Babilonia rivisitata

Un racconto di Francis Scott Fitzgerald

The Catcher
The Catcher
28 min readAug 6, 2018

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(Illustrazione di Giovanni Gastaldi)

Questo racconto è stato tradotto da Carlo Maria Masselli, allievo del College Scrivere 2016/2018, in occasione del workshop di traduzione organizzato in collaborazione con Babel Festival (Festival di letteratura e traduzione che si tiene ogni anno a Bellinzona) e tenuto da Franca Cavagnoli, traduttrice di Fitzgerald, Twain, Burroughs, Joyce, Kincaid e altri.

“E dov’è il signor Campbell?” chiese Charlie.
“È andato in Svizzera. Il signor Campbell è un uomo molto malato, signor Wales.”
“Mi spiace. E George Hardt?” domandò Charlie.
“Tornato in America, a lavorare.”
“E dov’è lo Snow Bird?”
“Era qui la settimana scorsa. Comunque, il suo amico, il signor Schaeffer, è a Parigi.”
Due nomi familiari della lunga lista di un anno e mezzo fa. Charlie scribacchiò un indirizzo sul taccuino e strappò la pagina.
“Se vede il signor Schaeffer gli dia questo”, disse. “È l’indirizzo di mio cognato. Non mi sono ancora sistemato in hotel.”

Non era veramente deluso nel trovare una Parigi tanto vuota. Ma la quiete del bar del Ritz era strana e funesta.

Non era più un American bar — lì dentro sentiva di dover usare i convenevoli, e non di comportarsi come se fosse il padrone. Il posto era tornato in Francia. Ne aveva percepito la quiete dal momento in cui era sceso dal taxi e aveva visto il portiere, di solito a quest’ora freneticamente impegnato, che chiacchierava con uno chasseur presso l’entrata di servizio.
Passando lungo il corridoio, aveva udito solo una voce annoiata provenire dalla sala delle donne, un tempo chiassosa. Quando era entrato nel bar, aveva percorso i venti piedi di passatoia verde con lo sguardo fisso davanti a sé, secondo una vecchia abitudine; poi, con il piede ben fermo sulla sbarra del bancone, si era voltato e aveva passato in rassegna la stanza, incontrando soltanto un paio d’occhi che, nell’angolo, per un attimo si erano alzati dal giornale. Charlie aveva chiesto del capo barman, Paul, che negli ultimi giorni in cui la borsa era al rialzo era venuto a lavorare a bordo della sua fuoriserie — avendo tuttavia cura di scendere all’angolo. Ma Paul oggi era nella sua casa di campagna e così a dargli le informazioni era Alix.

“No, basta,” disse Charlie, “di questi tempi ci vado piano.”
Alix si congratulò con lui: “Ci andava giù pesante, un paio di anni fa.”
“Non sgarrerò,” lo rassicurò Charlie “ormai, è più di un anno e mezzo che non sgarro.”

“Com’è la situazione in America?”
“Non vado in America da mesi. Ho degli affari a Praga, rappresento un paio di aziende. Laggiù non sanno nulla di me.”
Alix sorrise.
“Si ricorda la notte in cui ci fu la cena di addio al celibato di George Hardt?” disse Charlie. “A proposito, che cosa ne è stato di Claude Fesseden?”
Alix abbassò la voce a un tono confidenziale: “È a Parigi, ma non viene più qui. Paul non lo permette. Ha accumulato un conto di trentamila franchi, mettendoci tutti i drink e i pranzi, e di solito anche le cene, per più di un anno. E quando Paul gli ha finalmente detto che doveva pagare, quello gli ha dato un assegno scoperto.”
Alix scosse la testa tristemente.
“Non capisco, un tale figurino. Ora è tutto gonfio.” Formò con le mani una mela bella tonda.
Charlie guardò un gruppo di stridule checche installarsi in un angolo.
“Niente li turba,” pensò. “Le azioni salgono e scendono, la gente ozia o lavora, ma loro vanno avanti come sempre.” Il posto lo opprimeva. Chiese i dadi e si giocò il drink con Alix.
“Starà qui a lungo, signor Wales?”
“Starò qui quattro o cinque giorni per vedere la mia bambina.”
“Oh! Ha una bambina?”

Fuori, il rosso fuoco, l’azzurro gas, il verde spettrale delle insegne emetteva un bagliore fumoso nella pioggia tranquilla. Era tardo pomeriggio e c’era movimento per le strade; i bistrò luccicavano.

All’angolo di Boulevard des Capucines prese un taxi. Place de la Concorde sfilò nella sua rosea maestà; attraversarono la logica Senna e Charlie sentì l’improvvisa essenza provinciale della Rive Gauche.
Charlie diresse il taxi verso Avenue de l’Opera, che non era di strada. Ma voleva vedere l’ora blu spandersi sulla magnifica facciata e immaginare che i clacson dei taxi, mentre suonavano all’infinito le prime battute de La plus que lente, fossero le trombe del Secondo Impero. Stavano chiudendo l’inferriata davanti alla libreria Brentano’s, e la gente già cenava dietro la siepe potata e piccoloborghese di Duval. Non aveva mai mangiato in un ristorante davvero economico a Parigi. Una cena da cinque portate, quattro franchi e mezzo — diciotto centesimi — vino incluso. Per qualche strana ragione desiderò averlo fatto.
Mentre proseguivano verso la Rive Gauche e lui ne sentiva l’improvviso provincialismo, pensò: “L’ho sprecata, questa città. Senza che me ne rendessi conto, i giorni si sono avvicendati, e poi due anni se ne sono andati, e tutto se n’è andato, e me ne sono andato pure io.”
Aveva trentacinque anni ed era di bell’aspetto. La mutevolezza irlandese del volto era attenuata da una profonda ruga in mezzo agli occhi. Mentre suonava il campanello della casa di suo cognato in Rue Palatine, la ruga divenne più profonda, fino a tirargli giù le sopracciglia; sentì dei crampi al ventre.

