Chiamate telefoniche: Giorgio Biferali racconta Italo Calvino

Un ricordo d’autore di uno degli scrittori italiani più amati

The Catcher
The Catcher
13 min readOct 15, 2018

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(Illustrazione di Giovanni Gastaldi)
(Il podcast è a cura di Holden Sound)

Italo Calvino è stato uno dei più grandi scrittori italiani del l’900, uno dei pochi a stare sempre al passo con i tempi — ad anticiparli, anche — e se pensiamo a libri come Il barone rampante, Gli amori difficili, Marcovaldo, La giornata d’uno scrutatore, Le cosmicomiche, Palomar, non sembrano libri scritti dallo stesso autore. Ogni libro per lui era come un esordio. “È a quel libro, che penso”, diceva. “A quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro”.
Italo Calvino nasce nel 1923 a Cuba, a Santiago de Las Vegas, dove il padre dirige una stazione d’agricoltura. Nella sua famiglia sono tutti scienziati: il padre è un agronomo, la madre è assistente di botanica all’università, il fratello diventerà un futuro geologo di fama internazionale. Lui è l’unico che sceglierà una strada diversa — un po’ come il barone rampante, che decide di non mangiare le lumache e che vivrà sugli alberi, per tutta la vita.

Fin da bambino è abituato a viaggiare, a non rimanere mai per troppo tempo nello stesso luogo. Abitare, per lui, è uno strano verbo, fa pensare agli abiti e alle abitudini. Le città, i luoghi lui li poggia sulla sedia, come fossero vestiti, come fossero abiti, appunto. E il giorno dopo è pronto a indossarne di nuovi.

Da piccolo ha l’abitudine di andare al cinema. È il luogo ideale, il luogo dove lui comincia a formarsi, a formare il suo sguardo. È un luogo dove effettivamente si impara a guardare e a stare in silenzio. Quel silenzio che ha ragioni che la parola non conosce. Legge il «Corriere dei piccoli», legge Kipling, e diventa una sorta di vignettista satirico del «Bertoldo», che è una rivista ideata e curata da Cesare Zavattini.
Scrive una raccolta di racconti intitolata Pazzo io o pazzi gli altri, la presenta a Einaudi e ottiene il suo primo rifiuto, proprio da Einaudi che diventerà la sua casa editrice.
Ma c’è un’esperienza che gli cambierà per sempre la vita: l’esperienza della Resistenza. Senza rendersene conto, per trovarsi finalmente a tu per tu con il suo destino, forse aveva bisogno di una grande avventura, del pericolo di quello che lui chiamava “un inaspettato incontro con la vita” e con un mondo in cui nessuno dà ordini, dove non esistono capi ma esseri umani, e dove il futuro può avere un sapore più dolce.

“La Resistenza mi ha messo al mondo”, ha detto lui. “Tutto quel che scrivo parte da quell’esperienza. Solo le rivoluzioni e i grandi movimenti innovatori mettono in moto la coscienza, danno diritto a dire”.

Ed è proprio da lì, da quell’esperienza, che nasce il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, pubblicato nel 1947. Viene raccontata la Resistenza, ma attraverso gli occhi di un bambino, gli occhi di Pin, il protagonista, e viene raccontata la Resistenza come fosse una fiaba.
È un romanzo di formazione, un romanzo di avventure, un romanzo picaresco, un po’ come Pinocchio, che è un libro molto importante per Italo Calvino e il protagonista, Pin, e il nome del protagonista ricordano in effetti quello dell’antieroe di Collodi. È un romanzo che in fondo racconta lo sguardo e la vita di un bambino nel mondo dei grandi.

Le copertine illustrate della trilogia de I nostri antenati (collana Oscar Junior Mondadori)

Gli anni ’50 sono gli anni de I nostri antenati, “una sorta”, diceva lui “di albero genealogico favoloso dell’uomo contemporaneo”: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959). Se il visconte Medardo di Terralba viene colpito da una palla di cannone e diviso in due parti — una buona e una cattiva — Agilulfo il cavaliere semplicemente non esiste, è un’armatura tutta bianca, un’armatura vuota, leggera, che forse anticipa quella leggerezza che Calvino scriverà e racconterà nelle Lezioni americane. Il barone Cosimo, invece, è a tavola con la sua famiglia e si rifiuta di mangiare le lumache. Allora, per ribellarsi, si rifugia su un albero, senza sapere forse, in quel momento, che ci vivrà per tutto il resto della sua vita.
Il barone Cosimo in fondo non è altro che una questione di sguardo, di sguardi, di passare da un albero all’altro per trovare la giusta distanza dalle cose e rimanere su un albero, sugli alberi, per tutta la vita, non è altro in fondo che rimanere fedele a una scelta che lui aveva fatto quando era bambino.

