Non sto male, ma neppure tanto bene

Italo Svevo a novant’anni dalla sua morte

The Catcher
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7 min readSep 13, 2018

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Elaborazione grafica The Catcher

di Edoardo Vitale.

«Ho trentacinque anni e non ho fatto niente! È tutto finito! È tutto perduto!» urla in preda al panico Mikhail Vasilievich Platonov, il protagonista di Partitura incompiuta per pianola meccanica, film sovietico uscito nel 1977, diretto da Nikita Michalkov e ispirato a Platonov di Anton Čechov, citazione poi ripresa dal Nanni Moretti-Michele Apicella in Palombella Rossa del 1989. Un secolo prima viveva la stessa crisi dei trentacinque anni Emilio Brentani, aspirante scrittore con un esordio fallimentare alle spalle e impiegato per una compagnia di assicurazioni, protagonista di Senilità che, come da titolo, ha vissuto nella procrastinazione e ora è troppo vecchio per qualsiasi slancio vitale o ambizione:

«A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto».

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A quei tempi, anche il trentacinquenne Ettore Schmitz non se la passava bene: costretto a stampare a proprie spese le mille copie — rimaste praticamente invendute — del suo secondo romanzo, una dinamica che oggi lo rende una specie di “disagiato” ante litteram, seppure in un contesto socio-economico totalmente diverso da quello odierno nel quale Raffaele Alberto Ventura ha sviluppato la sua Teoria della classe disagiata.
Eppure leggendo l’epistolario di Italo Svevo e il diario del fratello Elio Schmitz, emerge chiaramente il conflitto continuo tra la figura dell’impiegato nella quale è costretto — prima dal padre, poi dalla moglie e dal cognato — e quella dello scrittore, a tratti anche scapestrato, che studia tutti i classici e insegue la sua vocazione.
Si legge a tal proposito sul diario di Elio Schmitz:

Esso è apatico in apparenza, giacché la sua maggior vita la trova nella sua mente ed in se stesso. A poco a poco gli venne l’idea di divenire uno scrittore. Oh! Poter diventare un uomo famoso per lui era la maggior speranza.

Ma poco dopo, a causa dei continui problemi finanziari della famiglia, fu costretto ad accettare un lavoro in banca procuratogli dal padre, come si apprende ancora dal diario del fratello: “Ettore […] si trova abbastanza contento alla Banca Union, quantunque i lavori sono molto poco “di testa”, come dice lui. Naturalmente, scrive una commedia, I due poeti, ma va poco avanti, avendo poco tempo”.
Nonostante gli impegni lavorativi, avvia una collaborazione con il giornale «L’indipendente», per il quale recensisce autori come Zola o Turgenev, pubblica riflessioni sul “dilettantismo”, attingendo già alla propria esperienza biografica — come farà per ogni suo romanzo o racconto — per condannare all’insuccesso chi si divide fra più attività lavorative e velleitarie, mostrando già chiari riferimenti alle tematiche schopenhaueriane, sentenziando che “il puro godimento dell’arte non lo ha che quell’intelligente che giammai le si avvicinò con pensieri d’ambizione”.

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Tematiche che riaffioreranno ancor più forti nel primo romanzo pubblicato nel 1892, Una vita (che doveva intitolarsi Un inetto) e il cui protagonista, Alfonso Nitti, un impiegato di banca che aspira a ottenere una condizione da intellettuale più che un riscatto sociale, manda a rotoli la propria vita e il matrimonio a causa della sua inettitudine, finendo col suicidarsi. Per stessa ammissione di Svevo:

Il protagonista del romanzo, doveva essere proprio la personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione.

Sebbene partissero da una matrice verista, con un lessico elementare e scarno, già in Una vita e in Senilità si trovano in forma embrionale molte delle connotazioni peculiari del personaggio sveviano, quella della soggettività e crisi interiore, che sono alcune delle caratteristiche fondamentali per le quali oggi si colloca di diritto nel panorama letterario di inizio Novecento, e all’interno del dibattito sul “romanzo europeo” che va da Proust a Musil e passa per Pirandello, Joyce e Kafka.
Ma, molto più della sintassi o della struttura del romanzo, dell’influenza di Sterne o Jean Paul e della concezione del tempo, assoluta, soggettiva, mentale, indifferente ai fattori esterni e non convenzionale, ciò che risulta ancora più interessante per una rilettura di Svevo oggi, sono i presagi di quella sottile e blanda critica ai valori borghesi, provenienti appunto da un individuo endogeno al sistema e che attraverso l’inettitudine rifiuta il sistema ma ne è anche vittima. Di questo meccanismo si può cogliere non solo l’evoluzione, ma anche l’ombra di un certo disfattismo apocalittico e di un anticapitalismo che attraversa tutto il secolo e arriva ai giorni nostri. A maggior ragione considerando il concetto di “malattia” che sarà sviluppato meglio ne La coscienza di Zeno, e che di nuovo — seppure nella maniera ora ironica, ora svogliata, oltreché assolutamente non politicizzata di Svevo — parlano di una certa depressione come malattia di massa, con lo sconforto di uno sconfitto o semplicemente di un debole: più una resa che una forma di resistenza, proprio perché i personaggi di Svevo non immaginano alcuna lotta.

