“Più ci si muove, più si mettono radici profonde”: intervista a Joshua Cohen

Israele, l’ebraismo, il trasloco come navigazione

Annalisa Ambrosio
The Catcher
8 min readMay 30, 2018

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(illustrazione di Giovanni Gastaldi)

Joshua Cohen ha 38 anni, è cresciuto in New Jersey e vive a New York. Conosce bene il tedesco e l’ebraico, ha tradotto libri da entrambe le lingue, è al suo ennesimo romanzo e i critici lo ritraggono come una delle voci più promettenti della letteratura americana contemporanea.
Ora sta seduto allo stand di Codice Edizioni al Salone del Libro 2018, di fianco all’interprete e, più che pronunciarle, scrive (a voce) le risposte alle nostre domande.

Se dovessi riassumere in poche battute la trama del tuo romanzo, “Un’altra occupazione” (tradotto da Claudia Durastanti, ndr), che cosa diresti?

Per dare una risposta evasiva, posso dire che una volta stavo passando dalla sicurezza di un aeroporto, ero di ritorno dalla Germania e avevo con me diverse copie del mio libro — in tedesco, ovviamente — , mettiamo che ne avessi circa dieci. Sono stato scelto a caso per il controllo di sicurezza, forse perché ho l’aria leggermente sospetta, così hanno guardato le diverse copie del libro e mi hanno posto due domande: la prima, “l’ha scritto lei?”; la seconda, “le ha scritte tutte?”. Infine hanno chiesto: “e si parla di?”. Ho risposto: “cinquecento pagine”.

(via)

Quindi, di che si parla?

Se devo essere più serio, il mio romanzo riguarda la storia di una famiglia. Parla di una famiglia che nel corso del XX secolo si divide in due parti — un ramo vive negli Stati Uniti e l’altro in Israele — e del rapporto che esiste tra loro.
Due persone di questo nucleo familiare, che hanno appena finito l’anno di leva dell’IDF, il servizio militare obbligatorio israeliano, decidono di chiedere il cosiddetto anno di riposo, gap year: è una consuetudine diffusa in Israele, che consiste nel prendersi dodici mesi per viaggiare dopo la fine del servizio militare. I due stabiliscono di andare a trovare i cugini americani, che lavorano come traslocatori a New York e, nel farlo, finiscono a lavorare per loro, per il signor David. Tuttavia, dopo un po’, il cugino David li introduce a quello che è il lato più oscuro del suo lavoro di traslocatore, cioè gli sfratti delle persone che non hanno pagato l’affitto oppure non hanno estinto il mutuo. Così i due israeliani frequentano i quartieri più poveri della città e sono obbligati a compiere azioni molto simili a quelle che facevano durante la leva nell’esercito israeliano. Attraverso questa diversa lente cominciano a comprendere sé stessi, a capire che possono avere un’autonomia rispetto al Paese di nascita e rispetto alla famiglia, e pensano alla loro vita in maniera diversa, perché in Israele non erano autonomi, mentre ora, in particolare nell’episodio che porterà alla loro politicizzazione, trovano i presupposti per arrivare a un rapporto più individualizzato e adulto con il mondo.

Diaspora, sradicamento, cosmopolitismo: in un certo senso la storia del popolo ebraico è una storia di traslochi. Uno dei tuoi protagonisti, forse “il” tuo protagonista, David, fa il traslocatore. È un caso oppure è una metafora?

Sicuramente questa cosa è deliberata. Non soltanto sono dei traslocatori, ma tutti i personaggi di questo libro sono costantemente in movimento. Il mestiere che fanno mi ha permesso di farli muovere sempre: non stanno mai fermi. Mi riferisco al giro in auto nella prima parte, al lavoro sul campo nella seconda e poi a quel che capita in casa.

Secondo me non si può parlare di “sradicamento” per chi ha questa abitudine a muoversi, semmai è il contrario, perché più ci si muove, più si mettono delle radici profonde: nella mia famiglia si possono contare otto o nove lingue acquisite in due generazioni, con radici, abitazioni e relazioni in sei o sette Paesi.

Gli ebrei erano accusati nell’Unione Sovietica (e non solo) di essere dei “cosmopoliti senza radici”, mentre le nostre radici sono in tutto il mondo, che è molto diverso.

Come descriverebbe il personaggio di David?

È il sostenitore di Trump che è anche vostro parente. Detto in altri termini, la persona che siete obbligati ad amare ma odiate o che siete obbligati a odiare ma amate. Sicuramente è un uomo d’affari.

“Io ti amo, poi ti odio, poi ti amo, poi ti odio, e poi ti apprezzo”

Prima abbiamo parlato di trama, ma qual è il tema di “Un’altra occupazione”?

Non è che io voglia mettere troppa carne al fuoco in un unico libro, però le cose che volevo raccontare erano sicuramente due: la crisi economica che c’è stata nel 2008 in America, la crisi dei mutui, e la terza guerra di Gaza del 2014. Un terzo argomento che secondo me è poco preso in considerazione nella letteratura oggigiorno, e invece veniva molto discusso dalle scorse generazioni di lettori e scrittori, è quello del lavoro e degli affari, perciò volevo riportarlo al centro di un romanzo, ossia parlare della forza lavoro e degli affari, e anche dell’imprenditorialità, un tema che risulta davvero alieno a moltissimi dei libri più recenti, diciamo dopo i Baby Boomers.

