In Catalunya il risentimento fa rima con silenzio

Come ho capito che scrivere è necessario

The Catcher
The Catcher
9 min readOct 10, 2017

--

(via / Elaborazione grafica The Catcher)

Di Sara Beltrame, scrittrice, giornalista, sceneggiatrice.

PREMESSA

“E metti che tu debba scrivere un racconto, no? Dove c’è un pilota d’aereo che sorvola una città, una città tipo la nostra, Torino.”
“A-han.”
“Da che punto di vista lo scriveresti?”
“Dell’aereo.”
Fu l’ultima risposta che diedi. Poi presi il treno, ripercorsi 443 chilometri di pianura e tornai a casa.
“Dove sei stata?”
“A fare un giretto.”
Dissi a mio padre. Stava guardando il Tg delle 20:30, steso sul divano e senza togliersi le scarpe.
Passarono i giorni.
Non molti giorni, solo alcuni ne passarono, finché finalmente squillò il telefono. Era un telefono di quelli grigi, a disco, con la cornetta pesante.
Da quando avevo perso l’accordatore lo utilizzavo per riaccordare la chitarra, perché avevo scoperto che il “tu-tu” che si sentiva dalla cornetta e dava il segnale di libero, prima di comporre un numero, era un “la” perfetto.
“Pronto?”
Chiesi.
“Ciaaaaao, Saaa-ra?”
La sua voce mi spillò il timpano, allontanai la cornetta.
Era Antonella Dellaholden Di Torino, disse. Mi chiese come stavo e subito continuò dicendo che i selezionati per la Scuola di Alessandro Baricco — come sapevo — dovevano essere solo 26, ma che il ventiseiesimo aveva rinunciato e che, se volevo, il suo posto sarebbe stato il mio.
Era il 1994, ottobre.
La scuola iniziava il 9 di novembre.
Il 5 e il 6 il Po esondò.
Dal treno vidi una vacca spaesata in equilibrio sul tetto di una casa sommersa dall’acqua.
Ci misi 15 ore per arrivare a Scuola.
L’8 novembre compii diciannove anni.

Alcune delle cose sulla scrittura che assorbii durante i due anni di Scuola Holden non le capii affatto, ma mi sembravano bellissime. Le ripetevo davanti agli spritz ai miei amici di Treviso quando tornavo a casa.
In questi giorni a Barcellona, dove vivo da una decina d’anni, ho inteso bene che cosa significhi:

scrivere è un gesto necessario. Mi ci son voluti più di vent’anni per sentir friggere nella carne il significato profondo di questa bellissima frase.

SILENZIO E RISENTIMENTO

Caganer politici (via)

Quando viene Natale una delle statuine emblematiche del presepio in Catalunya è il Caganer, un personaggio che indossa l’abito catalano (berretto rosso in testa, camiciola bianca, pantaloni e fascia rossa attorno alla vita), con le braghe calate sotto le ginocchia, accucciato nell’atto di defecare. Del Caganer, ogni anno se ne producono versioni d’ogni tipo, utilizzando le sembianze di personaggi famosi: Obama caganer, Messi caganer e così via.
I bambini a Natale non trovano i regali sotto l’albero, ma li fanno defecare da un tronco con naso, occhi e bocca (il Tió) al quale hanno lasciato cose da mangiare durante la notte. Il giorno dopo lo picchiano con un bastone finché non smolla sotto la coperta le sorprese infiocchettate, al ritmo di una canzoncina imparata fin dall’asilo, la canzone “Caga Tió caga”.

Una delle attività sociali più popolari ed emblematiche in Catalunya sono i Castells. Ogni barrio (quartiere) ha una propria colla di castellers: un gruppo di persone di età diverse che si riunisce un giorno alla settimana, di generazione in generazione, a praticare le figure dei castelli umani.

Spiegato bene (via)

Si tratta di questioni complicatissime che hanno a che fare con l’equilibrio, un sentimento profondo di unità e di coraggio. Nella struttura architettonica dei Castells, la parte più importante è la pinya, la base di supporto alla torre, costituita dalle donne e dagli uomini più forti. Poi sopra vengono i più agili e per ultimo un bambino o una bambina che scala la torre e completa la figura. Dato che le persone della colla sono concentrate nella pinya a testa bassa, per evitare lesioni nel caso in cui crolli la torre, il montaggio del castell è accompagnato da una musica che informa la colla su come si sta sviluppando la figura. La musica è suonata con una gralla e un tamburello. I Catalani identificano il proprio sentimento di appartenenza e unione con la figura della pinya.

