Green Book e la distorsione della narrativa afroamericana

Stereotipi, archetipi e altre amenità

Francesco Abazia
The Catcher
8 min readFeb 15, 2019

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Elaborazione grafica The Catcher

Lavoravo part-time al Downtowner Morot Inn di Greenville, quando un uomo d’affari arriva nel nostro hotel e mi chiede se conoscessi un posto dove poter far dormire il suo autista, non avendone trovati sul Green Book. Gli offrì una camera dell’albergo e poco dopo fece sapere all’hotel manager che non avrebbe mai più messo piede in un albergo dove un autista era il benvenuto.

Questo è un estratto da una delle lettere arrivate al «New York Times» in risposta a un opinion firmato da Brent Staples The Green Book’s Black History. Raccontano vere esperienze legate alle difficoltà e alle umiliazioni che gli afroamericani dovevano affrontare nel trovare un pasto o una camera d’albergo quando si spostavano, specialmente nel Sud, rendendo i viaggi molto complicati. Fu per mettere fine a questi brutti episodi che un impiegato postale di Harlem, Victor Hugo Green, cominciò, nel 1936, a mettere insieme una guida che garantisse ai viaggiatori neri una lista di posti dove poter alloggiare in sicurezza; questa guida diventò «la bibbia di ogni viaggiatore autostradale nero tra gli anni ’50 e i primi ‘60», secondo una definizione della storica Gretchen Sullivan Sorin diventata poi molto diffusa. Oggi il Green Book vive un momento di riscoperta, merito soprattutto del film di Peter Farrelly che ha raccolto cinque nomination agli Oscar (dopo tre Golden Globe vinti), ma anche di documentari che scavano più a fondo nella faccenda, come Driving While Black che andrà in onda quest’anno su PBS o ancora Traveling While Black, prodotto dal «New York Times» che verrà presentato al prossimo Sundance. Essendo tutti ambientati negli anni ’50 — quando dunque gli spostamenti non avevano subito la democratizzazione attuale — le testimonianze rappresentano le esperienze di una certa parte della popolazione afroamericana, quella che viene definita black élite.
Della black élite faceva sicuramente parte Don Shirley, il pianista (interpretato da Mahershala Ali) protagonista di Green Book insieme a Tony “Lip” Vallelonga, un rozzo italoamericano che si guadagna da vivere come quasi-buttafuori nei casinò frequentati da mafiosi (interpretato da un insospettabile Viggo Mortensen dall’accento siculo).

Visione consigliata in lingua originale (per non impazzire con Viggo che parla il siciliano hollywoodiano)

Quello che viene a ragione definito un feel good movie è basato su una storia vera, che comincia quando Don è alla ricerca di un autista/guardia del corpo per intraprendere un tour nel Sud degli Stati Uniti, un posto non facile da frequentare per un nero in piena era Jim Crow. È per questo che prima della partenza la casa discografica di Shirley affida a Tony il famoso Green Book. Il film è divertente, amaro e tutto sommato molto gradevole. Nonostante una storia di contorno che è fin troppo facile immaginare, il fulcro è la relazione tra i due e l’evoluzione umana di Tony che passa da essere un uomo dalle vedute piuttosto strette e razziste («sono nato, cresciuto e ho sempre vissuto nella stessa casa, con la stessa gente, nello stesso angolo di Bronx», dice a un certo punto) a miglior amico di Don. Manca, a dirla tutta, una vera e propria evoluzione nel personaggio di Don, che pure si intuisce, ma non solo. Il film ha la pretesa di essere “reale”, d'altronde è scritto da Nick Vallelonga, figlio di Tony, ed è dunque basato sui racconti che Tony avrebbe fatto al figlio e a Brian Currie — direttore esecutivo del film — che all’Hollywood Reporter ha raccontato:

«Tutto è vero. Ho conosciuto Tony per 25 anni. Ho ascoltato le sue storie, sono tutte vere».