Da dietro la cameriera che gli aprì la porta sfrecciò un’adorabile bambina di nove anni che urlò “Papà!” e volò, dibattendosi come un pesce, tra le sue braccia.

Gli girò la testa tirandolo per un orecchio e appoggiò la guancia contro la sua.
“Il mio pasticcino,” le disse.
“Oh, papà, papà, papà, papà, papi, papi, papi!”
Lo trascinò nella sala, dove la famiglia stava aspettando: un bambino e una bambina dell’età di sua figlia, la cognata e il marito. Salutò Marion modulando la voce con cura, onde evitare finto entusiasmo o avversione, ma la risposta di lei fu più schiettamente tiepida, anche se minimizzò l’espressione d’inalterabile sfiducia dirigendo l’attenzione sulla figlia di lui. I due uomini si strinsero la mano amichevolmente e per un attimo Lincoln Peters posò la sua sulla spalla di Charlie.
La stanza era calda e comodamente americana. I tre bambini andavano in giro a loro agio, giocando sui rettangoli gialli che portavano alle altre stanze; l’allegria delle sei di sera si esprimeva nel gioioso crepitio del fuoco e nei suoni di attività francesi provenienti dalla cucina. Ma Charlie non si rilassava; il cuore gli stava rigido nel petto e lui traeva fiducia dalla figlia, che di tanto in tanto gli si avvicinava tenendo tra le braccia la bambola che le aveva portato.
“Davvero benissimo,” dichiarò in risposta alla domanda di Lincoln. “Là ci sono un sacco di imprese completamente ferme, ma noi non siamo mai andati meglio. Anzi, andiamo proprio alla grande. Il prossimo mese farò venire mia sorella dall’America, così si occuperà della casa. L’anno scorso ho guadagnato più di quanto non facessi quando avevo i soldi. Sai, i cechi…”
Si vantava per uno scopo preciso; ma qualche istante dopo, avendo percepito una vaga insofferenza negli occhi di Lincoln, cambiò argomento:
“Avete davvero dei bei bambini, molto educati, dalle buone maniere.”
“Pensiamo che anche Honoria sia una bimba stupenda.”
Marion Peters tornò dalla cucina.

Era una donna alta dagli occhi preoccupati, dotata un tempo di una fresca bellezza americana. Charlie non ne aveva mai subito il fascino e si stupiva sempre quando la gente parlava di quanto fosse stata carina. Fin dall’inizio, tra di loro c’era stata un’istintiva antipatia.

“Be’, come trovi Honoria?” chiese lei.
“Splendida. Sono sbalordito per quanto è cresciuta in dieci mesi. Tutti i bambini li vedo bene.”
“È da un anno che non viene il dottore. Com’è essere di nuovo a Parigi?”
“È davvero buffo vedere in giro così pochi americani.”
“Io ne sono contenta,” disse Marion con foga. “Ora almeno puoi entrare in un negozio senza che ti credano milionario. Abbiamo sofferto come tutti, ma nel complesso si sta molto meglio.”
“Ma è stato bello finché è durato,” disse Charlie. “Eravamo come una casa reale, quasi infallibili, con una sorta di aura magica intorno a noi. Oggi al bar” incespicò, accorgendosi dell’errore “non conoscevo nessuno.”
Lei lo guardò intensamente. “Pensavo ne avessi abbastanza dei bar.”
“Sono stato solo un momento. Bevo un drink ogni pomeriggio, e non uno di più.”
“Non vuoi un cocktail prima di cena?” gli chiese Lincoln.
“Bevo solo un drink ogni pomeriggio, e oggi l’ho già preso.”
“Spero tu faccia sul serio,” disse Marion.
La sua avversione era evidente dalla freddezza con cui parlava, ma Charlie non fece che sorridere; aveva piani più grandi. L’aggressività di lei gli dava un vantaggio e lui sapeva di dover aspettare. Voleva fossero loro a iniziare la discussione sul perché era venuto a Parigi.
A cena non riuscì a decidere se Honoria somigliasse più a lui o a sua madre. Sarebbe stata fortunata a non ereditare i tratti che avevano portato entrambi al disastro.

Lo investì un’ondata di affetto protettivo. Pensava di sapere cosa fare per lei. Credeva nel carattere; voleva tornare indietro di un’intera generazione e confidare di nuovo nel carattere come in un elemento di eterno valore. Tutto si usurava.

Se ne andò poco dopo cena, ma non per tornare a casa. Era curioso di vedere Parigi di notte con occhi più limpidi e giudiziosi rispetto a quelli di un tempo. Prese uno strapontin al Casino e guardò Josephine Baker danzare in arabeschi color cioccolato.
Dopo un’ora se ne andò e s’incamminò verso Montmartre, su per Rue Pigalle fino a Place Blanche. Aveva smesso di piovere e c’erano alcune persone in abito da sera che scendevano dai taxi di fronte ai cabaret, e delle cocottes che si aggiravano da sole o in coppia, e molti neri. Passò davanti a una porta illuminata da cui proveniva della musica e si fermò colto da una sensazione familiare; era il Brick Top’s, dove aveva detto addio a tante ore e tanti soldi. Alcune porte più avanti trovò un altro vecchio punto di ritrovo e, incautamente, infilò dentro la testa. Subito un’orchestra eccitata attaccò a suonare, una coppia di ballerini professionisti si alzò in piedi e un maître d’hôtel gli corse incontro, gridando: “La gente sta per arrivare, signore!” Ma lui si ritrasse prontamente.
“Devi essere ubriaco fradicio,” pensò.
Au Zelli’s era chiuso, i tetri e sinistri hotel da due soldi che lo circondavano erano al buio; su in Rue Blanche c’era più luce e una folla chiassosa di francesi del posto. La Grotta dei poeti era scomparsa, ma le due grandi bocche del Caffè del paradiso e del Caffè dell’inferno erano ancora spalancate — addirittura divorarono, mentre lui guardava, il misero contenuto di un pullman di turisti: un tedesco, un giapponese e una coppia di americani che lo guardarono con occhi terrorizzati.

