certo senso, una sintesi delle nostre esperienze artistiche. Penso, per esempio, alla maschera che indosso all’inizio e al termine dello spettacolo: è il regalo di un anziano artigiano di Bali, dove anni fa soggiornai un po’ di tempo per fare ricerca teatrale e realizzare un documentario sull’isola per conto della Rai. Per me è un dono prezioso e di grande valore, perchè rispecchia l’idea di un teatro primitivo in cui la maschera è dotata di una propria anima: per questo la tengo sempre coperta, custodita della sua sacca, per evitare che l’anima si disperda e la maschera rimanga priva del suo valore rappresentativo. Oppure le due lampade che reggo nella prima scena: sono lampade tipiche delle tribù Ashanti, una popolazione africana che vive al confine tra Mali e Costa d’Avorio, anch’esse “souvenir” di viaggio, dotate di un potere quasi magico. Le stesse candele accese e depositate a terra in alcuni momenti dello spettacolo fanno riferimento a questa lunga fase in cui io e Giovanna, pur seguendo percorsi differenti, siamo entrati in contatto con il teatro fisico, dove il corpo dell’attore occupa un ruolo centrale e lo spazio scenico è delimitato unicamente dalle fiammelle emanate da candele.

Tutti gli oggetti che compaiono sulla scena del Minimacbeth hanno per noi un forte significato, perchè raccontano le nostre storie, i nostri cammini di crescita professionale nel mondo del teatro, le nostre esperienze e viaggi in luoghi esotici e remoti, e, in definitiva, il nostro modo di vedere e concepire l’arte della rappresentazione.

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Giornalisti di confine
Teatri e giornalisti di confine 2016, Pistoia

Canale del progetto di formazione su giornalismo-critica-comunicazione attivo durante la rassegna “Teatri di Confine”, dal 9 al 30 giugno 2016, Pistoia