Il problema, però, è che queste potrebbero non essere così vere, dopotutto.
Subito dopo l’uscita americana del film, Maurice Shirley — fratello di Don — e i membri della sua famiglia hanno invitato una lettera a diversi media, dove si specificava che molte delle cose inscenate nel film erano bugie. «Don non ha mai considerato Tony suo amico», scrive Maurice, facendo già crollare una delle principali fondamenta del film. Inoltre, secondo Maurice Shirley, lui e il fratello non avrebbero mai perso i contatti — come invece il film lascia intendere — e nessuno ha mai dovuto insegnare a Don come mangiare il pollo fritto, e, soprattutto, non c’era nessuna conflittualità nell'identità nera di Don Shirley, al massimo aveva un rapporto controverso con il jazz, ma quella sarebbe un’altra storia. Soprattutto quest’ultima notizia è essenziale per riuscire a districarsi tra le critiche e gli elogi che Green Book sta ricevendo. Il rapporto di Don con la sua coscienza nera è uno dei subplot più interessanti della pellicola. Nella scena più emotiva di tutto il film, Don lamenta di essere solo, troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri; è la “terza razza” di cui parla Margo Jefferson in Negroland, il fortunato memoir sulla sua vita da membra dell'élite borghese afroamericana.

(via)

Una razza che con l’arrivo degli anni ’60 e ’70 e con la fine delle leggi razziali diventa «una forma corrotta della Razza, una forma ingiustificatamente deviata. Avevamo accettato di diventare un mezzo per opprimere la comunità nera». Una forma di razza che ha per certi versi sempre cercato di redimersi, che è poi il motivo per cui Don Shirley sceglie di andare in tour nel Sud piuttosto che restare nel suo agio newyorkese (anche se il film non si sofferma molto su questo punto, lasciando fin troppo da immaginare). O ancora, come sottolineato da Maurice Shirley, «il fatto che un artista nero di successo assumesse solo domestici che non somigliavano a lui non dovrebbe essere sottovalutato» (il domestico di Don, infatti, è di origini indiane). È per questo che il personaggio di Don dovrebbe essere quanto più aderente alla realtà possibile, perché i suoi tratti delineano una parte fondamentale dell’ideologia del film, che si muove perennemente in territori complicati per un regista bianco. K. Austin Collins ha scritto su Vanity Fair: «modificando i sentimenti di un afroamericano rispetto alla sua identità stai essenzialmente modificando in maniera politica chi è quell’uomo nero. Stai riscrivendo la storia di come si sente rispetto alla sua razza in un momento in cui la razza era uno svantaggio culturale e fisico. Stai, di fatto, riscrivendo la sua identità. Questa, a mio avviso, è una cosa abbastanza insolente da fare per un regista bianco». Una cosa che suona almeno anacronistica nel 2019, quando a contendersi il titolo di miglior film con Green Book ci saranno, tra gli altri, Black Panther e BlacKkKlansman, e poco più indietro If Beale Street Could Talk. Tutti film realizzati da registi o sceneggiatori afroamericani, pensati per riscrivere la narrativa attorno alla rappresentazione degli afroamericani al cinema. Una cosa, inoltre, che tradisce i tratti di alcuni dei più problematici stereotipi cinematografici legata alla rappresentazione della cultura afroamericana al cinema. Mentre gioca in maniera ironica con gli stereotipi ignoranti perpetrati da Tony (il pollo fritto come cibo preferito dei neri, il jazz e il soul come loro musica preferita) Green Book non riesce a distanziarsi da altri due: la sindrome del white savior e l’archetipo del magical negro.