Tanto valeva dire addio all’ingegno e all’intraprendenza di Montmartre. L’appagamento dato da vizio e spreco era davvero puerile, e all’improvviso comprese il significato del verbo “dissipare” — dissipare nell’aria sottile; fare di qualcosa il nulla.

Nelle ore piccole, ogni spostamento da un luogo all’altro era un balzo enorme, un aumento di costi per il privilegio di movimenti sempre più pigri.
Ricordò le banconote da mille franchi date a un’orchestra per una singola esecuzione, quelle da cento franchi lanciate a un portiere perché chiamasse un taxi.
Ma non le aveva date invano.
Le aveva date, persino le somme scialacquate nel modo più folle, come offerta al destino per non ricordare le cose più degne di essere ricordate, le cose che ora avrebbe sempre ricordato — la figlia sottratta al suo controllo, la moglie fuggita in una tomba nel Vermont.
Nel bagliore di una brasserie una donna gli rivolse la parola. Le pagò delle uova e del caffè, poi, eludendo i suoi sguardi d’incoraggiamento, le diede una banconota da venti franchi e prese un taxi per l’hotel.

II

Si svegliò in una bella giornata d’autunno — tempo da football. La depressione di ieri era sparita e la gente per strada gli piaceva. A mezzogiorno si sedette di fronte a Honoria al Grand Vatel, l’unico ristorante che non gli ricordava cene a champagne e lunghi pranzi iniziati alle due e terminati in un crepuscolo sfocato e vago.
“Allora, che ne dici di un po’ di verdure? Non dovresti mangiare delle verdure?”
“Be’, sì.”
“Ci sono épinards e chou-fleur e carote e haricots.”
“Vorrei i chou-fleur.”
“Non vuoi due verdure diverse?”
“Di solito a pranzo ne mangio una sola.”
Il cameriere fingeva di amare i bambini in modo esagerato.
Qu’elle est mignonne la petite. Elle parle exactement comme une Française.
“Che ne dici del dolce? Vediamo dopo?”
Il cameriere scomparve. Honoria guardò il padre, in attesa.
“Cosa facciamo oggi?”
“Prima andiamo in quel negozio di giocattoli in Rue Saint-Honoré a comprare tutto quello che vuoi. E poi andiamo all’Empire per il vaudeville.”
Lei esitò. “Mi piace il vaudeville, ma il negozio di giocattoli no.”
“Perché?”
“Be’, mi hai regalato questa bambola.” Ce l’aveva con sé. “E ho già un sacco di cose. E non siamo più ricchi, no?”
“Non lo siamo mai stati. Ma oggi avrai tutto ciò che vuoi.”
“Va bene” acconsentì lei, rassegnata.

Quando c’erano la madre di Honoria e una bambinaia francese, aveva avuto la tendenza a essere severo; ora si sforzava, tentava di raggiungere una nuova tolleranza; doveva farle da padre e da madre e non escluderla in alcun modo dalla conversazione.

“Vorrei fare la sua conoscenza”, disse in tono grave. “Ma prima lasci che mi presenti. Mi chiamo Charles J. Wales, di Praga.”
“Oh, papà!” Honoria scoppiò a ridere.
“E lei chi è, gentilmente?” insistette, e lei accettò all’istante il suo ruolo: “Honoria Wales, Rue Palatine, Parigi.”
“Sposata o nubile?”
“No, non sposata. Nubile.”
Lui indicò la bambola. “Ma vedo che ha una bambina, madame.”
Restia a disconoscerla, lei se la strinse al cuore e prontamente pensò: “Sì, sono stata sposata, ma non lo sono più. Mio marito è morto.”
Lui proseguì, pronto: “E il nome della bambina?”
“Simone. È quello della mia migliore amica a scuola.”
“Mi fa piacere che tu vada tanto bene a scuola.”
“Questo mese sono terza”, si vantò lei. “Elsie…” era sua cugina “è solo diciottesima o giù di lì e Richard è più o meno in fondo.”
“Richard ed Elsie ti piacciono, vero?”
“Richard mi piace parecchio e lei abbastanza.”
Con cautela e noncuranza, lui chiese: “E tra zia Marion e zio Lincoln — chi ti piace di più?”
“Oh, zio Lincoln, credo.”
Era sempre più conscio della sua presenza. Quando erano entrati, un mormorio di “… adorabile” li aveva seguiti, e ora le persone al tavolo di fianco piegavano i loro silenzi verso di lei, fissandola come se non fosse più consapevole di un fiore.

Perché non vivo con te?” chiese all’improvviso. “È perché la mamma è morta?”
“Devi stare qui a imparare meglio il francese. Sarebbe stato difficile per papà occuparsi di te così bene.”

