La città del Risentimento

Abitare a Londra, tra utopia e distopia

The Catcher
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19 min readJul 20, 2017

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(Foto di Laura Lavorato)

Di Claudia Durastanti, scrittrice e traduttrice, e Gianluca Didino, giornalista e critico letterario.

LONDRA SOMMERSA

Dal 1984 la Thames Barrier impedisce a Londra di essere alluvionata dall’alta marea o dalle tempeste. Ogni volta che il livello delle acque si alza oltre un limite prestabilito, dieci strutture che somigliano ad armadilli si chiudono per bloccare l’invasione del mare.

Le zone più esposte al rischio di inondazione sono quelle a est e sud del centro, nei quartieri di Tower Hamlets e Southwark. Sono i distretti della città funzionale, quelli in cui capitalismo e colonialismo sono diventati un’emanazione perfetta: nelle mappe che mostrano come sarebbe Londra senza la diga mobile, compaiono i magazzini della East India Company (ritratta in tutta la sua forza grottesca dalla serie Taboo), i palazzi di Fleet Street in cui si è fortificato il giornalismo anglosassone e gli uffici della vecchia e nuova City, dai grattacieli modesti di Liverpool Street a quelli massimalisti di Canary Wharf, egualmente sopravvissuti al crack finanziario del 2008.

Tutte cose che senza la Thames Barrier sarebbero state sommerse, infestate dalle alghe oppure non sarebbero state nemmeno costruite, come aveva immaginato J.G. Ballard già in un romanzo del 1962. Spazzata via dal global warming e trascinata verso l’annichilimento del “tempo profondo”, nel Mondo sommerso quel poco che resta di Londra è una jungla.

What if… (via)

Senza la diga, nel corso degli scorsi decenni sarebbero state allagate West Ham e Whitechapel, zone popolari cui la deprivazione economica ha fatto da combustibile per un immaginario romantico e decadente.

Sono quelle in cui quindici anni fa mi imbattevo nei ragazzi dai pantaloni strettissimi, i capelli unti alla Pete Doherty e il proposito di essere stylish in una riot, credendo che quello fosse il nostro punk (o quello che ci meritavamo).

Non solo passeggiare accanto alla Barrier mi convince che sto vivendo in uno stato di fiction — nonostante la sua inarrestabile espansione, l’acqua dice che l’inerzia di Londra è quella di scomparire — ma intuisco che il modo in cui la città verrebbe allagata ha una sua morale: le strade un tempo derelitte e ora gentrificate, fatte di club negli scantinati, suk e rivenditori di pollo fritto, non possono scomparire senza che scompaia anche il quartiere finanziario.

Quando la città andrà giù, alcune cose andranno giù insieme: lo Shard e le case popolari che gli vivono accanto, i mercati finanziari compromessi dall’imminente recessione economica, ma anche quelli dell’usato. La Thames Barrier ci aiuta a capire che Londra si basa su un sofisticato sistema di filtraggio: la sopravvivenza della città viene tarata in base a cosa può entrare e cosa no, e questo non vale più solo per l’acqua.

Ogni tanto il sistema viene ricalibrato e si inaugurano nuove regole. L’ultima volta non è stato durante la Brexit, né il giorno in cui Cameron ha definito i rifugiati siriani uno «sciame» da cui difendersi, ma nel 2012, quando Londra ha ospitato le Olimpiadi e ha raggiunto un apice di prestigio ed estensione.

Della manifestazione olimpica oggi è rimasta una scultura a forma di spirale, l’ArcelorMittal Orbit disegnato da Anish Kapoor, su cui saliranno un paio di persone l’anno, e un villaggio olimpico finanziato dalla famiglia reale del Qatar dai lotti ancora vuoti, che nessuna agenzia immobiliare è riuscita a piazzare.

L’ArcelorMittal Orbit di Anish Kapoor (via)

Ma tutto ciò che sarebbe diventato un fattore di risentimento negli anni successivi era già lì:

la costruzione di nuovi palazzi di vetro disabitati, una crescente militarizzazione dello spazio urbano descritta da Stephen Graham in Cities under siege, le famiglie sfollate dai dintorni delle gare perché turbavano l’impianto estetico della manifestazione.

