Chiamate telefoniche: Giordano Meacci racconta David Foster Wallace

Un ricordo a dieci anni dalla morte dello scrittore di Ithaca

The Catcher
The Catcher
4 min readSep 12, 2018

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(Illustrazione di Giovanni Gastaldi)
(Il podcast è a cura di Holden Sound)

Parlare di David Foster Wallace è difficile se cerchi di spiegartelo o spiegarlo. Diventa meno difficile se provi a immaginare perché il suo genio sia talmente pieno di vite da riuscire a serrarti a spirale in ogni pagina, in ogni rigo che ha scritto, e questo a ogni lettura. Sì, spiegare David Foster Wallace è come provare a spiegare le vite quotidiane che viviamo barcamenandoci tra le pieghe raffazzonate del presente. Allora meglio indicare la sua arte e ringraziarlo. Una buonanotte che lo salvi dalla fatica delle nostre frequentazioni reiterate della sua biografia. Ringraziarlo per le pagine che ha scritto, per il modo che si è scelto per scriverle, soprattutto, per tutte le incompiutezze che ci ha regalato, per tutti gli infiniti momenti di splendore che ci sono arrivati al cuore passando direttamente dal cervello, che del cuore, di là dalle operazioni metaforiche per celebrarne l’iconografia, è il gestore e il cardine sottovalutato e senza colpe. Mi è capitato di scrivere tempo fa, meglio, ho voluto scrivere tempo fa che la scrittura non capita nella volontà e nelle intenzioni, capita, se si è fortunati nella resa, solo dopo averla sognata a lungo. Ho voluto scrivere tempo fa su David Foster Wallace che, se fossi pazzo e abbastanza coraggioso, potrei dire sempre giocando che è il fratello perduto di cui sono il figlio unico. Un paradosso onirico che l’avrebbe infastidito probabilmente e che inevitabilmente (gli avverbi in -mente ci sono, usiamoli) mi avrebbe costretto alla divagazione e alla digressione compulsiva e in fuga di tutti gli improvvisatori, mi avrebbe probabilmente e inevitabilmente costretto all’angolo grave delle sue domande senza secondi fini.

Tutti e due a cercarci a vicenda quel tertium comparationis che ci manca sempre per trovare un legame esatto tra il desiderio di perfezione e la perfezione raggiunta. Quello sbaglio continuo che sta sugli alberi come le foglie in autunno e non è mai, a parte qualche volta. Qualche volta di molte pagine di David Foster Wallace.

Quello che la sua opera ci ha regalato, nel tempo, è un grido da una rupe, in cui con la sua voce affida al vento, per tutti (come accade sempre nella grande letteratura), le storie che si sono affastellate in un tempo preciso: dalla prima lallazione del futuro tennista di Ithaca al respiro estremo di cui fatichiamo a trovare un istante di confine.

Ma eccolo il miracolo senza trucchi, il fuoco d’artificio di giorno in cui il rumore si fa luce. Ogni volta di quel grido intuiamo, con la meraviglia dei bambini di fronte al mago che tira fuori un coniglio invisibile dal cilindro, l’inarcatura sintattica, i vortici di pensiero, i legami tra le parole che passano il segno e se lo passano tra loro, con l’incanto ammirato del Come che si fa Cosa. E non ci sono più parole da togliere o da aggiungere, ma quelle parole. L’aggettivo più difficile di sempre, in letteratura, finalmente è domato da un grido che non lo prevede.

Ho un ricordo antico della prima lettura pubblica di Infinite Jest, da poco tradotto da Edoardo Nesi, da poco pubblicato dalla Fandango in una collana diretta da Sandro Veronesi: la voce registrata di David Foster Wallace da Marco Cassini in segreteria, che chiude il romanzo nel cuore della notte avvicendandosi a una stupita Fernanda Pivano. E se penso alle parole di quel romanzo, alla fine, ogni volta, cosa c’è di meglio per ricordare la grandezza di uno scrittore se non lasciare le sue parole anche in un’altra lingua? Il frattale luminoso che non rappresenta, l’ironia scolpita via dal marmo della sua stessa privazione, la spietatezza generosa della vita al suo meglio e al suo peggio, costantemente e incessantemente. Ecco, è sempre lo stesso brano che mi torna alla mente.

Orin Incandenza al sole, da solo, nella Jacuzzi accanto alla piscina e “con un piatto, prosaico, plop. Dal nulla. Dal grande cielo vuoto” cade un uccello morto nell’acqua: proprio accanto alla sua gamba. E qui la frase, il saluto di David Foster Wallace al futuro remoto della sua stessa fine, l’interrogativo di Sisifo che la sua opera ha comunque lasciato intatto e vitale: “Non c’era verso di prendere la cosa come un buon auspicio”.

GIORDANO MEACCI conduce La lingua batte su Radio3.
Nel 2015 ha scritto con Claudio Caligari e Francesca Serafini Non essere cattivo di Claudio Caligari. Nel 2016 ha portato un cinghiale in finale al Premio Strega (Il cinghiale che uccise Liberty Valance, minimum fax). EÈ nota la sua passione per Fabrizio De André: nel 2018, insieme a Francesca Serafini, lo ha fatto rivivere sul grande e sul piccolo schermo (Fabrizio De André — Principe Libero di Luca Facchini); sempre nel 2018 ha scritto con Dori Ghezzi e Francesca Serafini Lui, io, noi (Einaudi Stile Libero).

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