Il cimitero dei vivi a Roma

Keats, Shelley, Gramsci e gli altri

Rebecca De Fiore
The Catcher
10 min readOct 31, 2017

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Tutte le foto sono dell’autrice

18.7.2017
Come ogni anno torno in questo luogo di magia per ritrovare la pace e la serenità della mia anima attraverso le loro anime.
Jamalle

C’è un angolo di Roma, all’ombra della Piramide Cestia, dove sono passati Shelley, Munch e Goethe. È un angolo denso di pini e cipressi, dove si sente costantemente il cinguettio degli uccelli. Qui in primavera si forma un tappeto di viole e margherite e i sentieri si ricoprono di petali rosa. È il cimitero acattolico per gli stranieri a Testaccio, ed è uno dei posti più romantici del mondo.

Al contrario della maggior parte dei cimiteri questo posto mette allegria. Nel prato verde, che circonda le tombe della parte più antica, un signore anziano spinge una carrozzina. Non è qui per fare visita a qualcuno, ma per godersi il sole di una mattina di settembre. Poco più in là, seduto su una panchina, un attore ripete la parte che dovrà recitare a teatro tra qualche mese. Insieme a loro i gatti passeggiano indisturbati tra le lapidi redatte in tutte le lingue del mondo, come in tante lingue del mondo sono scritti pensieri e ringraziamenti sul quaderno all’ingresso.

La tomba dello zio di Munch (via)

Ad accogliermi all’entrata è Ann, una volontaria che lavora qui da un anno. Risponde alle domande dei turisti e gli ricorda di lasciare un’offerta per poter pagare i giardinieri. Lei è americana, del Wisconsin, ma ha sposato un italiano ed è venuta a vivere in Italia.
«Come mai hai deciso di venire a fare la volontaria proprio in un cimitero?», le chiedo.
È stata la passione per Munch, il pittore, a portarla qui.
«Vedi quella tomba là in fondo? È dello zio di Munch, uno storico, e suo nipote veniva spesso a trovarlo. Ha anche dipinto un quadro. Così ho visto il dipinto a un mostra ed eccomi qui».

La prima tomba che vedo è quella di John Keats. Si trova nella parte antica del cimitero ed è immersa nel prato. In mezzo al verde sbucano delle violette, proprio come lui avrebbe voluto. Infatti il suo amico Joseph Severn, racconta che Keats, poco prima di morire, gli chiese di andare a vedere il cimitero e di riportargli una descrizione del posto.

“Volle che andassi a vedere il luogo dove sarebbe stato sepolto e fu soddisfatto della mia descrizione della Piramide di Caio Cestio; dell’erba e dei molti fiori, in special modo delle innumerevoli violette che vi crescono; e anche di un gregge di pecore e di capre e di un pastorello che avevo veduto: tutto ciò gli piacque e l’interessò. Le violette erano il suo fiore preferito: mi disse che gli pareva di sentirle già crescere sopra di sé.”

Non la riconosco subito perché sulla lapide non è inciso il suo nome. Accanto a una lira con le corde spezzate si legge: «questa tomba contiene i resti mortali di un giovane poeta inglese che nel suo letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al malvagio potere dei suoi nemici, desiderò che queste parole fossero scolpite sulla sua lapide. Qui giace colui il cui nome fu scritto sull’acqua». Bastano queste righe a ricordarmi il dolore che riempì la vita di Keats, morto di tubercolosi a Roma a soli 25 anni. Accanto a lui riposa proprio Severn che, come suggerisce l’incisione sulla sua lapide, gli rimase accanto fino alla fine: «Alla memoria di Joseph Severn — amico devoto e compagno al letto di morte di John Keats — che egli, sopravvivendo, poté vedere annoverato fra i poeti immortali dell’Inghilterra”.

Keats, Shelley and Gramsci are the luminaries of the literary in the world.
Abdul, Professor in San Francisco

Nel 1818 il poeta Percy Bysshe Shelley scrisse al suo amico Thomas Love Peacock che quello di Testaccio era “il cimitero più bello e solenne” che avesse mai visto. Solo quattro anni dopo le sue ceneri furono seppellite lì, proprio sotto le Mura Aureliane, nella parte alta del cimitero. Shelley morì tragicamente l’8 luglio del 1822 nel golfo di La Spezia, sorpreso da una tempesta mentre navigava. Per questo sulla sua tomba, scostando alcuni aghi di pino, riesco a leggere alcuni versi tratti da La tempesta di Shakespeare:

Nothing of him that doth fade
but doth suffer a sea change
into something rich and strange

