Io mi salvo così

Un racconto di Francesca Marzia Esposito

The Catcher
The Catcher
11 min readJan 18, 2018

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Il Duomo, i grattacieli, le prime alla Scala, le boutique di via Montenapoleone. Eppure Milano è anche altro: c’è una città sotterranea, che vive tra i vagoni della metropolitana, nelle periferie, che attacca a lavorare quando tutti vanno a letto. È la Milano di Tea, aspirante scaligera che si trova invece a ballare sul cubo in discoteche e night. È la Milano di Yatma, da venditore ambulante a buttafuori. È una città di relitti umani, immortalata in una narrazione magmatica e feroce, che gioca a combinare registri diversi in uno stile personale e dal ritmo incalzante. È una Milano sconosciuta ai più, dove, nonostante tutto, è ancora possibile trovare un modo per salvarsi.

Questo racconto è apparso su «Cadillac» ed è stato selezionato per Atlante Nazionale da Francesca Barbalace.

Zona: Lombardia, Milano

Una sagoma nera stagliata contro l’aria livida del mattino scese un gradino dopo l’altro inabissandosi nel tunnel di luce artificiale, poi ritornò nitida, un corpo aerodinamico che avanzava nel deserto di cemento attorno. Tea camminava svelta, il rumore dei tacchi si amplificava, le mani le aveva al riparo dentro le tasche e la testa era un involucro vuoto che sfiatava in la maggiore. Superò la gigantografia di una spiaggia digitalizzata, avvertì un profumo pulviscolare di brioche propagatosi all’improvviso, un’onda olfattiva senza fonte, quasi un delirio mentale che le provocò una pressione cava al centro dello stomaco.

Passi cadenzati, ritmo binario da marcia urbana, e in lontananza il contorno bluastro del mezzobusto sottovetro oltre il gabbiotto ATM.

Appoggiò il tesserino sulla fotocellula, scambiò uno sguardo con il relitto umano seduto dietro al monitor, lo superò, unì i malleoli sullo scalino articolato, la mobile si azionò e la fece atterrare sulla banchina. Il vagone era spento, questione di minuti e i neon spararono un giorno elettrico, Tea entrò, risalì la strisciata fluida dei sedili in prospettiva e si posizionò in cima al budello d’acciaio. Il mascara incrostato le sigillò l’occhio sinistro, staccò le ciglia con due dita, poco dopo arrivarono gli altri, uomini e donne dall’aria stravolta, sfiniti come da una malattia ostinata impossibile da debellare.

Facce amorfe, spalle accasciate, figure sparute depositate e inermi, una donna enorme spacchettò una confezione di biscotti e se li ficcò in bocca uno dopo l’altro. Quando arrivò Yatma nel suo completo giacca nera camicia bianca cravatta nera, si fermò davanti a Tea, puntò il telefono in basso su di lei e inquadrò il collo del piede che si gettava arcuato e nodoso oltre la mascherina delle décolleté.

I tacchi inclinavano all’interno storpiando la linea nobile delle caviglie, erano scarpe da ventinove e novanta, Tea le comprava al negozietto del sottopasso in Stazione Centrale, le usava fino a consumarle.

Sposta il sinistro, disse lui. La scarpa ruotò in esterno, lo schermo mise a fuoco il profilo prominente sul calcagno, la diagonale del fiosso, mancava il dischetto gommato al tacco che poggiava direttamente sulla suola chiodata. Yatma scattò la foto, alzò gli occhi — due grossi bulbi ingialliti — nel piegarsi fece una smorfia, si tastò la giacca, sulle costole, poi si sedette accanto a Tea. Quando la smetterai sarà troppo tardi, disse lei.

Yatma era nella security, faceva la colonna umana vicino alle porte, se ne stava immobile per ore addossato a un infisso a controllare il viavai. Tre anni fa vendeva libri per strada, lo vedevi comparire all’imbocco della metro e, se non eri abbastanza veloce a schivarlo, ti accompagnava per un bel pezzo cercando di appiopparti un volume con una zebra e una duna stampati in copertina. Poi era passato a smerciare ombrelli, braccialetti, calzini di spugna, pupazzetti che si animavano su un loop di note campionate. E la vita era rimasta invariata fino a quando aveva iniziato a sostituire un tizio all’entrata di una discoteca. Con i primi soldi si era procurato per cinquanta euro un i-Phone 4 da un giro di cinesi in zona Cenisio, la cosa gli aveva procurato una felicità infantile e lo aveva fatto sentire dalla parte giusta della barricata. Riattaccava a lavorare dopo quattro ore di sonno e un turno di sette ore.

