Freelancing e Castigo

Da Dostoevskij al realismo capitalista

Daniele Zinni
The Catcher
10 min readFeb 1, 2018

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Fëdor e i suoi valori (Sxc / elaborazione grafica The Catcher)

“Mia madre non capisce che lavoro faccio” e concetti affini mi hanno sempre dato d’istinto da sbuffare; grazie a Dostoevskij ho capito perché. Possibile che questi genitori capiscano cosa fa un ingegnere ma non un grafico, un regista, un giornalista — perché il settore è puntualmente quello del lavoro culturale? Il mestiere più recente, dei tre che ho citato, esiste da più di un secolo.

Lo studio di Fedor Dostoevskij a San Pietroburgo

Un articolo di Tommaso Naccari, due anni fa, lanciava alcuni spunti interessanti; oggi provo a raccogliere il testimone e mettere quegli spunti a sistema. Il fulcro, mi sembra, è che i miei genitori, come i genitori di molti, capiscono benissimo “che lavoro faccio”, ma forse non capiscono come funziona il mercato del lavoro culturale – più spesso, come non funziona – e faticano ad accettare che siamo finiti in un fosso. Quando dico “noi”, intendo quelli tra noi che galleggiano tra collaborazioni mal pagate, stage gratuiti, contratti a termine, e molte domande senza risposta. È la gavetta — o il precariato spinto, a seconda di come lo guardi. I genitori che “non capiscono” lo interpretano secondo il paradigma dell’investimento sicuro, destinato a essere ripagato, e prendono certi piccoli episodi come segnali che la promessa sia sul punto di avverarsi. Che so, un articolo firmato su una grande testata o la pubblicazione di un romanzo:

Bravo! Fa curriculum! Prima o poi, qualcuno ti noterà!

Peccato che, 99 volte su 100, i proventi di un romanzo non ripaghino minimamente il tempo e lo sforzo di scriverlo; che, comunque, nessuno o quasi, in Italia, riesca a sostentarsi solo scrivendo narrativa; e che in alcuni casi la pubblicazione di articoli e simili da parte delle grandi testate avvenga all’insaputa dell’autore, perché c’è gente che tende ad appropriarsi dei contenuti che trova su internet come se non fossero coperti da diritto d’autore.

Qualcuno mi noterà lo stesso? Subire un sopruso fa curriculum?

“Avete mai la sensazione di essere stati fregati?”

Altro che investimento sicuro: nei giorni di maggiore incertezza, la sensazione è quella di essere stati presi in uno schema di Ponzi. Ne ha scritto, con dovizia di particolari, Raffaele Alberto Ventura, in Teoria della classe disagiata. Lo schema di Ponzi è una truffa: in parole povere, un operatore finanziario ti promette che investirà il tuo capitale; in realtà, se lo intasca e ogni tanto ti rende qualche spicciolo, dicendoti che sono gli interessi maturati. Ecco: se è vero che ci stanno truffando, allora il capitale di tempo, denaro ed energie che hai versato durante la formazione e la gavetta, nella convinzione di poterlo riscattare in futuro sotto forma di salario stabile, in realtà non lo hai investito, ma speso.

Hai acquistato, per un certo periodo, l’illusione di partecipare al mito della Cultura, del Giornalismo, del Cinema; hai ottenuto accrediti per i festival; hai usato hashtag come #artistlife, anche se con ironia.

Il giorno in cui finiranno i soldi, dovrai rinunciare a questi piaceri. Se conservi, come credo conservino i nostri genitori, il paradigma dell’investimento sicuro, allora gli articoletti pubblicati qui e là, i cortometraggi passati alle due di notte su Rai International, sono cedole di interessi sul capitale. In uno schema di Ponzi, invece, sono spiccioli di ritorno, se non addirittura esperienze accessorie, acquistate a margine del percorso di formazione come si paga l’ingresso al museo non incluso nel prezzo della gita a Barcellona. Ma torniamo a noi. A proposito di promesse disattese, ero partito con Dostoevskij e me lo sono perso per strada.

Don’t you cry tonight, Fëdor still loves you, baby

Ci arrivo subito: prima, volevo suggerire il contesto emotivo-intellettuale utile ad apprezzare la scena di Delitto e castigo che riporterò tra poco, nella traduzione di Giorgio Kraiski per Garzanti. Il momento è quello in cui Rodiòn Raskòlnikov, il protagonista, va a salutare la madre per l’ultima volta, perché ha preso una decisione terribile. A beneficio di chi non conosce il romanzo e non teme gli spoiler, riassumerò gli antefatti con vergognoso pressapochismo:

Raskòlnikov ha combinato un guaio. Voleva diventare un grande intellettuale ma ha dovuto abbandonare l’università per mancanza di soldi; allora ha ammazzato una vecchia usuraia e l’ha derubata, con l’obiettivo di rifinanziarsi e cominciare una nuova vita. When in trouble, go big. Peccato che i piani non siano andati affatto come previsto e la polizia sia sul punto di arrestarlo. Dopo settimane di angoscia e delirio, la pressione si è fatta insostenibile.