Joshua Cohen (foto di Marion Ettlinger)

In più, mi interessava rimettere in discussione le classiche modalità con cui vengono rappresentati gli ebrei: se uno dice ebreo pensa al cappellone, alla kippah, al cappottone, ma in realtà gli aschenaziti — che sono gli ebrei del Nord Europa — sono ormai una minoranza in Israele, mentre i sefarditi — quelli che vengono dai paesi arabi, quelli che vengono dall’Iran — sono moltissimi. Eppure non sono gli ebrei che la letteratura occidentale ha rappresentato.

È un libro pieno di idee…

Al punto in cui sono arrivato, dopo aver scritto sette libri, mi sembra di iniziare a capire come metto insieme le pagine: tendo a raccontare le cose che uno non dovrebbe fare, le cose che non sono più di moda, le cose che sono troppo difficili o troppo imbarazzanti, le obbligo a vivere insieme in un libro solo, cosa che è successa per esempio in Book of Numbers, dove l’Internet è il tema, ma diventa anche un personaggio.

Un’altra occupazione, il titolo del tuo libro, può significare anche “un’occupazione come un’altra” e i giovani traslocatori israeliani sembrano disposti a tutto pur di occupare il tempo del loro gap year e non pensare. Che ne dici?

Qui ci sono almeno due domande a cui rispondere. La prima riguarda il titolo. Fondamentalmente è un gioco di parole che credo funzioni anche in italiano: da una parte l’occupazione di una persona, cioè il lavoro che questa persona fa, dall’altra l’occupazione di una terra.

Quella che è la carriera di una persona, per esempio la carriera militare, può corrispondere all’oppressione di un’altra persona.

L’idea della piena occupazione, in realtà, è un’idea che nella storia si è verificata soltanto attraverso i militari, purtroppo sono gli unici che riescono a garantire unapiena occupazione”.
Per quanto riguarda il fatto di comprare cazzate per riempirsi la vita, perché si è emotivamente annoiati, oppure mangiare, oppure bere e così via, certo, questo è vero. A me, per esempio, sorprende il contrasto tra l’esistenza di posti dove si possono immagazzinare i mobili, perché alcune persone hanno troppa roba in casa, e l’esistenza dei senzatetto, gente che non ha una casa in cui stare.

Strada di Ramallah dopo un raid dell’esercito israeliano, 2014 (foto: Azzam Talahmi)

A un certo punto scrivi così:

Era un sollievo sentirsi parlare in ebraico, dopo tutti quegli interrogatori in inglese: la lingua della concretezza, la lingua della pertinenza.

Che rapporto hai con queste due lingue?

Sono cresciuto in America e là ho avuto un’educazione religiosa, quindi ho studiato in ebraico: la lingua è tutto ciò che mi rimane di questo. Ho tradotto alcuni libri dall’ebraico, sì, ma non mi faccio grandi domande, come capita a molti altri bilingui, riguardo alla lingua in cui sogno, o alla lingua che parlo: l’inglese è senza dubbio la mia lingua primaria. Al massimo a volte immagino che cosa sarebbe potuta essere la mia vita se avessi scritto in ebraico.
Non sono su Facebook né su Twitter, con la mia personalità reale: ho una presenza completamente terza con un nome in ebraico, e scrivo in ebraico per esercitarmi. Ho perfino chiesto l’amicizia a un mio cugino senza che si rendesse conto di chi ero.

Quindi il tuo libro non è un libro sull’ebraismo?

Quando qualcuno come me scrive un libro di questo genere, in cui ci sono diversi personaggi ebrei o israeliani, i lettori pensano: “ah, quello è un libro ebreo, quello è un libro israeliano”. No, non lo è. Questo, secondo me, è un libro su New York. Ci sono haitiani, creoli, spagnoli e in realtà, se mi fermo a pensare, devo concludere che, più che essere ebraico, questo romanzo aderisce a un genere che è britannico, americano, comunque anglosassone: la narrativa del mare. Penso in particolare a Conrad e a Melville. Siamo cresciuti su questi libri; prima di arrivare a Moby Dick ho letto gli altri libri più semplici di Melville.

Quando si dice narrativa del mare (via)

Spesso il mare è un primo luogo di traduzione, perché sulle barche ci sono persone di tutte le nazionalità, e magari non si amano tra di loro, magari si odiano, ma nel momento in cui trovano un nemico comune — che nel caso di Melville può essere Dio, o la Natura nel caso di Conrad — , allora sanno di dipendere l’uno dall’altro per la loro stessa sopravvivenza. Lottare per la sopravvivenza è un modello transazionale di quello che succede nelle grandi città e, secondo me, i vecchi romanzi del mare hanno sempre questa idea al loro interno.
Io sono del 1980, se vado su una barca vomito, però ho pensato che un camion di traslocatori fosse la mia barca, fosse il mio spostamento, allora qui ci sono israeliani, guatemaltechi, salvadoregni, haitiani e il mare è il mare dell’asfalto: questa è un’idea sicuramente più americana che ebraica.

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