HIGH-RISE: “SEI UN BELL’ESEMPLARE DI ESSERE UMANO”

Il 16 maggio del 1968 una torre di ventidue piani collassa per una fuga di gas a Newham: era stata inaugurata solo due mesi prima, nel pieno del boom dell’edilizia popolare, e il suo crollo segna la fine di qualsiasi velleità di trasformare Londra in una metropoli basata sulla densità abitativa come New York.

Ronan Point (via)

Lo spettro della morte per fuoco è endemico in una città che è bruciata innumerevoli volte, ma Ronan Point è stato il primo ricordo a emergere nella coscienza collettiva londinese dopo l’incendio di Grenfell Tower, e l’ha fatto con una tale rapidità da far pensare che alla sua origine ci sia un senso di colpa mai elaborato.

Mezzo secolo più tardi le classi sociali più povere sono ancora vittime di grossolani errori di pianificazione edilizia.

In realtà, le somiglianze sono solo apparenti. Se Ronan Point incarnava il collasso dell’utopia social-democratica degli anni Sessanta, un aspetto colto ancora da Ballard ne Il condominio del 1975 (il più appropriato High-Rise in inglese), Grenfell Tower manifesta le contraddizioni di una città che da dieci anni vive in funzione dell’1% ultramiliardario dei suoi cittadini: Kensignton, il borough di Grenfell, è uno dei quartieri più ricchi del mondo — un contrasto che ha un carattere «osceno», come ha detto la neoeletta MP laburista Emma Dent Coad.

L’incendio della Grenfell Tower (via)

Tra i due episodi non c’è un’analogia, ma un nesso causale: Grenfell Tower si è incendiata come un fiammifero per colpa del cladding, il rivestimento murale aggiunto nel 2015 per rendere l’aspetto dell’edificio più gradevole per il ricco vicinato. Quella che sembrava una tragedia dell’edilizia pubblica, come ha scritto Owen Hatherley su «Jacobin Mag», è stato invece un orrore del capitale.

Il romanzo di Ballard si ispira a un edificio vero, la Trellick Tower di Ladbroke Grove, costruita nel 1972 dal grande architetto ungherese Ernő Goldfinger, che per testare la funzionalità del progetto aveva vissuto nella torre gemella di Trellick a Poplar — ma in un attico — e si era costruito una villa ad Hamspstead uguale a una council estate, abbattendo una magione vittoriana a cui Ian Fleming era affezionato per farle posto: il nome del super-cattivo di Bond viene da qui. L’utopismo del progetto era evidente: discepolo di Le Corbusier, Goldfinger condivideva con il maestro l’idea di costruire “strade nel cielo” che sapessero restituire il vitalismo delle comunità urbane all’interno di “macchine per l’abitare” tecnologicamente efficienti e dotate di ogni comfort.

Una passeggiata (Foto di Laura Lavorato)

Come ha raccontato sempre Stephen Graham in Vertical, l’utopismo di questa dimensione aerea (strappare l’uomo dal rumore e dal caos della strada, elevarlo dalla sua condizione terrena) era informato da una logica di guerra: la Radiant City di Le Corbusier, politicamente vicino all’estrema destra francese, era stata pensata come un insieme di grattacieli separati da ampi spazi di verde per essere più resistente agli attacchi aerei che in effetti di lì a vent’anni avrebbero ridotto in macerie i quartieri popolari di mezza Europa.

Proprio su quelle macerie gli eredi brutalisti di Le Corbusier avrebbero costruito i loro edifici, ma con un programma politico di sinistra (almeno negli intenti) e reso possibile dal patto sociale emerso dalla guerra. Non è un caso che tanti architetti della Londra degli anni Sessanta venissero dai paesi del blocco sovietico o che i loro edifici si ispirassero a quelli dell’edilizia popolare comunista: inseguivano un nuovo collettivismo, e per una breve stagione era sembrato possibile.

