Bere del Sancerre con Ian McEwan

Ovvero l’esitazione dello scrittore

Francesca Manfredi
The Catcher
7 min readMar 29, 2017

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(Elaborazione grafica The Catcher)

“Sembra di trovarsi davanti alla Commissione Europea,” sussulta McEwan varcata la soglia. Sì, l’idea è quella. Deve sembrare ancora più inquietante, da fuori.

Siamo all’Einaudi, in via Biancamano, a Torino. Sede storica della casa editrice che, negli anni, come sappiamo, ha visto passare molti dei più grandi autori del nostro tempo. Oggi è il giorno di Ian McEwan, in città per presentare il suo ultimo romanzo, Nel guscio (Nutshell, in originale). Un romanzo breve, quasi un monologo, narrato da un punto di vista molto particolare: quello di un feto di nove mesi, confinato nel grembo materno.

Nel guscio di oggi, lo Studio Ovale dell’Einaudi (“la sala col tavolo ovale delle riunioni del mercoledì”, chiariscono) attendono lo scrittore, già intavolati, una decina tra book blogger, instagramer, collaboratori di magazine online — e la sottoscritta, ovviamente.

McEwan entra deciso, vacilla davanti a tale schieramento, rallenta, sorride e prende posto, accompagnato dalla fedele interprete — che qualcuno ha provvidenzialmente mandato per risparmiare a noi tutti fatica e figure barbine, ma che aggiungerà anche una nota piuttosto divertente alla conversazione.
Si parte con il giro di domande: noi abbiamo il libro fresco di lettura, McEwan di scrittura, ci sentiamo preparati.

“The first sentence appeared from nowhere” risponde a chi chiede com’è nato Nel guscio, giusto per spiazzare un po’.

“Ero a una riunione molto noiosa, e all’improvviso mi è venuta in mente questa frase, pronunciata da un bambino nel grembo materno”. In italiano — tradotta dall’ottima Susanna Basso, presente anche all’incontro — suona così: “Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna”. E il resto del libro, assicura l’autore, è stato un percorso in discesa, durante il quale si è molto divertito (“It flowed out” dice — Beato lui, penso io).

“Tutto quello che è seguito a quella frase è stato inaspettato. Questo libro è stato una vacanza. Dal realismo, dal lavoro di ricerca preparatoria — nullo, se non per i nomi dei vini, dei grands blancs che la madre Trudy, nonostante sia incinta, consuma in grande quantità (e che ritorneranno più avanti — NdA). Mi sono sentito chiedere — soprattutto in America — se sia un romanzo pro life, contro l’aborto. Ma no, non è niente di tutto ciò. Ho semplicemente preso la decisione, questa volta, di voltare le spalle al realismo per dedicarmi a un romanzo alla Calvino. È stato qualcosa di inaspettato, ripeto, ma quando si scrive è importantissima la facoltà di sorprendersi da soli, la self surprise.”

Tutto qui? In realtà una parte difficile c’è stata, ammette. “The very beginning”, il tempo che è passato tra quella frase appeared from nowhere e la stesura della prima pagina. E non è stato un tempo breve.

“Tutto il libro poggia su una premessa: il narratore è un feto onnisciente e intelligentissimo. La difficoltà è stata proprio nel trovare il tono, la voce giusta.

La difficoltà dell’incipit è sempre quella, perché il tono è tutto.

In questo caso, poi, è una voce che arriva dalle tenebre, dal profondo. Alla fine, ho scelto di usare un registro linguistico lievemente arcaico, lievemente formale, con ritmi da prosa shakespeariana. In linea con la citazione dell’Amleto in apertura e con il richiamo a quell’opera, che avviene più volte nel corso della storia”.

Prima di arrivare a questa decisione c’è stato, appunto, un momento di pausa. “Io non credo nel blocco dello scrittore” sottolinea. “Credo, invece, nell’esitazione dello scrittore. È molto importante prendere tempo: una buona idea deve sostenersi. Tante volte, qualcosa che ci sembra geniale di lunedì non suona più bene al mercoledì. Perciò, quando ti viene un’idea, alzati, passa la mano e stai fermo un turno. È fondamentale fare bene le prime pagine.”

Parliamo del protagonista di Nutshell, adesso: che tipo è, questo feto?

“Innanzitutto, è uno fra i narratori più attendibili che possiate trovare. Spesso si parla di inaffidabilità dei narratori, ma non è questo il caso: you can always trust a fetus. Un feto non ha appartenenze politiche, non ha religione, nessuna bandiera da sostenere. Non ha nessuna responsabilità di questo mondo, per cui ne può parlare con libertà”. Ha le sue opinioni, però: sono le stesse dell’autore? “Be’, in molti casi sì, è inevitabile. È come diceva Flaubert, no? Madame Bovary, c’est moi.” Pronunciato con accento British e ripetuto dall’interprete, che interpreta, appunto, con tanto di sottolineatura vocale e faccine a tono — forse perfino un occhiolino. Delizioso.

