Sul ciglio del precipizio con Kent Haruf

Francesca Manfredi a proposito di “Le nostre anime di notte”

Francesca Manfredi
The Catcher
7 min readMay 15, 2017

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Particolare della copertina di “Le nostre anime di notte” (NN, 2017)

- Potremmo fare un giro della casa?
- Vuoi che ti faccia vedere le stanze e com’è sistemata?
- Vorrei soltanto saperne di più sul luogo in cui mi trovo.
- Così, se ce ne sarà bisogno, potrai sgusciare fuori nel buio.
- Be’, no, non ci avevo nemmeno pensato.

Questo è stato uno dei primi passaggi di Le nostre anime di notte che ho sottolineato. Questo, dopo lo scambio di battute iniziale, lapidario, in cui Addie Moore chiede a Louis Waters di passare le notti da lei. Sono entrambi vedovi, entrambi anziani, entrambi soli. Entrambi, a loro modo, stanchi di dormire in letti freddi (“Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?”).
Il dialogo qui sopra appartiene al secondo capitolo. Louis, incerto, esitante, decide di assecondare la richiesta di Addie. Si sta guardando attorno, Addie lo sa. Non hanno ancora fiducia l’uno nell’altra, non sanno come andrà a finire: potrebbe funzionare oppure no. Però decidono di provarci. Mi sono segnata queste righe per due motivi. Il primo è il più banale: il modo in cui si sente Louis Waters di fronte a una casa sconosciuta è lo stesso del lettore di fronte alla storia, a questo punto. Non sappiamo niente di Addie e Louis, non sappiamo se ci piaceranno o no, ma decidiamo di dar loro fiducia: decidiamo di metterci accanto a loro e ascoltarli. Il secondo motivo è perché queste righe fanno risuonare la mia ossessione per gli spazi abitati, per le case, così piene di storie da tutte le parti, e il loro potere di creare piccoli mondi alternativi, all’interno.

A proposito di interni: “Room in New York”, Edward Hopper (via)

Le nostre anime di notte è fatto di interni. È fatto di notti al buio, sotto le lenzuola. È lì che Addie e Louis si rivelano: a loro stessi, al lettore. È attraverso i loro dialoghi (più frequenti, più lunghi rispetto agli altri romanzi di Kent Haruf), i loro gesti — il tenersi la mano, lo sfiorarsi, l’aprire la finestra per far entrare la brezza notturna o l’odore della pioggia — che scopriamo chi sono, e che loro, vicini di casa ma estranei, cominciano a non poter più fare a meno dell’altro. Come in Inganno di Philip Roth, o, ancora meglio, per la vecchiaia e l’assenza di sesso, come ne La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, il letto è il palcoscenico principale su cui si muovono i personaggi. Per poi diventare ciò a cui i personaggi, inevitabilmente, tendono: il perno attorno al quale le loro vite finiscono per ruotare. Ogni volta che Addie e Louis escono da quella stanza, è come se non vedessero l’ora di tornarsene a letto. Di tornare in quel mondo solo loro, che hanno costruito insieme, al buio, parlando sottovoce. Dove entrambi, a vicenda, si confessano i propri errori, si perdonano, si salvano.
I momenti in cui Addie e Louis escono, però — di solito in compagnia del nipotino di lei, Jamie — sono quelli in cui il tono sembra farsi più disteso. Un elenco di piccole scoperte, di fatti felici, quasi fosse Jamie stesso a raccontare; un tema di scuola, “Che cosa ho fatto durante le vacanze estive”. La semplicità della narrazione, l’essenzialità dei periodi, l’andamento pacato e insieme la scansione rapida (che belli, i capitoli brevi. Lasciano questa idea di precisione e sospensione al tempo stesso. E fanno così bene al mio deficit d’attenzione); insieme alla brillante luminosità, la fiducia innata: è qualcosa che ritroviamo ogni volta, nella scrittura di Kent Haruf.

Eppure, se ripenso alla Trilogia della Pianura, al periodo di chiusura di ogni capitolo, c’è qualcosa che mi fa pensare alla fine del mondo.

Non so spiegare cosa, esattamente, ma mi lascia così, col fiato corto, e io ho questa sensazione di essere sul ciglio di un precipizio. Ci metto un po’, ogni volta, prima di iniziare un capitolo nuovo. Provo a fare un esempio, da Benedizione:

Mary si allontanò di nuovo, spense la luce e tornò a sedersi. Le falene continuavano a bruciacchiarsi contro la lampadina rovente e cadevano o volavano via. Il lampione all’angolo, oltre la casa di Berta May, proiettava lunghe ombre attraverso gli alberi che si muovevano leggermente nell’aria della notte.