Sarebbe toccato a Ballard raccontare ne Il condominio la distruzione di questo sogno comunitario in nome dell’idealismo edonista: nella lotta hobbesiana del mercato libero, si torna a un nuovo stato di natura.

Begli esemplari

«Sei un bell’esemplare di essere umano», si sente dire Tom Hiddleston che prende il sole nudo sul balcone nella prima scena del film tratto dal romanzo, e il senso della poetica di Ballard è tutto lì.
La torre che ha ispirato l’apocalisse ballardiana oggi non ha niente di distopico a parte forse l’aspetto: dagli anni Novanta è considerata un edificio di interesse storico e negli anni della liberalizzazione thatcheriana i suoi appartamenti sono stati venduti sul mercato libero a una classe dalla cultura elevata, conscia degli elementi architettonici e del fatto di vivere in un luogo tanto iconico da essere stato il setting di video musicali dei Depeche Mode, dei Blur e di Tricky.

D’altra parte questi edifici funzionano ancora da attrattori perché sono belli, di una bellezza che la nostra epoca non produce quasi più.

Nel 2016, durante Open House, sono stato a visitare Whittington Estate ad Archway, un complesso low-rise disegnato da un altro architetto ungherese, Peter Tabori. Whittington è in parte privato e in parte pubblico: a farci da anfitrioni erano un compositore di musica minimalista sessantenne e il suo compagno, un curatore museale, mentre i vicini di casa erano una famiglia con quattro figli, la più grande delle quali, forse quindicenne, teneva in braccio un neonato. Il nostro tour architettonico deve esserle sembrato una follia, se non un insulto.

La complessità delle geografie del privilegio può essere spiazzante, come dimostrano ancora gli high-rise di Kensington. Trellick e Grenfell distano tra loro un miglio o una fermata di metropolitana, sono state costruite nel 1972 in una stagione di grandi speranze poi naufragate, ma la loro storia non avrebbe potuto essere più diversa.

La Trellick Tower di Ernő Goldfinger (via)

Khadija Saye, la fotografa ventiquattrenne morta a Grenfell, aveva portato alla Biennale di Venezia una mostra intitolata Dwellings: in this space we breathe. “Dwelling” significa “casa” o “abitazione”, oltre che “rimuginare” o “dilungarsi”. Il suo lavoro era una riflessione sulla ricerca dell’identità della comunità migrante ghanese pensata attraverso le pratiche spirituali.

Fa spavento pensare alla distanza vertiginosa che può intercorrere tra la casa metafisica, dove si respira, e quella fisica, dove si soffoca in un incendio che tutti sapevano sarebbe prima o poi capitato.

THAMESMEAD

Lo storico della politica Gregory Clayes sostiene che l’utopia di un tempo o di una classe sociale è la distopia dell’altra: una grande chimera positiva del passato come quella di Tommaso Moro, che prevedeva una pianificazione rigida di aspetti come il sesso e la procreazione, oggi ci sembrerebbe appena meno distopica della Gilead di The Handmaid’s Tale.

“I materiali dell’urbanistica sono il sole, gli alberi, il cielo, l’acciaio e il cemento”, Le Corbusier
(Foto di Laura Lavorato)

Ballard era stato preveggente non solo nell’intuire il lato distopico dell’utopia collettivista dell’edilizia popolare degli anni Sessanta, ma anche la gentrificazione di quegli spazi che li avrebbe trasformati in qualcosa di radicalmente altro rispetto a sé stessi.

Quando attraversiamo questi spazi oggi, con l’obiettivo di mettere su Instagram le foto di un oggetto hauntologico — Mark Fisher lo chiamerebbe così — come i complessi brutalisti, o anche solo per fare da storici della contemporaneità, dovremmo ricordarci che la narrazione di un’utopia rapidamente scivolata nella distopia è troppo semplice: utopia e distopia sono due aspetti integrati di un modo di costruire e raccontare il mondo, in cui tutto viene pianificato dall’alto e il ruolo della libertà individuale è drasticamente ridimensionato.