Uno degli elementi che rendono la posizione di Raskòlnikov particolarmente scomoda, persino imbarazzante, è un articolo che ha scritto qualche tempo prima, in cui sostiene che gli uomini eccezionali non dovrebbero rispondere dei propri crimini perché un fine grandioso giustifica i mezzi. Non proprio il ragionamento che vorresti aver firmato, quando vieni convocato in questura per un interrogatorio.

Modi di uccidere con l’accetta

Appunto quell’articolo, un po’ nietzscheano ante litteram e un po’ fesso, diventa il dettaglio centrale dell’incontro tra Raskòlnikov e sua madre. Lui è sul punto di costituirsi, cioè di riconoscere una volta per tutte il fallimento di ogni progetto e aspirazione. Lei, che del delitto non sa nulla, cerca da giorni di spiegarsi il malumore e l’aggressività del figlio; le capita di leggere l’articolo, e proprio a partire da quello – la beffa più cocente, per Rodiòn – inventa la speranza di un grande successo e l’immagine di un figlio intelligentissimo.

I nomi dei personaggi:
- Rodiòn Raskolnikov, detto Ròdja: protagonista
- Pulchèrija Aleksàndrovna: madre di Rodiòn
- Dùnečka: sorella di Rodiòn
- Dmìtrij Prokòfjic: amico di Rodiòn

Bussò all’uscio; gli aprì sua madre. Dùnečka non era in casa. A quell’ora non c’era nemmeno la domestica. Dapprincipio Pulchèrija Aleksàndrovna non riuscì a parlare, per la sorpresa e per la gioia; poi lo afferrò per una mano e lo trascinò con sé dentro la stanza.

«Eccoti, finalmente!» cominciò a dire, balbettando dalla gioia. «Non te la prendere con me, Ròdja, se ti accolgo in questo modo, così da stupida, con le lacrime agli occhi: non piango, sai? Rido… Credi che stia piangendo? No, è la gioia; è sempre così, stupida che sono: subito mi spuntano le lacrime. È dalla morte di tuo padre che piango per ogni cosa. Siediti, caro; devi essere stanco, lo vedo. Ah, come ti sei sporcato…»

«Ieri ho preso la pioggia, mamma…» cominciò a spiegare Raskòlnikov. «Ma no, caro, no,» lo interruppe Pulchèrija Aleksàndrovna.«Tu certo pensavi che avrei incominciato a farti tante domande, secondo le mie vecchie abitudini da donnicciola; no, no, non devi preoccuparti. Io capisco, sai, capisco tutto, ormai ho imparato le cose di qui, e vedo anch’io che qui tutto è più intelligente. Ho deciso una volta per tutte: come potrei capire i tuoi ragionamenti, e chiederti conto di quello che fai? Dio sa che cose e che progetti hai nella testa, o quali idee vi stanno nascendo… Dovrei forse toccarti col gomito e domandarti: dimmi, cosa stai pensando? Io… Ah, Signore! Ma perché mi agito come una matta?… Io, Ròdja, è già la terza volta che rileggo il tuo articolo pubblicato in una rivista. Me l’ha portato Dmìtrij Prokòfjic… Sono rimasta a bocca aperta, quando ho visto l’articolo… Che stupida, ho pensato, ecco di che cosa si occupa, ecco la spiegazione di tutto! Forse in questo momento gli vengono delle idee nuove, le sta meditando, e io invece lo tormento e gliele confondo. Leggo il tuo articolo, caro, e naturalmente molte cose non le capisco; del resto, è giusto che sia così, come potrei?»

«Fate un po’ vedere, mammina.»

Raskòlnikov prese in mano la rivista e dette un’occhiata al suo articolo. Per quanto stridesse con la sua situazione e con il suo stato d’animo, provò nondimeno quel sentimento strano, dolce e insieme pungente, che prova un autore quando si vede stampato per la prima volta; e poi, anche i suoi ventitré anni c’entravano per qualcosa. Ma fu solo un attimo. Dopo aver letto alcune righe, si accigliò e un’angoscia tremenda gli strinse il cuore. Di colpo, ricordò tutta la sua lotta spirituale di quegli ultimi mesi. Buttò il giornale sulla tavola con un senso di ripugnanza e di dispetto.