“Sono stato bambino molto a lungo”, aveva risposto Calvino in un’intervista, quando gli avevano chiesto fino a che età fosse stato bambino.

E quello stesso giorno, durante la stessa intervista, alla domanda “Ma tu, da bambino, eri un bambino buono?”, lui ci ha pensato un attimo, guardando a terra e accennando un sorriso leggero, e ha detto: “Ebbene, la cosa ti potrà deludere, ma penso che lo sono ancora, un bambino buono”.
E negli anni Cinquanta, oltre a scrivere I nostri antenati, oltre a leggere i libri degli altri e a pubblicare le Fiabe italiane, a tradurre le fiabe della nostra tradizione da Nord a Sud, comincia a scrivere dei racconti su un personaggio chiamato Marcovaldo, un animo semplice, padre di una famiglia numerosa, manovale in una ditta, che proprio come Italo passa dalla vita di campagna a quella della grande città, della metropoli. Sono 20 racconti scanditi con il ritmo primavera-estate-autunno-inverno che si ripetono per cinque volte. Marcovaldo è sempre un po’ malinconico, ha nostalgia della natura, ma piano piano i suoi occhi si abituano alle luci, ai rumori, ai suoni, alle immagini della città.

Italo Calvino nel 1961

Nel 1963 pubblica La giornata di uno scrutatore: racconta una giornata, appunto, nella vita di Amerigo Ormea, che si trova a vestire i panni dello scrutatore durante le elezioni politiche del ’53 nel Cottolengo di Torino, un istituto religioso dove sono ricoverati gli infelici, individui affetti da qualche malattia mentale o fisica. Amerigo sa, non appena entra, che si trova lì per un’unica ragione, controllare che i preti e le suore non influenzino la scelta di voto di quelle persone meno fortunate che a volte non possono né intendere né volere di testa loro, ma quell’atteggiamento ostile del primo mattino, quei sospetti, con il passare del tempo svaniscono. È come se lì dentro, tra soccorritori e derelitti, abitatori di un mondo nascosto, Amerigo vedesse per la prima volta la società ideale, dove non contano gli interessi ma la vita. Lui, Amerigo, che si sentiva in qualche modo migliore, che credeva di sapere già tutto, dopo aver visto un padre che ogni domenica va a trovare il figlio solo per vederlo masticare, impara dalla vita la lezione più importante: l’umano arriva dove arriva l’amore, non ha confini se non quelli che gli diamo.
Lui comincia a leggere solo libri di astronomia, a scrivere storie tutte diverse di un personaggio che ha un nome molto strano e che ha tutte le età dell’universo. Il personaggio — che ha un nome difficile da pronunciare, Qfwfq — assume tutte le forme viventi possibili ed è il protagonista delle Cosmicomiche, che è del ’65, e di Ti con zero, che è del ’67.

Calvino sembra riconoscersi in quel suo personaggio strano, con quel nome impronunciabile, soprattutto quando diventa un mollusco attaccato a uno scoglio, che non è in grado di vedere gli altri membri della sua specie ma che può comunque affidarsi alle sensazioni, ai messaggi femminili che il mare gli sbatte addosso.