Il ciclo di utopia che genera in distopia per tornare a essere utopia vale sia con il recupero del passato, come ha fatto Barnabas Calder con il suo canto d’amore per il brutalismo, ma anche come proiezione verso il futuro.

Un esempio meraviglioso viene dall’ultimo romanzo di Kim Stanley Robinson, ambientato in una New York del XXII secolo ormai completamente sommersa dallo scioglimento dei poli (ancora una volta una città sommersa).

Una copertina abbastanza esplicita (via)

KSR è un fantastico creatore di mondi chiusi e universi autosufficienti: in New York 2140 questo topos si incarna nella MetLife Tower di Madison Square, dove abitano tutti i protagonisti del romanzo. La MetLife Tower di Robinson è l’utopia dell’edilizia popolare degli anni Sessanta, che ritorna in chiave post-capitalista dopo essere passata attraverso la catastrofe dell’individualismo che ha portato al global warming: qui il risentimento di classe è riassorbito — nell’edificio, che funziona come una cooperativa, vivono informatici disoccupati, broker, star della TV, ragazzini orfani — e incanalato contro quel modello finanziario che ha mandato in tilt gli equilibri del pianeta.
In una scena emblematica del libro, dopo che New York è stata colpita da un super-tornado che ha provocato migliaia di morti e il collasso di interi quartieri, i newyorkesi rimasti senza abitazione assaltano i palazzi comprati dai super-ricchi come investimenti e lasciati vuoti, in un tentativo di portare nel nord del mondo l’esperienza della Torre di David a Caracas: la stessa cosa che i manifestanti londinesi hanno chiesto di fare alle autorità di Kensington dopo l’incendio di Grenfell.

Tuffi

Come Ballard, anche Kubrick ha raccontato quanto facilmente può collassare uno spazio per tradire l’idea di sé: il regista lo ha fatto quando ha scelto di ambientare Arancia Meccanica nel famigerato estate di Thamesmead, a Woolwich, che all’epoca era abitato da tre anni e già diventava un esempio di declino urbano. Thamesmead è a quaranta minuti a piedi dalla Thames Barrier. Da queste parti hanno girato anche la serie Misfits, e passando accanto ad alcuni garage di cemento con le recinzioni di ferro, pieni di oggetti di scarto, sembra di essere all’interno di qualche sequenza di Children of men, quelle in cui i rifugiati vengono messi in gabbia perché la capitale non è più un santuario e disattende le aspettative di chi cerca asilo.

Thamesmead venne fatto sorgere a metà degli anni Sessanta su degli acquitrini: all’inizio doveva contenere tra le 60.000 e le 100.000 persone, ma oggi dovrebbero essercene 50.000. In realtà, a passarci attraverso, sembra che non ci viva nessuno, tranne le persone che si occupano dei cavalli che si trovano in maniera inaspettata lì in mezzo e che fanno pensare a tutte le pagine sentimentali dell’antropocene. Quelle che ci invitano a superare il risentimento attraverso un patto di stabilità e di rispetto con le altre specie.

Il mio regno brutalista per un cavallo (Foto di Laura Lavorato)

Pensiamo di sapere tutto delle case popolari, soprattutto se volute da un programma di governo social-democratico; pensiamo di conoscere la loro promessa iniziale e l’amarezza della loro decadenza.

Clayes dice che l’utopia di una classe sociale è la distopia di un’altra, ma a rivedere le passerelle che collegano i palazzi — le famose strade nel cielo — e i declivi di cemento nei pressi di un lago artificiale, sembra che nel corso della sua storia Thamesmead sia stato il luogo dell’utopia e della distopia allo stesso tempo: le sue vie di fuga sono sempre state anche labirinti in grado di provocare un senso di nausea, è l’architettura a far coesistere l’escapismo e la sua negazione. Muri fatiscenti appena costruiti e pavimenti luccicanti già distrutti, un lasso di tempo in cui qualcosa si prepara ad avere la meglio su tutto, e nel frattempo il palazzo diventa invisibile.

