YA La battaglia di Campocarne: si salvi chi può

Il libro di Roberto Recchioni parte da un’idea interessante ma non la porta a compimento

Anastasia Quadraccia
The Book Girls
Published in
4 min readJan 7, 2016

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Sarà il clima natalizio, sarà che siamo tutti intontiti dal lampeggiare delle lucette sugli alberi, nelle vie e per le strade, ma prendere a prestito l’intermittenza dal mondo dell’elettrotecnica mi sembra la soluzione più naturale per descrivere il libro di Roberto Recchioni intitolato YA La battaglia di Campocarne (del titolo parlerò più avanti).

Ma prima di spiegare il perché del mio giudizio, due elementi due sulla storia: protagonista è Stecco, un ragazzino dalla testa puntuta, alto e secco come un osso, il cui sogno è quello di lasciare la povera terra di Zarafa, dove abita con tutta la famigliola di contadini, per partecipare all’Avventura e diventare un eroe. L’occasione per cambiare la sua vita gli viene offerta dalla guerra che infuria tra il Conte Spaccacuori e il Principe Usuraio, che assolda giovani reclute per mezzo del Granduomo, l’eroe favorito di Stecco.

La sete di Avventura porterà Stecco non solo a fare nuove conoscenze determinanti per il suo viaggio, come Marta La Brutta e Trappola, apprendista iettatore, ma anche a trovare la propria strada e a compiere così il proprio destino, che come si deduce dal titolo sarà stabilito nella battaglia di Campocarne.

Perché, dunque, “intermittenza”? Innanzitutto a essere intermittente è la struttura della storia: il tempo del racconto non è assolutamente lineare, la storia inizia in medias res per poi tornare indietro e poi avanti e poi indietro e poi avanti. Continuamente, si smette solo alla fine.
Di per sé, l’idea di frantumare il tempo non sarebbe una tragedia, anzi potrebbe pure essere una soluzione interessante. Il problema è l’attenzione: all’inizio ho fatto proprio fatica a farmi prendere dalla vicenda.
Ragionandoci, credo che articolare la storia in tanti mini-capitoli non giovi, non si ha il tempo materiale di interessarsi a quanto accade.
Se io sto leggendo una cosa che mi prende tantissimo, o per lo meno mi comincia a prendere, e l’autore mi stoppa il capitolo continuando la storia da un altro punto, io non vedo l’ora di riprendere il racconto dal punto che mi interessava, ma… un attimo. Nel frattempo, anche il nuovo capitolo ha iniziato a darmi quel brividino. Ed è così che il gioco è fatto, e il libro è riuscito nel suo intento. Ma qui non ci siamo, e la brevità dei capitoli molte volte ha finito perfino col farmi tirare un sospiro di sollievo.

Punto secondo, intermittente è la presenza dei personaggi: Stecco è sempre fisicamente presente in scena ma molte volte è come se fosse inconsistente; divertenti i botta e risposta tra Stecco e la sua compagna Marta La Brutta, ma spesso fini a se stessi e privi di un reale peso nell’economia della vicenda.

Punto terzo, la scrittura: nonostante generalmente Recchioni utilizzi frasi piuttosto semplici e dalla struttura per niente ardita, il testo nel complesso non risulta fluido.

Punto quarto, il finale: nei libri, come nei film, la chiusa di una storia è il momento che tutti aspettano e in cui tutti, dopo aver seguito talvolta anche faticosamente, ripongono aspettative e speranze. Mi è capitato spesso di leggere buoni libri, ma anche pessimi, con finali pessimi, finali che sembrano seriamente buttati là, perché ormai bisogna chiudere e la storia langue in un vicolo cieco. Il finale invece dovrebbe essere all’altezza e in armonia con tutto il resto, anzi, se la storia non è stata un granché, potrebbe perfino regalarle un’ultima chance per scalfire il cuore di un lettore ormai rassegnato.
Ma molte volte si chiude e basta e in modi talmente assurdi e scontati da far cascar le braccia.
Recchioni rientra nel quadro appena prospettato: non riesce a scampare alla mannaia (strizzatina d’occhio) del finale abborracciato. Duecento pagine per arrivare all’atto conclusivo e una misera paginetta per terminare la vicenda? Il problema però non sta tanto nella mancata quantità, quanto nel come l’intera faccenda venga liquidata. Recchioni infatti chiude la storia di Stecco in modo goffo, sgonfiando gli avvenimenti l’attimo prima che possano esplodere nel pathos e nella grandezza, lasciando così al lettore solo un gran senso di incompiuto.

E infine, una mia perplessità: ma ‘sto YA? D’accordo, è il grido di battaglia, è l’intercalare che i personaggi pongono o come rafforzativo alla fine di ogni domanda o per esprimere assenso, ma, mi chiedo, era veramente necessario metterlo nel titolo? Cosa mi rappresenta?

Recchioni avrebbe potuto fare della sua prima prova da scrittore qualcosa di più. YA La battaglia di Campocarne ha dei momenti felici, ad esempio la digressione sul gioco della Briscola Selvaggia, ma è come se nessuno fosse stato approfondito a dovere. Alla fine della lettura si ha l’impressione che da una storia come questa un autore più paziente o più furbo avrebbe potuto ricavare una saga intera.

Il povero Stecco non fa che ripetere ossessivamente: “Ya, tutto per l’Avventura!”, ma invece che sentirmi motivata ad imbracciare le armi con lui, l’unica cosa che mi verrebbe da fare è darmela a gambe, gridando: “Si salvi chi può!”

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