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Le prime opere di Svevo furono totalmente ignorate e fu così per anni, ancora nel 1923 i critici rondisti non si spendevano in elogi o paragoni esaltanti: «Se gli scrittori italiani sapessero trarre fino in fondo la lezione, senza limitarsi a piatte imitazioni, ciò potrebbe aiutarli ad impadronirsi di se stessi e del nuovo ambiente morale e sociale, attraverso un’analisi tanto più aderente in quanto permeata di lirismo», scriveva Emilio Cecchi in riferimento a Svevo, nell’Hommage à M. Proust che la «Nouvelle Revue Francaise» dedicò allo scrittore francese, un anno dopo la sua morte, lo stesso anno nel quale Italo Svevo, dopo più di venticinque anni di silenzio e di “scrittura clandestina” — per mantenere la promessa fatta alla moglie di dedicarsi esclusivamente all’attività di famiglia — pubblica La coscienza di Zeno (anche in questo caso a sue spese), la sua opera più matura e moderna, con la quale di lì a poco raggiungerà la fama, seppur tardiva, grazie anche all’aiuto dell’amico James Joyce e i riconoscimenti tanto desiderati — l’encomio pubblico di Eugenio Montale, e un profilo monografico dedicato da «La Navire d’Argent», un’influente, seppur dalla vita molto breve, rivista di critica letteraria francese del tempo).

Lindolenza e l’ipocondria sono una costante nell’immaginario sveviano, sia per connotare i personaggi, sia nella quotidianità dell’autore in carne ed ossa. Il lamento per dolori e affanni spesso inconsistenti, una litania che fa da sottofondo e che sottolinea, spesso in chiave ironica, un affanno generalizzato, nei confronti della vita stessa. Nell’ultima lettera spedita alla figlia Letizia l’1 settembre 1928 da Bormio — a pochi giorni dall’incidente d’auto a seguito del quale ebbe complicazioni cardiache impreviste che lo portarono alla morte — Svevo ironizza sul nipotino, che lo appellava con il soprannome di “principe dei dolori” a causa delle sue eccessive lamentele e scrive:

Io non sto male ma — checché ne dica Paolo (il nipote nda) — neppure tanto bene. Oggi mi sento molto sollevato ma ieri andai dal medico che trovò la pressione aumentata di 15 mm. Credo si tratti dei primi effetti della montagna.

È noto, ed è inutile soffermarsi, sull’influenza che ebbero su Svevo e in particolare su La coscienza di Zeno la psicanalisi e gli studi su Freud, a partire dall’innovativa formula del memoriale, che fu ripreso negli stessi termini da Giuseppe Berto, nel suo capolavoro del 1964, Il male oscuro, dove addirittura la nevrosi e i sogni di gloria rappresentano la totalità dei pensieri dell’individuo.
L’atarassia che caratterizza Zeno Cosini, può avere lo stesso fascino di quella de Lo straniero di Camus, così come la narrazione del paradosso e del grigiore burocratico hanno la stessa efficacia e caratterizzazione che c’è in Kafka, o, restando in Italia, in Buzzati. Quello che viene comunemente considerato l’anti-eroe sveviano, lo sconfitto per eccellenza, il “malato” e colui che sta fermo, inconsapevole dell’efficacia che potrebbe avere una protesta passiva, oggi potrebbe essere un antagonista moderno, stanco e annoiato, e magari proprio per questo in grado di inceppare gli ingranaggi. Se Zeno Cosini non fosse solo, se ci fossero centinaia e centinaia di Zeno Cosini, Alfonso Nitti e Emilio Brentani in giro per il mondo, a rallentare l’inerzia, a rimanere tutto il giorno al letto, a perdere tempo appresso a delle illusioni e se tutto questo fosse disperato e contagioso, senza nemmeno rendercene conto andrebbe tutto allo sfacelo, altro che dibattito sui negozi aperti la domenica, rimarrebbero chiusi quasi sempre. Nel suo Realismo Capitalista Mark Fisher si chiedeva “cosa succederebbe se organizzassi una protesta e venissero tutti?”, ma cosa succederebbe se non facessimo niente?

Se rimandassimo la sveglia, se non rispondessimo in tempo alle email, se tenessimo il telefono spento per tutto il giorno, se non consegnassi questo pezzo in tempo?

Probabilmente niente che eviterebbe all’uomo un po’ più ammalato di rubare l’esplosivo e di arrampicarsi “al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo”, ma almeno, forse, prima dell’esplosione enorme che nessuno udrà: un po’ di calma.

EDOARDO VITALE è nato a Roma nel 1989, scrive su vari magazine.

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