(Ma niente di lui sarà vano / che per un incanto del mare / dovrà trasformarsi in qualcosa / di ricco e di strano)

Due ragazze sui venticinque anni si fermano con me davanti alla tomba di Shelley. Una di loro mi sorride e le chiedo da dove viene. Lei è di Londra, l’amica è scozzese. «Mio padre è stato qui qualche anno fa. Quando ha saputo che venivo in vacanza a Roma mi ha detto che da inglese non potevo non vedere le tombe di Keats e Shelley». Mi stupisce la varietà di persone che si possono incontrare qui: non solo anziani o turisti, ma anche giovani, romani, bambini e uomini in giacca e cravatta in pausa dal lavoro. Poco più in là vedo una coppia giovanissima: sono entrambi romani e lei fin da piccola veniva a leggere sulla panchina davanti alla Piramide. Oggi, mi racconta, ha voluto portarci il suo ragazzo per fargli conoscere uno dei suoi angoli preferiti di Roma. Continuando a camminare nella parte più recente del cimitero mi inoltro tra le aiuole fiorite e i monumenti funebri. Procedo a zigzag, tra le lapidi disposte in file apparentemente disordinate. Mi fermo dove è sepolto il figlio di Goethe e poi davanti all’Angelo del dolore scolpito da William Wetmore Story. La scultura si trova sulla tomba della moglie e l’angelo, forse proprio come successe a lui, si accascia per terra per il troppo dolore mentre era andato a portarle dei fiori. È forse la scultura più bella tra quelle che vedo e scopro che anche alcuni gruppi musicali, tra cui gli Evanescence e i Nightwish, lo hanno riprodotto sulle copertine dei loro album.

17.7.2017
Shelley, Keats, Corso, ma soprattutto il mio amatissimo Antonio Gramsci. Grande emozione! Quando un cimitero è poesia e impegno per i più poveri.
Pierangelo dalla Sardegna

A raccontarmi la storia del cimitero è la direttrice, Amanda Thursfield. È inglese, ha studiato Storia dell’arte e per questo ha sempre avuto una passione per l’Italia, dove vive da quarant’anni. «Ho scoperto questo luogo quando avevo 16 anni», mi racconta. «Appena entrata ho pensato: chissà come deve essere lavorare in un posto così!. Adesso sono dieci anni che ci lavoro e mi sento molto fortunata a passare le giornate qui dentro, perché da vera inglese amo i giardini».

A metà della chiacchierata, la storia del cimitero mi è ormai molto chiara. Nell’ottobre 1716 un medico di Edimburgo, William Arthur, morì di dissenteria a Roma per un’indigestione di fichi. Aveva seguito in esilio Giacomo III Stuart e la sua corte per sfuggire alle repressioni seguite alle sconfitte dei giacobiti in Scozia. Era protestante e non poteva essere sepolto in chiesa o in terra consacrata. Gli amici ottennero da Clemente XI, su intercessione del cardinale Filippo Antonio Gualterio, di inumarlo in un pratone accanto alla Piramide di Caio Cestio. Dal 1723 al 1726 furono portati a Testaccio un lord scozzese e un turista inglese stroncato dalla malaria durante il Grand Tour. La prima lapide, nel 1738, fu per uno studente di Oxford che morì a soli 25 anni per una caduta da cavallo. Oggi il cimitero acattolico è privato e la sua gestione è affidata a un’associazione formata da 15 Ambasciate a Roma che hanno tutte connazionali sepolti qui. Da sempre, infatti, ci sono tombe comuni suddivise per nazioni: Germania, Grecia, Svezia, Norvegia e Romania.

La direttrice mi racconta che gli svedesi vengono due volte l’anno a cantare intorno alla loro tomba nazionale. Anche i norvegesi, il giorno in cui celebrano la propria indipendenza, si riuniscono qui con l’ambasciatore con indosso i loro costumi tradizionali.

«Gli italiani hanno sempre avuto paura dei cimiteri, ma ultimamente non è più così. Quelli che vengono qui non vogliono solo vedere le tombe di persone famose, ma è un bisogno che hanno di scappare dalla vita reale e dal caos e di ripararsi in un posto tranquillo. Ogni giorno vedo persone che leggono, scrivono, semplicemente riflettono. Per questo ho fatto aggiungere delle panchine tra i vialetti e le lapidi». E continua: «Le persone quando entrano qui dentro abbassano le proprie difese e si aprono. Per me è un privilegio poter parlare con alcuni di loro». Per poter essere seppelliti in questo cimitero occorre essere stranieri, non cattolici e residenti in Italia. Poi ne hanno diritto i parenti: «è affascinante pensare che adesso ci sono persone italianissime, pronipoti di stranieri».