In quei messaggi, forse, proprio perché non può vedere nulla, riesce a riconoscerne uno in particolare, che lo fa sentire diverso. “Il modo amoroso di pensarla”, dice lui, “la volontà di essere per lei, di essere io che fossi io e per lei che fosse lei e l’amore per me stesso che mettevo nell’amore per lei. E anche se quel momento che sembra infinito a un certo punto finisse, sarebbe comunque unico, la spinta vitale per muoversi, per guardarsi intorno, per non smettere mai di cercarla ovunque, in tutte le cose, e magari capire che l’amore quando arriva è così forte da offrire occhi anche a chi non ne ha. E che la luce di quegli occhi, i primi occhi del mondo a innamorarsi, sarebbe stata la stessa luce negli occhi di tutti quelli che si sarebbero innamorati dopo. Tutti questi occhi erano i miei, dice Qfwfq, il primo innamorato della storia. Quegli occhi li avevo resi possibili io”.
Gli anni ’70 si aprono con Gli amori difficili, una raccolta di racconti, una serie di avventure, l’avventura di un soldato, l’avventura di una bagnante, l’avventura di un fotografo, l’avventura di un viaggiatore, l’avventura di un lettore, che come le definisce Calvino “sono storie di come la coppia non si incontra”. Oltre a Gli amori difficili, negli anni ’70 Calvino viaggia, viaggia molto. Visita alcune città del Giappone tra cui la capitale, Tokyo, una città tutta a strade sopraelevate, cavalcavia, monorotaie, snodi. Va in Messico, poi si trova di fronte a un albero che ha duemila anni, alto quaranta metri, con un tronco largo, quasi tozzo. “Certo, è il più vecchio essere vivente che mi sia capitato di incontrare” dice Calvino. Durante i suoi viaggi, anche quelli immaginari, Calvino tiene un diario particolare dove non scrive quello che vede, quello che c’è dietro, che non si vede e che lui immagina. Questo diario, nel ’72, prende la forma di un libro, un’altra raccolta di racconti in cui, com’era già successo con Marcovaldo, Italo fa una dichiarazione d’amore alla città, alle città di tutto il mondo, anche se con il passare del tempo stanno diventando invivibili. Non a caso nel titolo gioca con questo termine, “invivibili”, cambiandone solo una lettera: Le città invisibili. Dentro si trovano 55 città, tutte inventate, e ognuna porta il nome di una donna: Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni, dove i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano; Zirma, che ricorda vagamente New York, dove ogni giorno si vedono sempre le stesse cose, da un pazzo che si sporge dal cornicione di un grattacielo, a una ragazza che porta un puma al guinzaglio; Maurilia, che sembra un museo, piena di cartoline e di immagini del passato, cosicché il viaggiatore possa rimpiangere la città com’era prima. A raccontare tutto è Marco Polo, ambasciatore, viaggiatore, scrittore veneziano, vissuto a cavallo tra il 1200 e il 1300, autore del più importante libro di viaggio della nostra letteratura, Il Milione, che con le sue storie intrattiene l’imperatore dei tartari, Kublai Khan, incontrato durante uno dei suoi tanti viaggi. Qual è il senso profondo di questo diario, di questi racconti? Che cosa sono veramente le città invisibili? Sono quelle che non esisteranno mai se non siamo capaci di pensarle, di fantasticarle, di immaginarle, anche perché, come diceva Calvino, “dietro una città che si vede, ce n’è una che non si vede, ed è quella che conta”.

Italo Calvino (a sinistra, seduto) a una riunione dell’Oulipo nel 1975 (via)

In quegli stessi anni, a Parigi, Italo frequenta gli scrittori dell’OuLiPo, una specie di gruppo, di movimento, di officina, in cui si cercano di scoprire tutte le possibilità creative, anche le più strane, che può offrire la letteratura. Conosce Georges Perec, capace di pubblicare libri dove raccoglie tutti i sogni che fa o i ricordi che gli tornano alla mente, e un romanzo, La scomparsa, dove non compare mai la lettera “e”. E altri come Raymond Queneau, che diventa grande amico di Italo, che pubblica un libro intitolato Esercizi di stile, dove racconta la stessa storia in 99 modi diversi. Italo li ascolta, li ammira, si fa contagiare dai loro discorsi e, dopo Il castello dei destini incrociati, che pubblica nel 1973, dove dei personaggi si incontrano in una locanda, attorno a un tavolo, e si raccontano le loro avventure attraverso le figure dei tarocchi, delle carte da gioco, nel 1979 pubblica quello che è, forse, il suo libro più folle, più strano: Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Già dal titolo si capisce che manca qualcosa, che la frase è rimasta a metà e verrebbe da chiedersi che cosa viene dopo la parola “viaggiatore”. In effetti è così, è un libro di inizi, dove tutto comincia e niente finisce. E non a caso, Italo avrebbe voluto intitolarlo Incipit.

I protagonisti del romanzo, questa volta, sono due: un lettore e una lettrice. Entrambi vanno in libreria curiosi di leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino, che è anche quello che se li è inventati, questi due personaggi. Quindi, c’è quasi il rischio di confondersi.