«Però, Ròdja, per quanto io sia stupida, posso tuttavia capire che prestissimo sarai uno fra i primi, se non il più importante nel nostro mondo scientifico. E dire che hanno pensato che tu fossi pazzo! Ah, ah, ah! Tu non lo sai, ma lo hanno pensato! Quei miseri vermiciattoli… come possono capire cos’è la vera intelligenza?… E per poco non ci ha creduto anche Dùnečka! Il tuo povero babbo mandò due volte alle riviste delle cose che aveva scritto; la prima volta dei versi (ho ancora quel quaderno, un giorno te lo mostrerò), e un’altra volta un intero racconto (gli avevo chiesto io stessa di lasciarmelo copiare); e quanto abbiamo pregato, tutti e due, perché venissero accettati! E invece niente! Sei o sette giorni fa, Ròdja, mi sono rattristata tanto guardando il tuo vestito, pensando a come vivi, a che cosa mangi e a dove abiti. Ma adesso capisco che ero una stupida, perché tu ormai, se lo vorrai, potrai ottenere tutto, con la tua intelligenza e con il tuo ingegno. Si vede che per ora non vuoi averlo, e ti occupi di cose più importanti…»

Pulchèrija Aleksàndrovna dipinge un futuro radioso senza sapere che sta usando un pennello intinto nella tragedia. Solo noi lettori, dall’esterno, vediamo il doloroso quadro completo. Maturiamo anche un dubbio: la presuntuosa teoria di Raskòlnikov sugli “uomini eccezionali” non sarà nata, alla lontana, proprio dalla tendenza di Pulchèrija Aleksàndrovna a mettere il figlio su un piedistallo? Per citare la Teoria della classe disagiata, “Noi non siamo stati preparati per questa vita agra, ma per un’altra meravigliosa”. Anni di promesse, più o meno esplicite, hanno formato delle personalità; e qualcuno, come Raskòlnikov, ha azzardato troppo. “Il problema – continua Ventura – è che quella vita non esiste”. Puoi accettarlo senza sentirti traumatizzato, ma è comunque una catastrofe.

(via)

Dal punto di vista di Pulchèrija Aleksàndrovna, le difficoltà del figlio sono temporanee; per lui, invece, in questo momento esistono solo la fregatura che ha preso e il mondo che gli si sta chiudendo addosso. Una doppia miopia: la prima, irritante perché nega l’inevitabile disastro; la seconda, irritante perché auto-commiseratoria. Il giovane disperato crede che l’incomprensione sia a senso unico, così come è “mia madre” a non capire “che lavoro faccio”. Una rappresentazione della realtà fastidiosa come certe notizie false, non del tutto inventate ma troppo parziali. Allo stesso modo, l’atteggiamento à la Raskònikov ha il solo obiettivo di confermare dei pregiudizi e il solo risultato di contribuire a scavare un fossato tra due parti: sembra che siano i vecchi a non capire che lavoro fanno i giovani, mentre tanti giovani semplicemente non lavorano. Si sbattono tantissimo, ci mancherebbe, ma gli unici buoni motivi per avere un lavoro, anziché svolgere la stessa attività gratuitamente, riguardano la “tranquillità economica”: mantenersi, accantonare contributi per la pensione, risparmiare in vista di consumi futuri a beneficio proprio o dei propri cari. Ma chi li vede, tutti questi soldi?

Creativi al lavoro

Altro che tranquillità economica: qualche sera fa, a un mio amico è sfuggito di dire: La paura più grande sarebbe dovermi aprire la partita Iva”. In altre parole, la prospettiva più terrificante è quella di ufficializzare la propria condizione di non-dipendente. Quanto siamo messi male, se devono essere queste le cose che ci fanno paura? Lo dico proprio perché condivido la stessa ansia: da anni, il mio unico obiettivo di carriera è trovare il posto più fisso che posso, pur di evitare il freelancing.

(via)

Pur di non dovermi auto-disciplinare, cioè vivere come conflitto interiore quello che potrebbe essere un normale rapporto dialettico col capo. Pur di non lavorare in casa da solo e non dover pagare l’affitto di una scrivania in coworking. Pur di sapere in anticipo quanto guadagnerò nel mese, e se non converrà piuttosto fare il pizzaiolo. Nonostante le fisime, lo so già, è probabile che mi trovi a lavorare da freelance per lunghi periodi ed è probabile che sopravviva, o decida di cambiare mestiere senza troppi patemi. Non è comunque uno scenario desiderabile, e le ansie restano. Sarà un problema psicologico tutto mio? Forse sì; mio, dei miei amici che non vogliono dover aprire una partita Iva, degli altri che l’hanno aperta e vorrebbero chiuderla. Per chi vuole cominciare a grattare la superficie del problema in termini sistemici, anziché psicologici, è appena uscito in italiano un libretto limpidissimo: si chiama Realismo capitalista, di Mark Fisher. Leggendo la situazione attraverso l’ottica proposta da Fisher, si direbbe che le ansie restano perché derivano da un mercato del lavoro e un modello produttivo così disfunzionali che ti portano appunto a sperare di essere disciplinato da un superiore. Ma questo sarebbe materiale per un altro articolo: lo intitolerei Caporedattore in pelliccia.

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