“Non ho più bisogno che ci si occupi di me. Faccio tutto da sola.”
Uscendo dal ristorante, un uomo e una donna lo salutarono inaspettatamente.
“Ma guarda, Wales!”
“Ciao, Lorraine… Dunc.”
Inattesi spettri del passato: Duncan Schaeffer, un amico del college. Lorraine Quarrles, un’incantevole, pallida bionda di trent’anni; una delle tante persone che, ai tempi sfarzosi di tre anni fa, li aveva aiutati a trasformare i mesi in giorni.
“Mio marito quest’anno non è potuto venire”, disse lei in risposta alla sua domanda. “Siamo poveri in canna. Così mi ha dato duecento al mese e mi ha detto di farci del mio peggio… Questa è tua figlia?”
“Che ne dici di tornare dentro a sederti?” chiese Duncan.
“Non posso.” Era contento di avere una scusa. Come sempre, percepiva l’ardente, provocante fascino di Lorraine, ma ora lui seguiva un ritmo diverso.
“Be’, che ne dici di cenare insieme?” chiese lei.
“Sono impegnato. Datemi il vostro indirizzo e vi chiamerò.”
“Charlie, credo che tu sia sobrio.”, disse lei con fare critico. “Credo davvero che sia sobrio, Dunc. Pizzicalo e vedi se è sobrio.”
Charlie indicò Honoria con la testa. Risero entrambi.
“Dove stai?” chiese Duncan, scettico.
Charlie esitò, restio a dare il nome del suo hotel.
“Non mi sono ancora sistemato. È meglio se vi chiamo io. Stiamo andando a vedere il vaudeville all’Empire.”
“Ecco! È quello che voglio fare anch’io”, disse Lorraine. “Voglio vedere i clown, gli acrobati e i giocolieri. È proprio ciò che faremo, Dunc.”
“Prima dobbiamo fare una commissione”, disse Charlie. “Forse ci vediamo lì.”
“Va bene, razza di snob… Arrivederci, bella bambina.”
“Arrivederci”.
Honoria annuì educatamente.
In qualche modo, un incontro sgradito. Lo apprezzavano perché era attivo, perché era serio; volevano vederlo perché in quel momento era più forte di loro, perché volevano trarre sostegno dalla sua forza.
All’Empire Honoria rifiutò orgogliosamente di sedersi sul cappotto piegato del padre. Era già un individuo con un codice proprio e Charlie era sempre più consumato dal desiderio di mettere un pizzico di sé dentro di lei, prima che si cristallizzasse del tutto. Era inutile sperare di conoscerla in un tempo così breve.
Tra un atto e l’altro s’imbatterono in Duncan e Lorraine nel foyer dove stava suonando la band.

“Un drink?”
“Va bene, ma non al bancone. Prenderemo un tavolo.”
“Il padre perfetto.”

Mentre ascoltava distratto Lorraine, Charlie osservò gli occhi di Honoria che lasciavano il tavolo e li seguì malinconico attraverso la stanza, domandandosi cosa stessero vedendo. Incrociò lo sguardo di sua figlia e lei sorrise.
“Mi è piaciuta la limonata”, disse.
Che cosa aveva detto? Lui che cosa si era aspettato? Più tardi, tornando a casa in taxi, la tirò a sé finché la sua testa non gli si appoggiò sul petto.
Tesoro, ci pensi mai a tua madre?
“Sì, a volte”, rispose lei vaga.
“Non voglio che la dimentichi. Hai una sua foto?”
“Sì, penso di sì. Comunque, zia Marion ce l’ha. Perché non vuoi che la dimentichi?”
“Ti voleva molto bene.”
“Anche io gliene volevo”.
Per un momento rimasero in silenzio.
“Papà, voglio venire a vivere con te”, disse lei all’improvviso.
Il suo cuore fece un balzo; aveva desiderato che andasse in questo modo.
“Non sei già felicissima così?”
“Sì, ma ti voglio bene più che a chiunque altro. E tu mi vuoi bene più che a chiunque altro, no, ora che la mamma è morta?”
“Certo. Ma piccola mia, non sarò per sempre il tuo preferito. Crescerai e incontrerai qualcuno della tua età e lo sposerai e ti dimenticherai di aver mai avuto un papà.”
“Sì, è vero,” convenne lei serenamente.
Charlie non entrò. Sarebbe tornato alle nove in punto e voleva essere fresco e riposato per ciò che avrebbe detto.
“Quando sei dentro, affacciati alla finestra.”
“Va bene. A presto, papi, papi, papi, papi.”
Attese nella strada buia finché lei non apparve, calda e luminosa, alla finestra di sopra e con le dita mandò un bacio nella notte.

III

Stavano aspettando. Marion sedeva dietro il servizio da caffè in un dignitoso vestito da sera nero che alludeva vagamente al lutto. Lincoln camminava avanti e indietro con l’energia di uno che aveva già iniziato a parlare. Erano ansiosi quanto lui di affrontare la questione. La introdusse quasi subito:
“Immagino sappiate perché vi volevo vedere — la vera ragione per cui sono a Parigi.”
Marion giocava con le stelle nere della sua collana e si accigliò.
“Attendo con ansia di avere una casa”, continuò. “E attendo con ansia che in essa ci sia Honoria. Apprezzo che vi siate occupati di lei per amore di sua madre, ma ora le cose sono cambiate,” esitò, poi continuò con maggior forza “sono cambiate radicalmente per me, e voglio chiedervi di riconsiderare la faccenda. Sarebbe sciocco da parte mia negare che tre anni fa mi comportavo male…”
Marion lo guardò con occhi duri.
“… ma è tutto finito. Come vi ho detto, è da oltre un anno che non bevo più di un drink al giorno, e quel drink lo prendo di proposito, così che l’idea dell’alcol non prenda piede nella mia immaginazione. Afferrate l’idea?”
“No,” disse Marion, sintetica.
“È una sorta di stratagemma. Mantiene la faccenda nelle giuste proporzioni.”
“Capisco,” disse Lincoln “Non vuoi ammettere che esercita un’attrazione su di te.”
“Qualcosa del genere. A volte mi dimentico e non lo prendo. Ma cerco di prenderlo sempre. Comunque, nella mia situazione non potrei rischiare di bere. Le persone che rappresento sono più che soddisfatte di me, e farò venire mia sorella da Burlington perché si occupi della casa, e voglio assolutamente che ci venga anche Honoria. Sapete, anche quando non andavamo d’accordo, io e sua madre non abbiamo mai permesso che quanto accadeva sfiorasse Honoria in alcun modo. Mi vuole bene, lo so, e so di essere in grado di occuparmi di lei e… be’, tutto qua. Che ne pensate?”

Sapeva di essere lì lì per prendere un sacco di botte. Sarebbe durata un paio d’ore e sarebbe stata dura, ma se avesse modulato il suo inevitabile risentimento su un atteggiamento castigato, da peccatore ravveduto, forse alla fine avrebbe messo a segno un punto.