Non appena lo comprano, il lettore e la lettrice si accorgono che il romanzo in fondo non c’è, o almeno non è come se lo aspettavano: dentro trovano altri dieci romanzi. Sulle prime pagine, però, manca la parte centrale e ovviamente la fine. Dopo aver cominciato l’ultimo incipit capiscono cosa c’è sotto, che la corsa da un romanzo all’altro, solo per trovarne uno che abbia una fine, non è altro che una scusa, un’esca, una trappola amorosa inventata da Calvino per farli incontrare. Il romanzo da vivere, in fondo, è più importante del romanzo da leggere.
Gli ultimi anni della sua vita Italo li passa a Roma, che per lui è una città molto simpatica, che vive di tempi lunghi, dove la fretta non esiste. Gli piace il fatto di poter mangiare camminando per la città senza l’obbligo di sedersi a tavola. L’unico difetto, forse, per lui è che Roma è una città che non conosce l’arte del silenzio, che è più difficile dell’arte del dire. Nel 1983 pubblica Palomar, il suo ultimo romanzo. È l’ennesima rivelazione d’amore allo spazio cosmico, ai pianeti, alle stelle, visto che Palomar è il nome di un osservatorio astronomico che si trova in America. Anche se Palomar, dietro cui si nasconde chiaramente Calvino, non osserva le cose con un telescopio, ma solo quelle molto vicine. O meglio, è un personaggio che guarda le cose vicine come fossero lontanissime, e le cose lontane come fossero vicine.

L’osservatorio di Monte Palomar negli USA (foto di signal mirror, via)

Calvino e Palomar hanno gli stessi occhi, lo stesso sguardo, vedono le stesse cose: entrambi credono molto alla superficie, a quello che si vede da fuori, non si sentono molto a loro agio nell’epoca del “profondismo”, in cui nessuno si interessa più di quello che vede, di quello che appare, delle prime impressioni, e sentono tutti il bisogno di spiegare, di trovare ragioni, di capire cosa c’è sotto. Quando Italo e Palomar guardano Roma dall’alto del loro terrazzo, quel sali e scendi di tetti che, poi, è la forma vera della città, condividono lo stesso pensiero: solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto, ma la superficie delle cose è inesauribile.
Hanno fatto gli stessi viaggi nello stesso periodo, sono stati in Messico, hanno comprato un paio di pantofole in un paese orientale e sentito l’odore dei formaggi in un negozio di Parigi. Entrambi, poi, sentono di essere arrivati alla fine del viaggio più importante, più lungo, più bello e più faticoso: quel viaggio che poi è la vita, perché ormai hanno imparato a guardare il mondo, a leggerlo, a fare ordine nelle cose, e hanno capito che è arrivato il momento di farsi da parte, anche perché il mondo esisteva già prima dei loro occhi, prima che loro cominciassero a guardarlo, e continuerà a esistere sempre, a prescindere da chi lo guarda.

“Prima” pensa Palomar, e quindi Calvino, “per mondo lui intendeva il mondo, più lui. Adesso si tratta di lui, più il mondo, meno lui”. In fondo, la vita finisce quando sembra che non ci sia più niente da guardare.

Nel 1985 Calvino viene invitato in America, all’Università di Harvard, per tenere delle conferenze, delle lezioni di letteratura. Pensa di intitolarle Six memos for the next millennium, Sei memorandum per il prossimo millennio: sei proposte, sei finestre piene di luce per affacciarsi al nostro millennio. Prima di morire, il 19 settembre 1985, Calvino fa in tempo a scrivere solo cinque di quelle lezioni, di quei memorandum: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. E fa in tempo solo a pensarci di andare in America, immaginarsi lì, davanti a una marea di studenti che lo ascoltano, lo guardano, lo aspettano da anni, mentre lui cerca di non tremare, di non perdere la voce, di non mangiarsi le parole. A distanza di qualche anno dalla morte di Calvino, la moglie Esther si fa coraggio e rimette insieme le carte, i fogli, gli appunti di quelle cinque lezioni, scegliendo di intitolarle Lezioni Americane.
La molteplicità: andare oltre noi stessi, guardarci intorno, ricordarci degli altri, del mondo lì fuori, dell’universo che non ha fine.
La leggerezza: la leggerezza pensosa, la stessa leggerezza che ha la luna o che abbiamo noi quando alziamo lo sguardo per cercarla.
La rapidità: l’agilità di pensiero, la disinvoltura, la capacità di adattamento, l’esattezza, trovare le parole giuste evitando di essere vaghi, imprecisi, astratti.
Infine, la visibilità: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di pensare per immagini, ma non solo quelle con cui ci bombardano ogni giorno nelle pubblicità. E la visibilità, forse, è la sua lezione più importante, perché — come scrisse a un amico francese in una lettera — “l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere, in mezzo al mondo”.

GIORGIO BIFERALI è nato a Roma nel 1988. Ha pubblicato L’amore a vent’anni (Tunué, 2018), Italo Calvino. Lo scoiattolo della penna (La nuova frontiera 2017), A Roma con Nanni Moretti (Bompiani 2015, con Paolo Di Paolo).

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