Solo eccezionalmente è concessa la sepoltura a italiani illustri che, o per la qualità della loro opera, o per le circostanze della vita, sono stati in qualche modo stranieri nel proprio paese. Per questo non mi stupisco nel leggere sulle lapidi i nomi di Emilio Lussu, Carlo Emilio Gadda, Antonio Gramsci.

Ho un’ultima domanda: ho notato, infatti, che sulle tombe ci sono solo fiori freschi. «Le persone lasciano le cose più strane: messaggi, lettere, peluche, sassolini, ma dopo poco li togliamo. Pensa che alcune donne baciano le lapidi e lasciano macchie di rossetto a forma di labbra. Sulla tomba di Oscar Wilde sarebbe pure accettabile, ma su quella di Keats no! Poi spesso immagino cosa penserebbero Shelley o Gramsci sapendo di quante persone visitano ancora oggi le loro tombe. Chissà se gli sarebbe piaciuto».

Riflettendo sulle ceneri di un grande uomo ho finalmente potuto ringraziarlo per l’eredità lasciateci: Antonio Gramsci.
Monica, da Sassari

La tomba di Gramsci è ricoperta di fiori rigorosamente rossi: rose, garofani, gerani. Sotto la lapide è poggiata l’urna che contiene le sue ceneri e accanto sonnecchia al sole un gatto bianco e nero. Negli anni cinquanta Pier Paolo Pasolini faceva spesso visita ad Antonio Gramsci, al punto di scriverne una raccolta di poesie intitolata Le ceneri di Gramsci:

(via)

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti

[…]

Oggi, invece, come mi racconta la direttrice, è una signora anziana a venire a trovarlo tutte le settimane. Ogni sabato mattina attraversa il vialetto di ghiaia fino alla sua tomba per pulirla dagli aghi di pino, dalle foglie secche e deporvi sopra una rosa rossa. Mi domando cosa spinga le persone a fare visita dopo tanti anni a una persona che, per quanto importante per la storia del proprio paese, non si è mai conosciuta. Così, quando vedo una signora avvicinarsi con un fiore rosso in mano, provo a chiedere a lei. Si chiama Sofia e ha 82 anni. «Venire qui significa essere grati a questa gente che ti ha formato culturalmente. Gramsci è un esempio di uomo, di fedeltà alle idee, di politico. Vedi, ci sono altri fiori qui, non sono l’unica a venire. È una maniera di vedere concretamente che la cultura e la politica hanno un senso. Si protraggono per anni in una persona». Sofia si siede e per spiegarmi il suo rapporto con la politica ripensa alla sua adolescenza. «Ai miei tempi, nel mondo borghese, la politica era bandita dalle case. Quando andavamo a fare visita agli amici, i miei genitori si raccomandavano di non tirare mai fuori l’argomento. Ho iniziato a parlarne in casa quando mi sono sposata: è dagli anni sessanta che i problemi politici sono diventati vitali e quotidiani». Prima di salutarmi mi fa una confessione: «onestamente, tra il lavoro e i quattro figli, non ho mai letto né Gramsci né Marx. Ma la politica mi ha sempre affascinata e ho sempre ascoltato con grande interesse. Venendo sulla sua tomba mi sembra di conoscerlo meglio e di entrare un po’ nel suo mondo».

Qualche giorno dopo torno con la speranza di scoprire un’altra storia. Un signore sui sessanta è fermo di fronte all’urna delle ceneri di Gramsci:

Questo giardino è l’occasione per una pausa e quando posso mi fermo anche solo per una sosta breve. Quando entri, puoi scegliere su che tomba sostare a seconda del tuo umore: a seconda della scelta finisci per rendere omaggio a una diversa parte di te. La letteraria, la poetica, la politica. Certo, per qualcuno di noi Gramsci ha un significato particolare: camminando verso i fiori rossi che ne segnano la tomba è un po’ come partecipare al funerale del sé politico.

Lo lascio ai suoi pensieri e lo vedo avvicinarsi a Erri De Luca, che sui gradini di una breve scalinata ha appena rilasciato un’intervista a una televisione. «Ricordi, quando giocavamo a pallone insieme? Son passati quarant’anni». «Era pure l’ultima volta che ho giocato».
Un dialogo strano, sospeso.
«Tenevamo nu paro de scarpe in due», dice Erri.
Chissà cos’avrà voluto dire.

29.7.2017
Felice per questo bell’incontro con il nostro giovane ispiratore Antonio Gramsci. W la rivoluzione e la libertà della classe lavoratrice
Diocleciana dal Brasile

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