Mantieni la calma, disse a sé stesso. Non vuoi giustificarti. Vuoi Honoria.
Lincoln parlò per primo: “Ne discutiamo da quando il mese scorso ci è arrivata la tua lettera. Siamo felici di avere qui Honoria. È una cara bambina e siamo lieti di poterla aiutare, ma di certo il problema non è questo…”
All’improvviso, Marion lo interruppe. “Per quanto resterai sobrio, Charlie?” chiese.
“Per sempre, spero.”
“Ma quanto possiamo contarci?”
“Lo sapete che non bevevo molto prima di smettere di lavorare e di venire qui a non fare nulla. Poi io e Helen abbiamo iniziato ad andare in giro con…”
“Per favore, lascia fuori Helen. Non sopporto che parli di lei in questo modo.”
La fissò cupo; non era mai stato certo di quanto le sorelle si volessero bene in vita.
“Ho bevuto solo per un anno e mezzo… da quando siamo venuti qui fino a quando sono… crollato.”
“Quanto basta.”
“Quanto basta,” convenne lui.
“Il mio dovere è verso Helen e nessun altro”, disse lei. “Cerco di pensare a cosa avrebbe voluto che facessi. Francamente, dalla notte in cui hai fatto quella cosa terribile per me hai smesso di esistere. Non posso evitarlo. Era mia sorella.”
“Sì.”
“Prima di morire mi ha chiesto di prendermi cura di Honoria. Se dopo non fossi stato in clinica, sarebbe stato meglio.”
Non seppe come rispondere.
“Finché vivrò, non dimenticherò mai la notte in cui Helen ha bussato alla porta, bagnata fino all’osso e tutta tremante, e mi ha detto che l’avevi chiusa fuori.”

Charlie strinse i bordi della sedia. Era più difficile di quanto si fosse aspettato; avrebbe voluto lanciarsi in una lunga discussione e spiegarsi, ma disse soltanto: “La notte in cui l’ho chiusa fuori…” e lei lo interruppe: “Non mi va di riparlarne.”

Dopo un istante di silenzio, Lincoln disse: “Stiamo divagando. Tu vuoi che Marion rinunci alla custodia legale e ti lasci Honoria. Penso che il punto cruciale, per lei, sia se può fidarsi o meno di te.”
“Non biasimo Marion,” disse adagio Charlie “ma penso che possa avere piena fiducia in me. Avevo dei buoni precedenti, fino a tre anni fa. Certo, è possibile che prima o poi commetta un errore. Ma se aspettiamo ancora a lungo, mi perderò l’infanzia di Honoria e perderò l’occasione di avere una casa.” Scosse la testa: “In parole povere perderò lei, non capite?”
“Sì, capisco,” disse Lincoln.
“Perché non ci hai pensato prima?” chiese Marion.
“Suppongo di averlo fatto, di tanto in tanto, ma Helen e io non andavamo d’accordo. Quando ho acconsentito alla custodia, ero nel letto di una clinica e il mercato mi aveva ripulito. Sapevo di essermi comportato male e ho pensato che avrei accettato qualsiasi cosa, pur di dare un po’ di pace a Helen. Ma ora è diverso. Sono attivo, mi sto comportando bene, maledizione, per quanto…”
“Per favore, non imprecare,” disse Marion.
La guardò, colto di sorpresa. Commento dopo commento, la forza della sua avversione diventava sempre più evidente. Marion aveva eretto un muro di paura di vivere e lo aveva rivolto contro di lui. Quel futile rimprovero era forse il risultato di qualche problema avuto con la cuoca diverse ore prima. Charlie era sempre più spaventato all’idea di lasciare Honoria in un’atmosfera di ostilità nei suoi confronti; presto o tardi sarebbe venuta fuori in una parola qua, in un cenno del capo là, e un po’ di quella sfiducia sarebbe stata irrimediabilmente instillata in Honoria. Ma rimosse la collera dal viso e la chiuse dentro di sé; aveva segnato un punto, perché Lincoln si era reso conto dell’assurdità del commento di Marion e le aveva chiesto con garbo da quando era contraria alla parola “maledizione”.
“Un’altra cosa,” disse Charlie: “Posso darle certi vantaggi, ora. Porterò con me a Praga una governante francese. Ho in affitto un nuovo appartamento…”

Si fermò, rendendosi conto dell’errore. Non poteva aspettarsi che accettassero con serenità il fatto che guadagnasse di nuovo il doppio di loro.

“Immagino tu possa darle più lussi di noi,” disse Marion “Quando buttavi via i soldi, noi tiravamo avanti contando anche i dieci franchi… immagino ricomincerai a farlo.”
“Oh, no,” disse lui. “Ho imparato. Ho lavorato sodo per dieci anni, sai — finché non ho avuto fortuna in borsa, come tanta altra gente. Una fortuna incredibile. A quel punto sembrava non esserci più motivo di lavorare, così ho smesso. Non accadrà di nuovo.”
Ci fu un lungo silenzio. Tutti e tre avevano i nervi tesi e, per la prima volta da un anno, Charlie ebbe voglia di un drink. Ora era certo che Lincoln Peters voleva che riavesse sua figlia.
All’improvviso Marion sussultò; una parte di lei vedeva che i piedi di Charlie erano ben piantati a terra, e l’istinto materno riconosceva la genuinità del suo desiderio; ma aveva vissuto a lungo con un pregiudizio — un pregiudizio fondato su un singolare scetticismo verso la felicità della sorella e che, nello choc di una notte terribile, si era trasformato in odio verso Charlie. Tutto era successo in un momento della vita in cui lo scoramento per la cattiva salute e le circostanze avverse avevano reso necessario che lei credesse in una cattiveria tangibile, in un cattivo tangibile.
“Non posso fare a meno di pensarlo!” gridò all’improvviso. “Quanto sei stato responsabile per la morte di Helen, non lo so. È qualcosa per cui dovrai vedertela con la tua coscienza.”
Sentì una scossa elettrica di angoscia; per un istante fu sul punto di alzarsi, mentre un suono represso gli echeggiava in gola. Rimase aggrappato a sé per un istante, un altro istante.
“Aspetta,” disse Lincoln a disagio. “Non ho mai pensato che ne fossi responsabile.”