Visitare Thamesmead — che verrà parzialmente abbattuto in base a un piano di rigenerazione mirato, tra le altre cose, a fornire nuovi alloggi per artisti (in pratica è la creazione di squat in vitro) — è ancora gratuito, a differenza del tour fotografico della distopia disponibile a Detroit per 75 dollari, promosso su TripAdvisor, in cui si pubblicizza la possibilità di visitare scuole, fabbriche, e teatri abbandonati in seguito alla bancarotta della città.

Southmere Lake, Thamesmead (via)

Di solito, il disfacimento delle estate e delle council houses viene imputato ai privati che le hanno riscattate e che invece di riammodernarle le hanno lasciate decadere, in modo da poter massimizzare i profitti grazie a inquilini che non hanno un forte potere contrattuale, fino al momento in cui si renderà necessario abbatterle per costruire qualcosa di meglio e dal prezzo esoso.

Ma il tour di Detroit o le visite guidate ai palazzi brutalisti dimostrano che se è vero che il neoliberismo ha abbandonato le case popolari, è pur vero che in questo stadio ha bisogno della loro fatiscenza per vendere il mito di sé stesso: si può applicare un prezzo a tutto, anche alla malinconia di sinistra.

LA MALINCONIA SINISTRA

Tendo a diffidare chiunque parli di Londra senza essere ossessionato da due argomenti: il cibo e l’housing. Quello che forma la città e la distrugge — i migranti, i flussi di denaro, ciò che resta della working class, ciò che resta della creative class — passa dalle sue strutture abitative, così come il modo più evidente in cui manifesta la disparità sociale al suo interno è attraverso l’alimentazione e la ristorazione sana, che ha livellato qualsiasi geografia, a tutte le latitudini.

Come scrive Mark Fisher nell’introduzione a Ghosts of My Life, la forza propulsiva del cambiamento culturale si arresta almeno in parte per colpa dei prezzi delle case schizzati alle stelle.

Senza gli squat e gli affitti accessibili, la storia del punk e del post-punk sarebbe stata molto diversa, ed è paradossale inseguire quell’effervescenza culturale senza lottare per le condizioni materiali che l’hanno determinata. Un’altra cattiva abitudine.

Burger Riot: Londra, 1° maggio 2000 (via)

Ma la storia di Londra di questi anni non è quella di band indimenticabili o di filosofie rivoluzionarie o movimenti artistici imperdibili, quanto della campagna avanzata dai bistrot biologici a discapito dei McDonald, una catena che sta vivendo un secondo destino: vecchia icona del capitalismo americano, un Mac è diventato la cosa più simile a una mensa sociale (un corollario alle food bank descritte in I, Daniel Blake di Ken Loach), comportando il paradosso della sua difesa appassionata da parte delle stesse persone — io — che ai tempi di No Logo si sarebbero fatte ardere piuttosto che mangiare una patatina fritta lì dentro.

Se è vero che non si parla più di destre o di sinistre, ma solo di forze politiche che si schierano in un certo modo rispetto ai temi dell’inclusione e dell’esclusione, va da sé che una diga come la Thames Barrier è uno strumento perfetto per fondare una nuova ideologia: attribuendo la colpa alla pressione vendicativa della natura, stabilisce chi resta fuori e chi entra. Basta sostituire la pressione della natura con quella dei migranti, e il futuro dell’Inghilterra è fatto: una nazione in cui il concetto di scelta viene sostituito da quello di ineluttabilità.

Alla forza orizzontale dell’espulsione, poi, si sovrappone quella centripeta di chi rimane, e fa di tutto per trovare uno spazio: il tempo di permanenza in un alloggio a Londra è di sei mesi, poi il proprietario cambia idea oppure il posto è talmente fatiscente da dover andare via.

Il mercato immobiliare educa a un rapporto cinico con le proprie stanze, ostacola i ricordi e l’abitudine, stabilisce soglie troppo alte per la vera cittadinanza (quella abitativa), e incattivisce.

È il motivo per cui per tanti londinesi ottenere una riduzione delle tasse universitarie è più importante che restare in Europa.
L’ossessione di restare in città e di occuparla conta più del fatto di dare a futuri migranti o aspiranti cittadini lo stesso diritto.

