Grazie, Obama: cosa significa scrivere i discorsi per un presidente

The Catcher
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6 min readNov 21, 2018

L’intervista di Lorenzo Pregliasco a David Litt

Immagine (via e via)/ Elaborazione grafica The Catcher

David Litt, 31 anni, è entrato alla Casa Bianca nel 2011, quando di anni ne aveva 24. Ha scritto discorsi e interventi politici per i principali funzionari del governo americano, tra cui Barack Obama, fino al 2016. In particolare ha coordinato il lavoro di quattro discorsi presidenziali alla White House Correspondents’ Dinner, la tradizionale cena che dal 1920 — fino all’anno scorso, quando Trump ha iniziato a boicottarla — vedeva il Presidente degli Stati Uniti cimentarsi in una sorta di monologo comico molto auto-ironico, durante il quale si prendevano bonariamente in giro alleati e avversari politici.

Ho intervistato David Litt durante un suo recente viaggio in Italia, dove era venuto a presentare il libro che racconta la sua esperienza Grazie, Obama: I miei anni alla Casa Bianca. Memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi (HarperCollins Italia).

Speechwriter, cioè la persona che scrive i testi di discorsi e interventi pubblici per i leader politici. Nel tuo caso, per il Presidente degli Stati Uniti. Come hai iniziato a fare questo lavoro?

In origine pensavo che sarei finito a fare l’autore comico: scrivevo gag, facevo cabaret (stand-up comedy). Una volta, quando ero all’università, vidi un discorso del presidente Obama in televisione. Mi innamorai immediatamente di lui e della sua campagna e mi dissi “ok, farò tutto il possibile per dare una mano”. Così dopo la laurea sono andato in Ohio, a coordinare volontari per la campagna elettorale presidenziale, e poi sono finito a Washington. Ho fatto domanda per uno stage alla Casa Bianca, ma non mi hanno preso. Per puro caso sono finito a lavorare in un’azienda che scriveva discorsi per manager del settore privato. Due anni dopo, quando la Casa Bianca cercava uno speechwriter junior, mi hanno preso e di lì a poco ho iniziato a scrivere per Obama.

Come funziona l’interazione tra gli speechwriter e i leader politici? Quanto intervengono i candidati sul testo dei discorsi?

Quando scrivevo discorsi per Obama, cercavo sempre di scrivere il tipo di discorso che Obama avrebbe scritto da solo, se avesse avuto il tempo di farlo. Ovviamente non aveva tempo, era occupato a fare il Presidente, ma l’obiettivo era scrivere come l’avrebbe fatto lui. Per esempio, ho scritto un discorso sulla riforma della giustizia penale, di cui sono molto orgoglioso. Eppure, in quel discorso c’era una sezione del testo sulla quale Obama aveva molte opinioni sue, molte cose che voleva dire. Così prese un quaderno e si mise a scrivere di sua mano interi paragrafi. E poi li inserimmo nella bozza originale. Il discorso migliorò enormemente. Eravamo fortunati, perché Obama era stato uno scrittore prima di entrare in politica. Così, quando cambiava i discorsi, li migliorava.

Barack Obama e David Litt (via)

Faresti lo stesso lavoro per Trump?

No (ride). Se vuoi mi spiego meglio.

Prego.

Per me essere uno speechwriter non è come essere un artista o un romanziere. L’obiettivo non è creare un bel discorso. L’obiettivo è aiutare un leader politico a portare avanti la propria agenda politica. Ciò che mi rende fiero di aver scritto discorsi per Obama è che lo stavo aiutando a raggiungere gli scopi che voleva raggiungere. Per la stessa ragione, sono molto preoccupato di ciò che Trump sta tentando di fare, e quindi non vorrei essere fra le persone che gli danno una mano a farlo.

D’altra parte, molti osservatori riconoscono che fra i motivi della vittoria elettorale di Trump ci sono la chiarezza del suo messaggio, la sua retorica, il suo stile di leadership.