“Helen è morta per un problema cardiaco,” disse Charlie in tono monocorde.
“Sì, un problema cardiaco.” Marion parlò come se per lei quell’espressione avesse un significato diverso.

Poi, nella desolazione che seguì il suo sfogo, vide Charlie con chiarezza e capì che in qualche modo era arrivato ad avere il controllo della situazione. Lanciando un’occhiata al marito non trovò alcun sostegno e bruscamente, come se fosse una questione senza importanza, gettò la spugna.
“Fa’ come vuoi!” gridò balzando in piedi. “È tua figlia. Non sarò io a mettermi in mezzo. Penso che se fosse mia figlia preferirei vederla…” Riuscì a contenersi. “Decidete voi. Non sopporto tutto questo. Sto male. Vado a letto.”
Si precipitò fuori dalla stanza; dopo un istante Lincoln disse:
“È stata una giornata dura per lei. Lo sai quant’è sensibile…” Era quasi un tono di scuse: “Quando una donna si mette un’idea in testa.”
“Certo.”
“Andrà tutto bene. Ora capisce che puoi… provvedere a tua figlia e che non possiamo metterci tra te e Honoria.”
“Grazie, Lincoln.”
“È meglio se vado a vedere come sta.”
“Me ne vado.”
Quando raggiunse la strada stava ancora tremando, ma una camminata lungo Rue Bonaparte fino ai quai lo rimise in sesto, e mentre attraversava la Senna, fresca e inedita sotto le luci del quai, si sentì invadere dall’esultanza. Ma tornato in camera sua non riuscì a dormire. L’immagine di Helen lo perseguitava. Helen, che aveva amato finché non avevano preso ad abusare in modo insensato l’uno dell’amore dell’altra, riducendolo a brandelli. In quella terribile notte di febbraio che Marion ricordava in modo tanto vivido, un lento litigio era andato avanti per ore.

C’era stata una scenata al Florida, poi lui aveva tentato di portare Helen a casa, poi lei aveva baciato il giovane Webb a un tavolo; dopodiché c’era stato quello che lei, ormai isterica, aveva detto. Quando se ne era tornato a casa da solo, aveva girato la chiave nella serratura con rabbia selvaggia.

Come poteva sapere che lei sarebbe arrivata un’ora dopo, sola, che ci sarebbe stata una bufera di neve in cui avrebbe vagato con quelle scarpette, troppo confusa per trovare un taxi? E poi le conseguenze, il suo sfuggire alla polmonite per miracolo e il relativo orrore. Si erano “riconciliati”, ma era stato l’inizio della fine e Marion, che aveva visto la scena con i suoi occhi e aveva immaginato fosse una delle tante del martirio di sua sorella, non aveva mai dimenticato.
Ripensarci gli portò Helen più vicina e nella bianca, tenue luce che coglie di sorpresa il dormiveglia verso mattina si trovò a parlare di nuovo con lei. Lei gli disse che aveva assolutamente ragione riguardo a Honoria e che voleva stesse insieme a lui. Disse che era contenta che facesse il bravo e si sentisse meglio. Disse un sacco di altre cose — cose molto gentili — ma era su un’altalena, vestita di bianco, e dondolava sempre più veloce, tanto che alla fine Charlie non riuscì più a sentire con chiarezza tutto quello che diceva.

IV

Si svegliò sentendosi felice. La porta del mondo era di nuovo aperta. Elaborò piani, prospettive, futuri per sé e Honoria, ma all’improvviso s’intristì, ricordando tutti i piani fatti insieme a Helen. Non aveva pianificato di morire. A importare era il presente — un lavoro da svolgere e qualcuno da amare. Ma da non amare troppo, perché conosceva i danni che un padre può infliggere a una figlia standole troppo vicino, o una madre a un figlio: in seguito, nel mondo, il figlio cercherà nella consorte la stessa cieca tenerezza e, non riuscendo a trovarla, si rivolterà contro l’amore e la vita.

Era un altro giorno luminoso, frizzante. Chiamò Lincoln Peters alla banca dove lavorava e gli chiese se poteva contare sul fatto di portare Honoria con sé quando fosse ripartito per Praga.

Lincoln convenne che non c’era motivo di rimandare. Una cosa — la custodia legale. Marion voleva mantenerla un po’ più a lungo. Era turbata da tutta la faccenda, e la sensazione di avere il controllo sulla situazione per un altro anno avrebbe facilitato le cose. Charlie fu d’accordo, desiderando solo sua figlia, tangibile, visibile.
Poi la questione della governante. Charlie sedette in una tetra agenzia e parlò con una bernese irascibile e con una formosa contadina bretone, nessuna delle quali avrebbe potuto sopportare. Ne avrebbe viste altre l’indomani.
Pranzò con Lincoln Peters al Griffon, cercando di tenere a freno l’esultanza.
“Niente è come la propria figlia,” disse Lincoln. “Ma penso tu capisca come si sente Marion.”
“Si è dimenticata che ho lavorato sodo per sette anni,” disse Charlie. “Si ricorda solo di una notte.”
“C’è dell’altro.” Lincoln esitò. “Mentre tu e Helen scorrazzavate per l’Europa buttando via i soldi, noi a malapena tiravamo avanti. Non ho mai raggiunto il benessere perché non ho mai avuto un successo tale da permettermi qualcosa in più dell’assicurazione. Marion deve aver pensato che in questo ci fosse una forma d’ingiustizia — verso la fine tu neanche lavoravi e diventavi sempre più ricco.”
“È sparito tutto con la stessa rapidità con cui era arrivato.”
“Sì, molto è restato nelle mani di chasseur e sassofonisti e maître d’hôtel… be’, ora la festa è finita. L’ho detto solo per chiarire i sentimenti di Marion riguardo a quegli anni folli. Se stasera passi verso le sei, prima che lei sia troppo stanca, sistemeremo i dettagli.”
Di nuovo in hotel, Charlie trovò uno pneumatique che era stato reindirizzato dal bar del Ritz, dove aveva lasciato il suo recapito con l’intento di trovare un tizio.