In questi giorni di tensione, durante le assemblee di quartiere, la sera, nella piazza dietro casa, si sentiva spesso dire: “ens veiem i fem pinya”,“ci vediamo e facciamo pigna”. Stringersi gli uni con gli altri, supportarsi, contare l’uno sull’altro.
Il più grande concorso di Castells si celebra nell’Arena di Tarragona. Da qualche anno a questa parte, all’evento partecipano anche Els xiquets de Hangzhou, i bambini di Hangzhou.
Sono tutti cinesi.
Fortissimi, ammiratissimi.
Tracce di presenza taurina nell’arena: zero.

Le corride sono bandite in Catalunya.

Il ballo ufficiale dei catalani è un ballo sociale: la Sardana (da Sardegna). Non ci sono limiti di età, tutti possono partecipare. Si pratica in cerchio presi per mano, (un uomo, una donna, un uomo, una donna etc.) accompagnati da una musica di strumenti a fiato. La musica ha radici nel valzer o nella mazurca. Tracce di note flamenche: zero.
La prima volta che ho assistito ad uno spettacolo flamenco qui a Barcellona è stato perché un coinquilino svedese, una sera, tornando a casa, farfugliò un qualcosa stringendo tra l’indice e il pollice il collo di vetro di una Estrella Damm, la centesima di quella sera probabilmente. Disse che s’era infilato –non sapeva bene come, in un postaccio nel Carrer Robadors, dove suonavano e ballavano un flamenco sudato, autentico, da far perdere la testa. Dopo avergli sottratto indicazioni preziose a riguardo, m’incamminai verso quel luogo. C’è da dire che il Carrer Robadors era uno dei punti caldi nella Barcellona pre e post Olimpiadi. Spaccio, prostituzione, etc. Quindi, per sicurezza, mi portai dietro anche il mio compagno catalano dell’epoca. Disconosceva l’esistenza di un simile locale a Barcellona e per la strada continuava a dire che Rasmus (lo svedese) era ubriaco e come potevo pensare di credergli.

Il bar era lungo e stretto con le luci basse e le pareti di mattoni, non di quelli all’inglese, di quelli alla romana, che sembra si debbano sgretolare appena ti puntelli con un gomito per cercare una posizione un po’ comoda e bere in piedi una birra. L’aria pesante, umida. La gente ammassata, seduta per terra. Recuperiamo posizioni e finalmente riusciamo a sederci anche noi, tra una tedesca e un paio di olandesi, vicino a due luci e due microfoni a stelo che qualcuno sembrava essersi scordato lì un mese prima, al fondo del locale.

Il flamenco al Robadors (via)

La musica flamenca c’era, ma gracchiava da certe casse storte, fissate col filo da pesca a dei chiodi nel muro. Stavamo per alzarci e andarcene, ma arrivò un tizio, dal fondo. Era vestito di tutto punto, come se dovesse andare a un matrimonio e si fece largo tra la folla, guardando bene di mettere giù i piedi in modo da non schiacciare qualche mano. Aveva le scarpe lucide, i capelli lunghi e neri, le sopracciglia ben folte. Tra la spalla e il collo caricava una tavolaccia quadrata che sembrava pesantissima. La mollò al suolo. Fece un rumore secco e sordo, si alzarono qualche dita di polvere, starnutii poi zittimmo.
Il tizio si dispose nel mezzo della tavolaccia. Aspettò qualche secondo lì, immobile, con la testa bassa, il tronco leggermente avvitato sulla sinistra e le mani sui fianchi. Poi, a un certo punto, quando si guadagnò tutto il silenzio di cui si sentiva degno, alzò il mento, puntando con lo sguardo l’entrata del locale.

123 456 78 910 11 12 123 456 78 910 11 12 123 456 78 910 11 12

Iniziò a picchiettare con il tacco, sulla tavolaccia quadrata, i tempi di un compas. Maldito sueco, sussurò il mio compagno, estasiato.

I Catalani si sono inventati l’unica imbarcazione a vela senza timone. Si chiama patì català. La usavano per trasportare le merci quando le spiagge erano orlate solo di fabbriche, mica di ombrelloni e turisti. Al mare, i Catalani, hanno dato le spalle fino a poco prima delle Olimpiadi. Prima, la città di Barcellona, era un calderone di sporcizia e malattie. Si producevano tessuti e ogni quartiere aveva la propria baraccopoli, dove vivevano le famiglie venute dal Sud a cercare lavoro.

