Lazy Jones era un retrogamer

Dal Commodore 64 alla PlayStation 2: generazioni a confronto

The Catcher
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5 min readOct 25, 2018

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(via)

di Sergio Oricci

I videogiochi di una volta non erano quello che sono oggi. Il lancio sul mercato di SEGA Dreamcast (in Europa, il 14 ottobre 1999) ha rappresentato una frattura, un momento di passaggio per il mercato videoludico delle console tanto quanto nel mondo dell’arte lo sono stati Marcel Duchamp e la sua Fontana (1917).

Perché proprio il 14 ottobre 1999? In fondo la grafica 3D era stata sdoganata con la generazione precedente. Semplificando, possiamo dire che la Dreamcast e in seguito la PlayStation 2 hanno introdotto per la prima volta il gioco online nel mondo console, e tanto basta per legarle a un concetto di contemporaneità che, senza la nostra presenza in rete, non ha davvero senso di esistere.

Se con Dreamcast e PlayStation 2 inizia l’epoca del videogioco contemporaneo, andando indietro nel tempo possiamo dire che PlayStation, Saturn e Nintendo 64 rappresentano il videogioco moderno, mentre Super Nintendo e SEGA Megadrive e ancora prima NES e SEGA Master System sono i più conosciuti esponenti del videogioco classico. La sintesi è brutale, ingenerosa verso piattaforme incredibili come NEO-GEO e PC-Engine, e tralascia tutto il settore relativo agli home computer precedenti ai PC (Commodore 64 prima, la serie Amiga poi).

Sul perché il videogioco, da fenomeno relativamente di nicchia, sia diventato da quel momento in avanti sempre più prodotto di massa, mentre l’arte anche nella sua fase contemporanea abbia mantenuto una dimensione meno accessibile, si potrebbe discutere molto, ma senza alcun dubbio la cultura pop (videogiochi, ma anche serie TV e cinema) e la sua fruizione hanno qualcosa che alla cultura “altra” manca: la nostalgia.

Nessuno si riferisce alla lettura di un romanzo di Dostoevskij parlando di una qualche forma di retroreading; in pochi, di solito addetti ai lavori che hanno vissuto quel mondo dall’interno, parlano di nostalgia legata ai tempi in cui Giorgio Morandi dipingeva bottiglie e Piero Manzoni soffiava in palloncini (Corpi d’aria) e defecava in barattoli oppure li riempiva di gesso (Merda d’artista).

Per letteratura e arte lo studio dei classici viene valutato da molti qualcosa di imprescindibile, mentre nei videogame l’operazione è stata a lungo considerata un vezzo nostalgico da nerd.

Recentemente il retrogaming sembra però vivere un momento di grande popolarità. Nelle vetrine dei negozi mi capita sempre più spesso di vedere Mini Super Nintendo, Mini Nintendo NES, perfino Mini Commodore 64. Riedizioni in miniatura delle vecchie macchine da gioco, con un certo numero di titoli precaricati.

Nostalgia canaglia (via)

Anche per quanto riguarda il retrogaming si possono distinguere diverse fasi. Fino ai primi anni 2000 ruotava attorno a un concetto semplice: la ricerca. Si cercavano le console e le cartucce ormai fuori produzione tra fondi di magazzino, amici che volevano disfarsene o negozietti che trattavano l’usato.

Con l’era contemporanea, e quindi con la rete, siamo passati ai primi emulatori, software che permettono di giocare vecchi videogiochi su piattaforme attuali come PC o console portatili. Quindi di fatto si creavano delle copie-software delle vecchie console e si cercavano delle ROM (file dei videogiochi) quasi sempre illegali per poter rigiocare ai titoli desiderati.

A un certo punto si era creato un segmento di mercato occupato da console portatili open-source e sistema operativo basato su Linux, dedicate in modo praticamente esclusivo al retrogaming. Ricordo la GP2X e i modelli successivi prodotti dalla GamePark Holdings, per esempio.

L’esperienza però non era ancora del tutto soddisfacente. Quindi via con le mini-console: quasi uguali alle originali, meno costose, facili da connettere a TV di ultima generazione. Vecchie-nuove console che diano l’impressione di essere vecchie-vecchie senza la scomodità che l’obsolescenza tecnologica porta con sé.

Può essere questo il retrogaming definitivo? Non credo, perché la scomodità è una parte importante dell’esperienza, e senza quella tutto ciò che resta è un vecchio videogioco. Non tutti i videogiochi classici sono belli, così come non lo sono tutti i classici della letteratura e dell’arte.

Oggi, con i visori per la realtà virtuale e le potenzialità ancora inespresse di queste periferiche, c’è la possibilità di introdurre la scomodità nel retrogaming senza doverci riempire la casa di cavi e televisori a tubo catodico.

Mi immagino di indossare un visore e di trovarmi proiettato nelle due dimensioni e mezza di un mondo senza rete. Il gioco inizierebbe con un’edicola dove acquistare «ConsoleMania» per leggere il Bovas’ Hard Cafè, dove qualcuno della redazione finge di essere Lord SNK per alimentare il dibattito “I videogiochi potranno mai essere arte? O forse lo sono già?”. Poi potrei leggere le news e qualche recensione e andare alla ricerca della pubblicità di un negozio che venda giochi di importazione, magari Bit World. Telefonare, chiedere se Captain Tsubasa IV per Super Famicom in versione giapponese è ancora disponibile. Informarmi su cosa devo fare per giocarlo su una console europea. Comprare il gioco, l’adattatore, spendere centocinquantamila lire più le spese di spedizione, senza sapere se quello che sto comprando sarà un pacco totale o un gioco bello davvero come si dice in giro. Non ci sono video da vedere, bisogna credere alle due foto sgranate in bassa risoluzione in cui l’unica cosa che riconosco è il cappellino di Genzo Wakabayashi: basta e avanza per farmi salire l’hype.

Captain Tsubasa IV in versione giapponese (via)

Vorrei scoprire di aver speso bene quei soldi (oppure no), godere della solidità di una cartuccia tra le mani, sfogliare un vero libretto con i disegni in stile manga.

Passare sul Megadrive e giocare a Fist of the North Star, che in Europa era diventato Last Battle: con i nomi diversi e ripulito dal sangue non mi sembrava più Kenshiro, nonostante il gioco fosse proprio lo stesso. Ma i nemici che esplodono senza schizzi, come una Big Babol, no. Il sangue in un gioco di Ken il guerriero è importante.

Poi potrei uscire di casa, andare in sala giochi e sbavare davanti al coin-op di Altered Beast sperando che prima o poi quel gioco arrivi su una console casalinga. Esultare per l’uscita su Megadrive, e scoprire che anche se il gioco non è bello neanche la metà di quello del bar, è comunque fantastico averlo a casa e non dover spendere duecento lire ogni volta che voglio fare una partita.

E poi, uscito dalla sala giochi, vorrei accendere il Commodore 64 per aiutare Lazy Jones ad attraversare le stanze della sua sala giochi, giocare ai quindici videogiochi nel videogioco (nel videogioco) e scoprire che già nel 1984 c’era qualcuno che sviluppava una simulazione di retrogaming.

Sergio Oricci (Fiesole, 1982) ha pubblicato i romanzi Bianco Shocking (edizioni 20090, 2014) e Cereali al neon (effequ, 2018), più articoli e racconti sulle riviste «Tipografia Helvetica», «Osso Magazine», «Exibart», «Altrisogni», «Rapsodia», «Crapula Club». Un suo racconto è presente in Odi. Quindici declinazioni di un sentimento (effequ, 2017).

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