La prima si riferisce alla continua proposizione di ruoli, affidati a bianchi, che siano in qualche modo risolutivi per la trama. Nella storia del cinema c’è un lungo esempio di casi, e quello di Tony, in particolare in alcune scene del film, rientra perfettamente in questa tipologia. Senza Tony, infatti, Don non sarebbe mai riuscito a completare il suo tour; «ma Don non aveva bisogno di un salvatore», si è difeso Ferrely. «Sì, l’ha tirato fuori da situazioni complicate, ma Don Shirley ha salvato l’anima di Tony, l’ha cambiato, l’ha reso un essere umano migliore». Ed è qui che entra in gioco il magical negro per eccellenza: colto, accomodante, che eleva spiritualmente il suo compagno di viaggio bianco, e l’eleganza di Don Shirley non fa che alimentare questo archetipo. Tuttavia, la credibilità che i due personaggi riescono a ritagliarsi, nonostante la mancata profondità di scrittura, la dice lunga sulle incredibili doti di Mahershala Ali e Viggo Mortensen, due che renderebbero credibile qualsiasi cosa.

BFF ❤ (via)

Basta quindi a Green Book rovesciare i ruoli nella dicotomia tra bianco e nero, per cancellare dai personaggi cliché vecchi quanto la narrativa hollywoodiana stessa? Forse no; tuttavia Green Book ha la capacità di portare alla luce tutte le idiosincrasie e le contraddizioni dell’America degli anni ’60, dove se eri nero potevi essere applaudito, e subito dopo ti veniva però chiesto di non sederti a tavola, e di non andare al bagno.

Il mondo rappresentato da Don Shirley era l’antenato di quello moderno, dove artisti e atleti neri dominano il panorama e la cultura mainstream, ma tutto intorno a loro non è ancora stato estirpato dal tessuto sociale e politico il razzismo latente.

Ci sono solo cinquant’anni di evoluzione tra Don Shirley a cui viene chiesto di esibirsi e poi tornare a essere un nero e LeBron James a cui viene chiesto di “pensare a giocare e stare zitto”.
L’ipocrisia di quella gente, così come quella di Tony, che in una delle scene iniziali del film butta i bicchieri da cui avevano bevuto due neri, per poi accettare il lavoro da Don neanche una settimana dopo, viene però risolta a livello atomico, di relazione interpersonale tra i due, anziché su un piano sistemico.
«Questa sottile, antica, minimalizzazione del razzismo con l’obiettivo di sopperire al senso di colpa bianco non è solo il simbolo della normalizzazione del tipo di razzismo che ha votato per Trump, ma è anche rappresentativo del tipo di conversazione razziale che l’industria sta cercando di elevare. Forse l’audience bianca può vederci del progressismo in questo, «ma io non posso, non voglio e non lo farò», ha scritto Noel Ransom su «Vice Usa».

Green Book era stato ricevuto con grandi attenzioni al Toronto Film Festival, salvo poi esordire abbastanza male al botteghino, sorpassato anche da film che non hanno ricevuto alcuna nomination. Raccontando delle scarse fortune al botteghino del film, Mark Harris su «Vulture» si è posto una domanda: qual è il pubblico di riferimento di Green Book?
«La porzione di audience bianco che ha bisogno di essere curata si sta facendo più piccola ogni giorno, e il pubblico non-bianco, a questo punto, sembra giustamente stufo di adagiarsi sulla versione della fantasia di qualcun altro che ha già visto messa in scena tante e tante volte; e in più ora ha delle opzioni». Harris cita allora tanti film che appartengono a quella che definisce «la post-Get Out era»: da Sorry To Bother You a Creed II, fino a If Beale Street Could Talk. Nell’era dei Donald Glover e dei Jordan Peele, di un cinema nero che è sempre più progressista e indipendente, gli Oscar e Hollywood in generale «continuano a ricascare nella fantasia della riconciliazione interrazziale», come sottolinea Wesley Morris sul «New York Times», ricordando gli esempi di The Upside ma soprattutto A spasso con Daisy, che nel 1994 venne candidato a miglior film escludendo Fa la cosa giusta di Spike Lee. Lì infatti, il finale era diametralmente opposto a quello di Green Book o degli altri film citati, diverso da quell'unico finale che Hollywood sembra conoscere. Sal e Mookie non diventarono mai amici, come forse non lo furono mai Don e Tony.

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