Taglia e cuci (Foto di Laura Lavorato)

A Corbyn non si chiede di riformare moralmente la sinistra, ma di salvare l’inglesissimo sistema sanitario. Un’altra conseguenza di quello che Fisher ha chiamato “realismo capitalista” è che se un mondo diverso non può esistere davvero, anche le battaglie politiche vanno ricalibrate sull’interesse personale.

Parlando della nuova élite che oggi abita nelle vecchie case popolari, Graham dice che queste hanno scordato la funzione originaria e l’idea di sinistra alla base di quel progetto, ma qui penso che si sbagli: piuttosto questa nuova élite, quando non è semplicemente mossa da motivazioni estetiche, è feticisticamente innamorata di quel progetto e persino del suo fallimento. Lutto e malinconia, come diceva Freud, sono differenziate dall’attaccamento che proviamo per l’oggetto scomparso. Il malinconico non vuole lasciar passare il passato, ne fa il centro narcisistico della propria impasse.

In un bell’articolo per «n+1», Hatherley (che, guarda caso, vive in un complesso popolare degli anni Cinquanta pure lui) racconta come ha vissuto la campagna elettorale di Corbyn per le politiche del 2017: lui che è figlio di militanti di lunga data e ha speso tutti i mesi precedenti le elezioni a volantinare nel suo quartiere a Woolwich, spiega che l’ottimo programma di Corbyn è quasi una copia del programma presentato dai Labour alle elezioni del 1983, e che allora aveva condotto il partito alla più grande sconfitta della sua storia.

Ma quelli erano gli anni in cui il thatcherismo stava vincendo tutto e non prendeva prigionieri. Corbyn era stato eletto in parlamento proprio quell’anno, quindi il fatto che il suo programma riprendesse tanti elementi del manifesto del 1983 non era un caso. Trentacinque anni più tardi le stesse proposte hanno trovato un’accoglienza ben più favorevole, portando un successo insperato.

La malinconia di sinistra a volte si rivela un ottimo strumento per riflettere sulle proprie sconfitte e trasformarle in vittorie.

Quando ho letto il pezzo di Hatherley ho pensato che viviamo in un mondo di fantasmi, un’impressione che non ha fatto che aumentare man mano che scrivendo questo articolo pensavo al tema delicatissimo e fondamentale dell’abitare: fantasmi come quelli delle fotografie di Khadija Saye, che sono ferrotipie da un mondo che non è più qui eppure c’è ancora, o come gli attici di lusso che continuano a essere costruiti per nessuno, fantasmi di un’abitazione creati da un sistema economico immateriale. Fantasmi dell’utopia brutalista che non si è mai realizzata davvero, rimanendo sempre in potenza, e della distopia ballardiana che era sempre già lì, al cuore dell’utopia, come un’interferenza.

Autoritratto di Khadija Saye, da “Dwellings: in this space we breathe” (via)

Fantasmi degli anni Ottanta che tornano trasfigurati eppure sempre uguali in un loop di nostalgia, il mondo che teoricamente dovrebbe essere lo stesso di trentacinque anni fa perché la storia dovrebbe essersi fermata, ma cambia così tanto da un giorno all’altro che fatichiamo a riconoscerlo. Il fantasma di Grenfell Tower è ancora al suo posto, nero e carbonizzato, e se abiti o lavori da quelle parti è diventato un altro elemento del tuo panorama, mentre il movimento di protesta che questa tragedia immane ha scatenato, o il fantasma di quel movimento, è ancora in attesa di trovare un ascolto.

CITTÀ IN FIAMME

In queste settimane in cui si sono succedute elezioni clamorose, in cui i Tories hanno perso e i Labour comunque non hanno vinto, attentati che mi hanno fatto trascorrere una notte insonne per gli elicotteri in volo sopra il mio quartiere e palazzi in fiamme, mi sono detta spesso che mancava un’epidemia di eroina affinché io mi sentissi precipitare in tutto quel che so di New York nel 1977.