Si sente, l’apocalisse in agguato, in questa donna che ha appena messo una coperta addosso al marito malato, che sta morendo, e che poi si è seduta accanto a lui, in veranda. Eppure, allo stesso tempo, c’è qualcosa di raccolto, di rassicurante. La luce mentre tutto crolla.

In Le nostre anime di notte la luce è più calda, il precipizio si allontana. Da qualche parte la fine del mondo c’è, non smette mai di esserci, ma è ben nascosta. Aleggia in quei “prima che sia troppo tardi”, ad esempio; una melodia di fondo costante, dolcissima. Perché se in Benedizione il tempo di Dad Lewis è contato, in Le nostre anime di notte anche Addie e Louis si trovano a fare i conti con l’ultima stagione della loro vita. Ma se la malattia spinge Dad Lewis a mettere le cose a posto, a salutare per l’ultima volta — la sua ferramenta, la famiglia, Holt -, per Addie e Louis la vecchiaia è un motore che esorta a ricominciare, a lasciarsi andare. Permette di non badare a ciò che si dovrebbe, alle aspettative, “a quello che pensa la gente”.
Holt, la città immaginaria del Colorado che fa da sfondo ai romanzi di Haruf, sembra essere, in Le nostra anime di notte, il vero antagonista. Holt che parla, che maligna, che non sa tenere i segreti. È per questo che Addie e Louis, di giorno, sembrano non vedere l’ora di tornare a letto. E quell’istante metanarrativo, improvviso:

Si è inventato tutto lui. I dettagli li ha presi da Holt (…) Però quella non è Holt. E i personaggi non esistono.

Sembra come se Haruf volesse accartocciare il foglio su cui ha scritto finora, soffiare sul suo castello di carte. Oppure, dargli una dimensione ulteriore:

Potrebbe scrivere un libro su di noi, ti piacerebbe? Non mi va di finire in un libro, rispose Louis. La nostra storia non è più improbabile di quella dei due vecchi allevatori di bestiame. Però è un’altra cosa.

Una dimensione ulteriore, che va oltre la finzione, sfuma i confini, allarga lo spazio della storia: passa dalla realtà per poi tornare in quel cono di luce preciso, brillantissimo, che irradia ogni cosa.

La mappa di Holt disegnata da Franco Matticchio (via)

Nel frattempo, la normalità. “Amo questa vita insieme a te, “ dice Addie a Louis. “E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L’erba. Le notti fresche. Stare a letto al buio a parlare con te.” Se fosse un film sarebbe Paterson, se fosse una canzone Perfect day di Lou Reed: così ideale, così romantico — letteralmente — grazie a quella malinconia, quell’inadeguatezza di fondo. È sempre quello a rendere tutto più bello, a farcene accorgere: quel senso di fine imminente. Qualcosa che ti fa dire: fa’ che tutto resti così per sempre. Ma tanto so che non lo farai.
Addie e Louis si tengono la mano nel sonno, come il titolo di una raccolta di racconti di Kevin Canty.

Haruf, dall’alto, tiene per mano Addie e Louis, e allo stesso tempo noi, mentre leggiamo.

Si sente questa forza superiore, ordinatrice e benevola, che accompagna i personaggi con il suo stesso tempo contato (Kent Haruf ha iniziato a scrivere questo romanzo già malato e l’ha terminato poco prima di morire, nel 2014). Si sente l’urgenza di quest’uomo, come sottolinea nella nota Fabio Cremonesi, che ha tradotto questo e gli altri romanzi della Trilogia. Il suo senso di fine, che rende tutto più bello. E a un certo punto si ha la sensazione che quel tempo, il loro tempo insieme, sia finito, e che per Haruf sia giunto il momento di allentare la presa, e lasciarli andare.
Addie e Louis, invece, continuano a tenersi la mano nel buio. La fine del mondo si allontana, rimane all’esterno, non fa più paura. A nessuno viene voglia di sgusciare fuori. Lo potrebbero fare, forse prima o poi lo faranno. Ma, per il momento, si limitano a questo: Louis si alza dal letto, va alla finestra, prende qualche goccia di pioggia, la porta al viso di Addie. Quel che basta per salvarsi, per salvare tutti noi.

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