Il feto ha un suo pensiero, dicevamo, e anche estremamente sviluppato: anzi, per certi versi è solo pensiero. Ed ecco uno dei più riusciti parallelismi con la tragedia di Shakespeare. Come Amleto, “malato di pensiero”, imbattibile a ragionare ma impossibilitato ad agire, il nostro feto senza nome, di fronte alle crudeltà a cui assiste tramite l’unico senso che gli permette di recepire il mondo esterno, l’udito, è, per sua natura, incapace di fare qualsiasi cosa. Come l’autore dirà più tardi, in serata, durante l’incontro alla Cavallerizza Reale: “Il mio feto non ha letto l’Amleto, l’ha scritto”.

Ma ora McEwan, che ormai si è ambientato, si spinge in un altro parallelismo — e in una considerazione personale molto interessante. “La distinzione tra uomo d’azione e uomo di pensiero è la stessa che passa tra scrittori di fiction e non. Il columnist, ad esempio, è man of action. Io non sono mai riuscito a esserlo. Ogni volta che ci provo, ogni volta che scrivo una frase relativa al mondo, mi vengono in mente mille obiezioni che mi costringono a cancellarla. Credo che ci voglia un certo grado di stupidità per scrivere sul mondo”. Olè.

A proposito di mondo — e anche a proposito di guscio: qual è il rapporto con il suo paese, anche alla luce dei recenti avvenimenti? “Sarei contento di vivere in una Gran Bretagna without kings and queens. Parlando di isolamento, non credo che la Brexit sia una buona idea. Credo sia un progetto troppo complicato e in mano a persone che in fondo non ci rappresentano.” Ok, chiaro.

Si arriva ai temi toccati dal romanzo, ora. Qualcuno ne mette in tavola uno: il rapporto tra la madre e il figlio. Ian McEwan si lascia sfuggire un sorriso, poi:

“When I’m asked about mother-child relationship, then I know I’m in Italy. Esattamente come mi accorgo che sono in America quando tirano fuori la storia del pro life”.

Va bene, siamo riusciti a fargli sentire il profumo della nostra terra, come direbbe il Colonnello Hans Landa di Inglorious Basterds. Che qualcuno entri con della pizza e un mandolino, adesso.

“In realtà” chiarisce, “la relazione fra il feto e sua madre è un’altra cosa saltata fuori da questa fantasia sbrigliata dalla quale è scaturito il romanzo. Il mio intento era quello di mettere sulla pagina un eroe esistenziale, non di parlare del rapporto genitoriale — tantomeno di dare raccomandazioni sull’accudimento. Trudy, la madre, man mano che la gravidanza procede si rende conto di non desiderare affatto questo bambino. È più impegnata a gestire le relazioni e gli intrighi, ad occuparsi di ciò che la circonda piuttosto che dare ascolto a quello che avviene dentro di sé. Alla fine, però, il feto raggiunge il suo desiderio, lo scopo di ogni bambino. Appena nato, con uno sguardo, lui sa di avere intrappolato la madre.”

Un altro tema, l’infanzia. “This is my youngest character” sorride l’autore. In effetti, è difficile ricordarne uno più giovane. “Allo stesso tempo, però, ha già nostalgia della sua giovinezza, dei primi mesi di coscienza. Tutte le età — le sette età dell’uomo, per tornare a Shakespeare — , in ogni caso, non sono altro che espedienti narrativi. I bambini rappresentano l’innocenza, la nuda visione del mondo, gli adulti l’ansia dovuta al presente e al passare del tempo, i vecchi il rimpianto. Non conosco nessun romanziere che sia invecchiato senza mai scrivere dell’invecchiare: è un argomento inevitabile. Ha una carica narrativa estremamente potente, che plasma tutti i personaggi.”

SPOILER ALERT!

Il libro si chiude con la nascita del feto, e con questa frase: “the rest is chaos: “Tutto il resto è caos”. “Parafrasi della frase finale dell’Amleto, the rest is silence. Volevo dare questa idea di ignoto, di scale discendenti verso l’unknown. Quello che arriverà dopo, nel mondo, avrà a che fare con tutto ciò che il narratore, nei suoi nove mesi di “reclusione”, ha immaginato. Avrà a che fare con la raison d’être del feto, che è la ricerca del senso. Continuando a immaginare la storia, non credo che il senso sarà quello che arriverà subito dopo la sua nascita, né quello che può dare alla vita un adolescente. Ma per fortuna, c’è vita dopo l’adolescenza”.

E c’è parecchia vita anche dopo questo incontro. Qualcuno arriva a informarci che nella stanza accanto è stato allestito un aperitivo a base di Sancerre Chavignol — il vino francese preferito dal feto, tra i numerosi che sorbisce attraverso il cordone ombelicale — e accorriamo. Vino che scopro fare 13 gradi abbondanti, nonostante sia un bianco. I quali, a stomaco vuoto, si sentono tutti.

E mentre me ne rendo conto, già al secondo bicchiere, ripenso al protagonista nel guscio e capisco che l’immedesimazione, così, non potrebbe essere più efficace, più perfetta.

McEwan si siede, si mette a firmare copie tra il vassoio di pasticcini e quello di salatini. Io cerco di passargli la mia senza far cadere le decine di bottiglie di Sancerre mezze vuote che ancora svettano sul tavolo. Tutto il resto è caos, ovviamente.

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