Le cronache londinesi degli ultimi tempi, però, hanno fatto crollare uno degli assiomi su cui si è basata la mia educazione sentimentale, e la mia fede nei tempi di crisi è venuta meno: ho sempre pensato che in fasi di collasso si scrivessero ottimi romanzi e si fondassero band importanti. Ma oggi il culto egoistico delle rovine che ci hanno ispirato — ma non ammazzato — mi risulta insopportabile.

Demolizioni in timelapse: Connaught Estate a Woolwich

Come scrive Chris Kraus in Torpor, il mito attorno alla New York di quegli anni è stucchevole: Fisher ha ragione a dire che si scriveva un sacco di bella musica perché costava poco viverci, ma per lei che era una periferia di una periferia è stato un momento terribile, in cui tanta gente è andata in pezzi e si sono assunte posture d’avanguardia che di fatto sono diventate conformiste.

Nel documentario Hypernormalization, Adam Curtis fa partire lo stato di post-verità e di realismo distopico in cui viviamo proprio da quella New York distrutta in cui il vuoto di governance è stato riempito da un eccesso di banche, forze occulte e disintermediazione tecnologica.

Se ci ripenso, mi chiedo quale tipo di disastri trentennali emergeranno da Londra com’è adesso, dal suo essere una capitale cosmetica e immorale, piena di attimi sconquassanti di bellezza vanificati dal loro essere sempre più inaccessibili.

E ho la sensazione che tra molti anni, quando probabilmente non ci vivrò più e il periodo post-Brexit verrà ricordato per il suo costo sociale minimizzato da conservatori e pensatori di sinistra nella stessa maniera, non avrà la tentazione di monumentalizzare quanto sta succedendo adesso: negli anni peggiori di una città tutto è peggiore, e non c’è retromania che tenga. Nessuna incoscienza romantica potrà farsi carico di questa crisi.

In Postcapitalismo Paul Mason propone di accelerare l’automazione per abolire il lavoro salariato e concentrare le energie produttive in altri settori, tra cui la cultura o il volontariato. Quello tra accelerare e decelerare è un dilemma con cui la sinistra del futuro dovrà confrontarsi: siamo sicuri che saprà gestire il risentimento che emergerà quando un software avrà sostituito il lavoro dei suoi elettori?

Tutto bene, Brian, tutto bene

L’accelerazionismo resta ambiguo sul costo sociale di una fase di crisi portata alle estreme conseguenze: come ha sostenuto Brian Eno in un’intervista tristemente famosa su «The Guardian», ben venga Trump se serve ad esasperare le contraddizioni del momento e ben venga il risentimento quasi fosse una forma di detox sociale, ma questo scenario alla Mad Max non è una democrazia: a soffrire di più saranno le minoranze che già esistono, le persone che già perdono.

L’accelerazionismo è una scommessa su un futuro che potrebbe non arrivare: ma chi è più nichilista, chi spera che vada tutto in fiamme perché quantomeno sarà possibile fondare una nuova società dalle ceneri, o chi crede che non ci sarà niente di meglio dopo Trump e Brexit, perché non potrà esserci niente dopo Trump e Brexit?

E cos’è un’utopia se non una maniera di pensare a un futuro radicalmente altro, quando questo fa di tutto per dirti che non esiste?

(Foto di Laura Lavorato)

Bibliografia

Ballard, J. G., Il mondo sommerso, Milano: Feltrinelli, 2015 (ed. orig. 1962).

Ballard, J. G., Il condominio, Milano: Feltrinelli, 2014 (ed. orig. 1975).

Calder, B., Raw Concrete: The Beauty of Brutalism, Portsmouth: William Heinemann, 2016.

Fisher, M., Capitalism Realism: Is There No Alternative?, Londra: Zero Books, 2009.

Fisher, M., Ghosts of my life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures, Londra: Zero Books, 2014.

Graham, S., Cities Under Siege: The New Military Urbanism, Londra/New York: Verso, 2010.

Graham, S., Vertical: The City from Satellites to Bunkers, Londra/New York: Verso, 2016.

Mason, P., Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, Milano: Il Saggiatore, 2016 (ed. orig. 2015).

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