Il barrio del Somorrostro a Barcellona (via)

Quella era la gente che si costruiva le baracche con i legni che il mare rivomitava sulla spiaggia come fossero tesori, dopo la tempesta. Tra i catalani e la gente del sud non scorreva buon sangue. Facevano fatica a capirsi. Avevano abitudini diverse, lingue diverse, musiche diverse, avevano un senso della comunità diverso, un sentimento religioso diverso, un potere economico molto diverso. I Catalani, per anni, hanno sfruttato la manodopera della gente del sud contribuendo a foraggiare il risentimento tra queste due comunità. Fu per una burla del destino, forse, che la più grande ballerina di flamenco di tutti i tempi nacque in Catalunya, nella baraccopoli del Somorrostro, la più antica di Barcellona.

“Ho imparato a ballare al ritmo delle onde, nella spiaggia del Somorrostro.” Così diceva. Si chiamava Carmen Amaya.

Quando arrivai qui, pensando di essere atterrata in Spagna e non in Catalunya, capii poco a poco tutte queste cose, non perché mi sia stato dato un trittico informativo sulla cultura catalana e sulla gente che abita questa terra, ma a suon di domande e silenzi.
Tutte le risposte alle domande sul perché di queste profonde differenze culturali tra loro e gli spagnoli sembravano puntare sempre il dito contro il franchismo, ma formulare racconti che includessero il nome di Franco ad alta voce produceva un impenetrabile “effetto-voldemort”, o grattatine imbarazzanti dietro il collo, o tentativi di sviare il tema sul tempo meteorologico che avrebbe fatto nel weekend.
Non c’era mai, da parte di nessuno, la creazione di un racconto esplicito sulla dittatura e sul risentimento. Nessuno si è mai seduto a rievocare con angoscia le violenze sofferte dal popolo catalano durante la guerra civile o durante la dittatura.
Perché non parlano?
Dov’erano i monumenti ai caduti? Dove i libri delle testimonianze dirette? I documentari? I film? L’unico film che si poteva vedere a riguardo, era di un inglese, Ken Loach. Bellissimo, per carità, ma loro? Non avevano niente da dire? Niente da mostrare? Qualcosa, ci sarà, no, Gesù santo?
Niente.
Zero.
Silenzio.

La storia della Catalunya in un’infografica, che contiene anche un sacco di approfondimenti. Ecco l’originale da navigare, sempre a cura dell’autrice.

La risposta me la diede, infine, un amico irlandese che conobbi a uno dei corsi gratuiti di catalano organizzati dal comune.
“È il Pacto del Olvido.” Mi disse. “Suona bene, no?” Aggiunse, alzando un sopracciglio (arancione).
Ci incamminammo poi verso La Central, nel barrio del Raval, una libreria enorme, con i pavimenti di legno antico che suona a ogni passo, come quelli di una barca. Spulciammo per un po’ nella sezione Storia, ma il libro che cercava lui — e che mi regalò, lo trovò pubblicato solo nella versione originale, l’inglese.
Si trattava di Ghost of Spain, uscito nel 2006, e scritto da Giles Tremlett, un giornalista che da molti anni viveva a Madrid. In quel libro — memorabile — trovai molte delle risposte che cercavo, ma in particolare incontrai per la prima volta la definizione di Pacto del Olvido, il patto della dimenticanza.

Foto dell’autrice, scattata in questi giorni difficili

Se si cerca su Wikipedia:

“Il Patto della Dimenticanza è la decisione politica presa dalla Spagna (sia dai partiti di sinistra che di destra) di evitare di affrontare l’eredità lasciata del franchismo dopo la morte nel 1975 del Generale Francisco Franco che rimase al potere fin dalla Guerra Civile Spagnola (1936–1939). Il Patto della Dimenticanza è il tentativo di lasciare il passato alle spalle e di concentrarsi sul futuro della Spagna.”

Dal 1978 la nuova Costituzione è pronta ed è la stessa che dichiara illegale il Referendum di Autodeterminazione.
Il giudice che si occuperà di giudicare per sedizione le persone implicate nell’organizzazione del Referendum del Primo di Ottobre è un ex ispettore franchista. Si chiama Ismael Moreno e come lui molte altre sono le persone vicine al franchismo che rivestono in Spagna cariche pubbliche.

Foto dell’autrice, scattata in questi giorni difficili

Niente giudizi, niente imputazioni, niente funerali, niente nomi sulle tombe.
Solo: el olvido, el silencio. Il Risentimento.

--

--