Caro Charlie,
quando ti abbiamo visto l’altro giorno eri così strano che mi sono chiesta se avevo fatto qualcosa per offenderti. Se è così, non ne sono consapevole. In realtà, nell’ultimo anno ho pensato a te fin troppo, e in un angolo della mia mente ho sempre sperato che se fossi venuta qui ti avrei visto. Ci siamo divertiti un sacco durante quella folle primavera, come la notte in cui abbiamo rubato il triciclo del macellaio, o quella in cui abbiamo provato a far visita al presidente e tu avevi la vecchia bombetta e il bastone da passeggio. Ultimamente tutti sembrano così vecchi, ma io non mi sento vecchia per niente. Oggi non potremmo incontrarci e stare un po’ insieme, in onore dei vecchi tempi? Al momento soffro dei postumi di una sbronza, ma nel pomeriggio starò meglio e intorno alle cinque verrò a cercarti in quel covo di approfittatori del Ritz.

Sempre con affetto,
Lorraine

La sua prima reazione fu di stupore per aver davvero, in età adulta, rubato un triciclo e aver pedalato con Lorraine per l’Ètoile tra le ore piccole e l’alba. A posteriori, era stato un incubo. Chiudere fuori Helen non si accordava con nessun’altra azione della sua vita, ma l’episodio del triciclo sì — era uno dei tanti. Quante settimane, quanti mesi di dissolutezza per arrivare a quella condizione di totale irresponsabilità?
Cercò d’immaginarsi come gli era apparsa Lorraine a quel tempo — molto attraente; Helen non ne era stata felice, anche se non aveva detto nulla. Ieri, al ristorante, Lorraine era sembrata banale, appannata, deperita.
Non voleva in alcun modo vederla, ed era contento che Alix non avesse rivelato l’indirizzo del suo hotel. Era un sollievo, invece, pensare a Honoria, pensare alle domeniche con lei e a dirle buongiorno e a saperla in casa sua la notte, mentre respirava nel buio.

Alle cinque prese un taxi e comprò regali per i Peters — una bambola di pezza tutta pepe, una scatola di soldatini romani, fiori per Marion, grandi fazzoletti di lino per Lincoln.

Quando arrivò all’appartamento vide che Marion aveva accettato l’inevitabile. Lo accolse come un recalcitrante membro della famiglia, piuttosto che come un estraneo minaccioso. Avevano detto a Honoria che se ne sarebbe andata; Charlie fu contento di vedere che il tatto le permetteva di celare l’eccessiva felicità. Solo quando fu in braccio gli sussurrò la sua gioia e la domanda “Quando?”, prima di sgattaiolare via con gli altri bambini.
Charlie e Marion restarono da soli nella stanza per un attimo e, d’impulso, lui parlò apertamente e con audacia:
“Le liti familiari sono aspre. Non seguono alcuna regola. Non sono come i dolori o le ferite; sono più come i tagli sulla pelle che non guariscono perché non c’è abbastanza tessuto. Vorrei che il nostro rapporto fosse migliore.”
“Certe cose sono difficili da dimenticare,” rispose lei. “È una questione di fiducia.” A questo non ci fu risposta e subito dopo lei chiese: “Quando pensi di venire a prenderla?”
“Non appena avrò assunto una governante. Speravo dopodomani.”
“Impossibile. Devo mettere a posto le sue cose. Non prima di sabato.”
Charlie si arrese. Quando rientrò nella stanza, Lincoln gli offrì un drink.
“Prenderò il mio whisky quotidiano,” disse lui.
Era caldo qui, era una casa, persone riunite intorno al fuoco. I bambini si sentivano molto al sicuro e importanti; la madre e il padre erano seri, vigili. Avevano cose da fare per i figli ben più importanti della sua visita. Un cucchiaio di medicina era, in fondo, più importante dei rapporti tesi tra lui e Marion. Non erano persone spente, ma si trovavano nella morsa della vita e delle circostanze. Si chiese se non poteva fare qualcosa per liberare Lincoln dalla sua routine in banca.
Un lungo scampanellio alla porta; la bonne à tout faire passò in mezzo a loro e percorse il corridoio. La porta si aprì dopo un altro lungo trillo, e poi voci, e i tre nella sala levarono lo sguardo, in attesa; Lincoln si spostò per far entrare il corridoio nel suo campo visivo, Marion si alzò. Poi la cameriera tornò indietro seguita da vicino dalle voci, che nella luce si trasformarono in Duncan Schaeffer e Lorraine Quarrles.

Erano allegri, erano euforici, si sbellicavano dalle risate. Per un istante Charlie restò sbalordito, incapace di capire come avessero scovato l’indirizzo dei Peters.

