Siamo un animale strano

Sul perché ci piace guardare Masterchef

Ferdinando Morgana
The Catcher
5 min readJan 28, 2017

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(Internet / elaborazione grafica The Catcher)

Alcuni strano ma vero dal mondo animale. Gli elefanti sono gli unici animali per i quali è anatomicamente impossibile saltare. Tutti gli orsi polari sono mancini. L’occhio di un’ostrica è più grande del suo cervello. Non esistono gatti neri.

E se esiste un numero indefinito di quelli che possiamo descrivere come aspetti curiosi del mondo animale, una larga parte riguarda i costumi alimentari: i primati sbucciano le banane operando una leva vantaggiosa sul fondo e non una leva svantaggiosa sul picciolo come facciamo noi, le farfalle percepiscono il gusto attraverso le zampe, il dromedario non incamera acqua nelle gobbe per i periodi di siccità, e anzi non accumula acqua quasi mai. E soprattutto, nel vasto panorama dell’alimentazione animale sul pianeta terra, nessuno trasforma il cibo che trova. La materia prima — raccolta, cacciata, sottratta — rimane sempre tale consumata come tale.

L’essere umano è l’unico animale che cucina.

Cucinare è quindi una delle attività che definiscono il nostro essere uomini.
Non l’unica, non la principale, forse non la più recente, ma di certo una delle poche che oltre a definirci umani ha contribuito a renderci più umani. La cottura, rendendo più facilmente digeribili le materie prime, abbattendo il livello batterico della carne cacciata, trasformando il non edibile in nutrimento, ci ha reso meno neandertaliani e più sapiens. Gli umani cucinano, e cucinare ci ha reso nei millenni ogni giorno sempre più umani.

Non fa una piega.

Ragionare di cucina, quindi, è in un certo senso assistere al salto evolutivo umano in un furioso time lapse. Dal controllo del fuoco da parte dei primi uomini (1.42 milioni di anni fa) alla domesticazione delle colture (11.500 anni fa, orzo selvatico, grano e lenticchie nel sito di Chogha Golan nel Neolitico pre-ceramico) a quella animale (probabilmente erbivori di piccola taglia circa 9.000 anni fa). Forse è per questo che il cibo, più di ogni altro elemento che ci circonda, racconta una storia. Mostra il percorso fatto per allontanarci da quello che eravamo millenni fa per diventare ciò che siamo oggi, ma allo stesso tempo trasporta con sé, ci riavvicina in un istante a, quello che erano le generazioni che ci hanno preceduto — il ragù della domenica di nonna, la crostata di mamma, la ricetta segreta di famiglia, i grassi saturi delle merendine degli anni ottanta.

Non poteva quindi esistere combustibile più efficace per il motore televisivo contemporaneo. L’ossessione collettiva per il food, alimenta da anni — quale altro verbo utilizzare? — la partecipazione pubblica al talent.
Masterchef — prima messa in onda sulla BBC nel 1990 ma riproposto e arrivato al successo nel 2005, distribuito in più di trenta paesi del mondo, sei edizioni in Italia — è uno degli show televisivi di maggior successo di questa decade. Il format è semplice ma efficace: una gara di cucina tra venti cuochi dilettanti. Tra prove singole e a squadra, puntata dopo puntata si arriva a eleggere il miglior cuoco amatoriale del paese in cui si svolge lo show. Ogni anno partecipano alle selezioni preliminari decine di migliaia di persone. Per l’ultima edizione italiana, la sesta, attualmente in onda, si sono presentati ai casting più di 120.000 aspiranti masterchef. Dopo selezioni serrate a telecamere spente davanti agli autori, solo 150 sono passati al live cooking, la selezione con i quattro giudici titolari: Bruno Barbieri, Carlo Cracco, Joe Bastianich e Antonino Cannavacciuolo (entrato alla quinta edizione).

Numeretti (illustrazione The Catcher)

La forza dello show è unire a un serrato meccanismo a eliminazione diretta — ogni puntata un concorrente in meno — due elementi fondamentali.
Il primo, più evidente, è il cibo nella sua piena manifestazione di materia prima, di origine, di crudezza estetica, di apertura spalancata verso la terra e mondo animale. Il secondo sono le storie di riscatto personale, paura e desiderio che emergono durante le audition e sempre più prepotentemente puntata dopo puntata. Erica, fisioterapista, madre single trentunenne vincitrice della quinta edizione di Masterchef Italia; Ivan, poeta dialettale siciliano che mosso alle lacrime vorrebbe autoeliminarsi per la vergogna di aver sbagliato a riprodurre il piatto di una chef stellata durante una prova decisiva; Valerio, il diciottenne che sembra predestinato alla vittoria della sesta edizione, che ha assaggiato la crema dalle lame di un frullatore a immersione quando aveva tre anni e ne porta ancora il segno sulle labbra.

Ma il successo del programma, che contrariamente a quello che pensano molti non ha scatenato nel pubblico internazionale la cosiddetta bolla del food, ma che invece è il risultato della capacità del produttore Franc Roddam di coglierla sul nascere e capitalizzarla meglio di chiunque altro, a cosa si deve? Alla semplice unione mistica di competizione, cibo e storia personale?

La casa senza bagno: tragico reality (Boris S03)

Molti altri talent show si basano su elementi simili — sostituiamo a cibo musica, ballo, ballo sul ghiaccio, corteggiamento, sopravvivenza, sopravvivenza su isola deserta, sopravvivenza senza cibo su isola deserta in ambiente ostile, panificazione, tatuaggi, copertura di tatuaggi, domiciliazione in case sovraffollate di aspiranti (o ex) star televisive, domiciliazione in case sovraffollate prive di bagno, ma pochi o nessuno di questi hanno suscitato l’interesse di Masterchef. Invece il cibo, anzi la cucina. Perché funziona? Probabilmente perché unisce un elemento primario a un gesto primitivo.

La competizione è elemento dato in natura. La narrazione molto meno. La loro unione, rara, è indispensabile alla sopravvivenza. L’ultimo e migliore ad averlo spiegato è Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare — come le storie ci hanno resi umani (Bollati e Boringheri, 2014):

“Nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l’essere umano, egli è uno storytelling animal”.

Siamo quindi abituati a cercare di sopravvivere competendo e raccontando, e vederlo replicare come intrattenimento televisivo lo ha reso ancora più comune. E l’inserimento del cibo nell’arena della competizione e della sopravvivenza del più adatto, non ha fatto altro che richiamare in noi un’eco ancestrale.

Siamo tutti d’accordo?

Masterchef, quindi, con le missioni a squadre e le prove a tempo, con i giudici che infieriscono urlando verso i concorrenti in difficoltà, con gli invention test e le mystery box in cui associare ingredienti improbabili per sortirne un piatto coerente ed equilibrato — vero punto d’onore di ogni puntata — risuona quasi darwinianamente nella parte rettiliana e primitiva del nostro cervello, ricordandoci come siamo arrivati fino a qui, fino a essere umani. Ci ricorda e ci racconta meglio di altri cosa ci rende profondamente umani.

E a meno che i prossimi talent non riguardino il tentativo di far saltare elefanti o insegnare a usare la destra agli orsi polari, la conquista di Masterchef sull’immaginario collettivo, la sua presa salda su cosa rende tale una specie, è ancora ben distante dall’essere scalzata.

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