Dobbiamo sempre ricordarci che Trump ha perso il voto popolare, di quasi 3 milioni di voti, e che ha vinto per via di come funziona il sistema americano. Detto questo, una delle ragioni del suo successo è che il suo stile infrangeva tante regole. Trasmetteva l’idea di essere diverso. E credo che le persone — alcune persone — in America fossero alla ricerca di qualcosa di diverso. Non gli interessava troppo in cosa fosse diverso, bastava che fosse davvero diverso. Trump in questo senso è riuscito a dare un’impressione di diversità e anche di autenticità, nel senso che non era il tipico politico tradizionale.

Hai dei metodi o delle tecniche per trovare l’ispirazione prima di scrivere un discorso politico? Come trovi le metafore, gli aneddoti, le storie personali giuste?

Una delle cose che ho imparato scrivendo discorsi nel settore privato è questa: i discorsi riescono o falliscono nella ricerca. Prima di sedersi a scrivere, è importante fare più ricerca possibile. Non solo fatti e statistiche, ma innanzitutto storie.

Le cose che ci ispirano di più sono quasi sempre storie: storie di una nazione, storie di una comunità, ma soprattutto storie di singole persone.

Obama amava molto raccontare non tanto la propria storia, quanto quella degli americani normali che incontrava. Qualcuno nel pubblico, qualcuno della zona in cui si trovava, qualcuno che incarnava e rappresentava il meglio degli Stati Uniti. In questo modo, anziché ispirare “dall’alto”, riusciva a far capire che gli americani possono ispirarsi l’un l’altro.

Vedi qualcuno che possa essere, se non un “nuovo Obama”, un credibile portatore dei valori dei Democratici da qui al 2020?

Il partito democratico ha molte persone che potrebbero diventare leader in grado di ispirare non solo gli elettori democratici, ma tutti gli americani, come ha fatto Obama. Non so ancora esattamente chi sarà la persona giusta, ma abbiamo senatori, governatori, sindaci, ex vicepresidenti — Joe Biden — che potrebbero candidarsi. Un problema per i Democratici nel 2016 fu che le primarie non furono troppo combattute, mentre nel 2020 potremmo correre un rischio opposto: troppi candidati potrebbero cogliere l’occasione e scendere in campo.

Che differenza vedi fra il linguaggio politico negli Stati Uniti e in Europa?

La politica europea tende a usare meno senso dell’umorismo. È più aggressiva, più seria. Ma allo stesso tempo credo che gli Usa e l’Europa stiano affrontando sfide simili, con la crescita di una retorica che cerca solo di identificare nemici, che dà la colpa agli immigrati anziché provare a risolvere i problemi. Vedo il ritorno di una sorta di nazionalismo radicale, sia in America sia in molte parti d’Europa. Chiunque abbia a cuore la democrazia sente che dalle due sponde dell’Atlantico abbiamo una sfida comune: proteggere le forme di governo democratiche.

E se dovessi scegliere un solo discorso politico dell’ultimo secolo, quale consiglieresti di ascoltare?

Su tutti, “I’ve been to the mountaintop” (“Sono stato sulla vetta della montagna”), l’ultimo discorso pronunciato da Martin Luther King, la sera prima che fosse assassinato a Memphis, nel 1968. Se sei uno speechwriter e rileggi quel discorso, troverai che il modo in cui è scritto, il modo in cui riesce a presentare una visione e una sfida, è davvero incredibile. Inoltre, è un discorso che ancor più di altri incarna un certo momento storico.

Lorenzo Pregliasco è direttore e cofondatore di YouTrend e della startup di ricerche Quorum. Insegna alla Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, all’Università di Torino e alla Scuola Holden. Collabora con L’Espresso e ha scritto per Aspenia, La Stampa, Politico e Euronews. È autore di Il crollo (Editori Riuniti, 2013) e Una nuova Italia: dalla comunicazione ai risultati, un’analisi delle elezioni del 4 marzo (Castelvecchi, 2018).

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