“Ah-ha!” Duncan agitò il dito verso Charlie con fare da canaglia. “Ah-ha!”
Entrambi proruppero in una nuova cascata di risate. Nervoso e disorientato, Charlie strinse prontamente loro la mano e li presentò a Lincoln e Marion. Marion annuì, parlando a malapena. Aveva indietreggiato di un passo verso il fuoco; sua figlia le stava di fianco e lei le mise un braccio intorno alle spalle.
Con crescente fastidio per l’intrusione, Charlie attese che i due si spiegassero. Dopo essersi concentrato per qualche secondo, Duncan disse:
“Siamo venuti per invitarti fuori a cena. Lorraine e io pensiamo che la devi finire con tutta ‘sta cautela e ‘sto snobismo sul tuo indirizzo.”
Charlie si avvicinò, come per risospingerli nel corridoio.
“Mi spiace, non posso. Ditemi dove andate e vi chiamo tra mezz’ora.”
Non ottenne alcun effetto. All’improvviso, Lorraine si sedette sul bordo di una sedia e focalizzando l’attenzione su Richard esclamò: “Oh, ma che bel bambino! Vieni qui, bambino.” Richard lanciò un’occhiata alla madre, ma non si mosse. Con un’evidente alzata di spalle, Lorraine si girò verso Charlie:
“Vieni a cena. Sicuro ai tuoi cugini non darà fastidio. Ti si vede così di rado. O sei così serioso.”
“Non posso,” disse Charlie, tagliente. “Andate a cena, poi vi chiamo”.
La voce di lei divenne improvvisamente sgradevole. “Va bene, ce ne andiamo. Ma ricordo di una volta in cui hai picchiato alla mia porta alle quattro di mattina e sono stata tanto gentile da offrirti un drink. Forza, Dunc.”
Ancora al rallentatore, con i volti appannati e rabbiosi, a passi incerti, arretrarono lungo il corridoio.
“Buona notte,” disse Charlie.
“Buona notte!” rispose Lorraine con enfasi.
Quando tornò nella sala, Marion non si era mossa; ora si limitava a cingere il figlio con l’altro braccio. Lincoln faceva ancora oscillare Honoria da una parte all’altra come un pendolo.
“Ma che indecenza!” esplose Charlie. “Che totale indecenza!” Nessuno dei due parlò. Charlie si lasciò cadere su una poltrona, prese il suo drink, lo mise giù di nuovo e disse:
“Persone che non vedo da due anni hanno l’enorme faccia tosta di…”
S’interruppe. Marion aveva emesso un “Oh!” in un repentino, furioso sospiro, si era voltata di scatto ed era uscita dalla stanza.
Con molta attenzione, Lincoln mise giù Honoria.
“Voi bambini iniziate a mangiare la minestra,” disse e, quando ebbero ubbidito, disse a Charlie:
“Marion non sta bene e non sopporta gli choc. Quel tipo di gente la fa stare male fisicamente.”
“Non gli ho detto io di venire qui. Hanno estorto il tuo nome a qualcuno. Hanno di proposito…”
“Be’, è un peccato. Non aiuta di certo. Scusami un attimo.”
Lasciato solo, Charlie rimase sulla poltrona, in tensione. Sentiva i bambini che mangiavano e parlavano a monosillabi nella stanza accanto, già dimentichi della scena tra gli adulti. Sentì il mormorio di una conversazione provenire da una stanza più lontana e poi il ticchettio di un ricevitore alzato, e preso dal panico si spostò dall’altra parte della stanza, non a portata d’orecchio.
Un attimo dopo Lincoln rientrò. “Charlie, ascolta. È meglio se per stasera annulliamo la cena. Marion non è in forma.”
“È arrabbiata con me?”
“In un certo senso,” disse, quasi bruscamente. “Non è forte e…”
“Vuoi dire che ha cambiato idea su Honoria?”
“Al momento è parecchio ostile. Non lo so. Chiamami in banca domani.”
“Vorrei le spiegassi che non avrei mai immaginato che quelle persone sarebbero venute qui. Sono scosso quanto voi.”
“In questo momento non potrei spiegarle nulla.”
Charlie si alzò. Prese il cappotto e il cappello e s’incamminò lungo il corridoio. Poi aprì la porta della sala da pranzo e disse con voce strana: “Buona notte, bambini”.
Honoria si alzò e corse intorno al tavolo per abbracciarlo.
“Buona notte, amore,” disse lui in modo vago e poi, cercando di intenerire la voce, cercando di fare pace con qualcosa: “Buona notte, bambini cari.”

V

Charlie andò dritto al bar del Ritz con l’idea furibonda di trovare Lorraine e Duncan, ma loro non erano lì, e si rese conto che in ogni caso non c’era nulla da fare. Dai Peters non aveva toccato il suo drink e ora ordinò un whisky e soda. Paul si avvicinò per salutarlo.
“È un gran cambiamento,” disse triste. “Facciamo circa la metà degli affari di un tempo. Ho sentito che negli Stati Uniti molti hanno perso tutto, forse non nel primo crollo, ma dopo, nel secondo. Il suo amico George Hardt ha perso ogni singolo centesimo, pare. Lei è tornato negli Stati Uniti?”
“No, ho degli affari a Praga.”
“Ho sentito che ha perso parecchio nel crollo.”
“È vero,” e aggiunse tetro “ma tutto ciò che volevo l’ho perso nel boom.”
“Vendendo allo scoperto.”
“Qualcosa del genere.”

Di nuovo il ricordo di quei giorni lo travolse come un incubo — la gente che avevano incontrato viaggiando; poi la gente che non riusciva a fare due conti o a dire una frase coerente. L’ometto con cui Helen aveva accettato di ballare alla festa sulla nave, quello che l’aveva insultata a dieci passi dal tavolo; le donne e le ragazze che urlavano per l’alcol o le droghe portate via dai luoghi pubblici…

… Gli uomini che avevano chiuso la moglie fuori nella neve, perché la neve del ventinove non era vera neve. Se volevi che non fosse neve, ti bastava pagare.
Andò al telefono e chiamò l’appartamento dei Peters; rispose Lincoln.
“Ho chiamato perché non riesco a levarmi questa storia dalla testa. Marion ha detto nulla di preciso?”
Marion sta male,” tagliò corto Lincoln. “So che non è tutta colpa tua, ma non posso permettere che cada a pezzi. Temo che dovremo lasciar perdere per sei mesi; non posso rischiare di turbarla di nuovo fino a questo punto.”
“Capisco.”
“Mi dispiace, Charlie.”
Tornò al tavolo. Il bicchiere di whisky era vuoto, ma scosse il capo quando Alix lo guardò con aria interrogativa. Non c’era molto da fare, ora, a parte mandare delle cose a Honoria; l’indomani le avrebbe mandato un sacco di cose. Pensò con una certa rabbia che erano solo soldi — aveva dato dei soldi a così tanta gente…
“No, basta,” disse a un altro cameriere. “Quanto le devo?”
Un giorno o l’altro sarebbe tornato; non potevano fargliela pagare per sempre. Ma voleva sua figlia, e ora niente aveva un gran valore, a parte questo. Non era più giovane, con un sacco di bei pensieri e sogni per sé. Era assolutamente sicuro che Helen non avrebbe voluto che fosse così solo.

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