Per ottimizzare minuti, entrava sempre nella carrozza motrice, aveva una tratta lunga da fare, durante la quale se ne stava a capo chino sullo schermo immortalando di nascosto porzioni di corpi allentati nella placenta atemporale del viaggio, la stasi conserta e arresa dei piedi e delle scarpe appartenenti a esseri regrediti al grado di organismi catatonici monocellulari.

La prima volta che Tea se ne era accorta aveva lasciato perdere, poi un giorno lo aveva fissato e lui le aveva sorriso disarmato, non prima di aver allargato in dettaglio la posa sghemba degli stivali tacco dodici. Anche lei era un’abitudinaria, sempre nel primo vagone, preferibilmente in un posto laterale vicino alle automatiche. E nella ripetizione lui le aveva chiesto il nome, e lei aveva risposto E tu?, poi erano trascorsi mesi. Lo scatto di accensione fece vibrare i sedili, il convoglio partì e la velocità si trasformò in spinta pressurizzata.

Carmelo voleva che arrivassero già in tiro, ripeteva sempre Alte e fighe. Coco e Patti sembravano disegnate, la sproporzione tipica delle anime giapponesi, pupille divaricate, bocche lucide, seni aerostatici al silicone, il resto miniaturizzato e appuntito da un’astrazione anatomica in 3d. Tea invece era un avatar coi capelli ossigenati poggiante su gambe chilometriche e glutei scolpiti. Ora faceva quattro serate a settimana, voleva dire più soldi e un sibilo acuto costante che le trapassava i timpani da parte a parte. Quando finiva portava a casa un corpo svitato, scardinato, una macchina slogata, i pezzi c’erano tutti, solo bisognava riassemblarli. Non aveva diritto a lamentarsi, quelle cifre non gliele avrebbe pagate nessun altro, lo sapeva. Avrebbe voluto essere una ballerina classica, questa è la verità, alla sbarra la realtà le rendeva giustizia, alla sbarra precipitava nell’esatta forma della propria esistenza. A volte nella calca metropolitana le capitava di avvistare una scaligera, un alieno filiforme dotato di arti ipersviluppati ripiegati sotto le vesti, ne avvertiva la potenza a riposo, il dispiegarsi di un’abilità elitaria. Lei anche ci aveva provato, ma presto aveva dovuto prendere coscienza di una verità stringente: era e sarebbe stata sempre una mediocre.

Toccava accontentarsi di muovere il culo perfetto sotto lo strobo di una sala specchiata, quella era l’unica danza, l’unica declinazione tersicorea a cui era destinata.

Il punto di ritrovo era davanti al McDonald’s della stazione Lotto, qui la comune dei corpi geneticamente modificati veniva smistata nelle macchine parcheggiate sul piazzale, sotto i lampioni che sbiancavano la notte e trasformavano i volti in dischi opalescenti, nello scintillio dei fari che investiva incessantemente il vialone. Ogni volta che entrava da una portiera posteriore dell’auto di turno, Tea scivolava di coccige immersa nell’odore di lacca e fard e vigorsol, e si ripeteva come un mantra: Sono centocinquanta euro, centocinquanta. Il motore carburava, l’asfalto diventava un nastro ininterrotto sotto le ruote, sul finestrino appariva il suo ritratto spettrale sovrapposto al bagliore elettrico che correva all’indietro. Mano a mano il buio dell’abitacolo diventava uno spazio mentale ritagliato attorno al cruscotto verde cadmio, l’unico elemento illuminato che creava una distanza, seppure falsata, tra le sue ginocchia nodose e il sedile antistante; in quella dimensione Tea si isolava e diventava inavvicinabile.

Finivano sempre in posti sperduti nella nebbia, a un certo punto volteggiava nel cielo un immenso cono di luce, una curva ellittica virtuale a indicare il baratro incandescente di una discoteca, il resto era campagna piatta secca strappata. Tea scartava un altro chewingum e si drizzava di schiena. Entravano con la testa ficcata nel cappuccio e il borsone su una spalla, Tea, Coco, Patti, Giusi, i nomi glieli storpiava Carmelo.

Avanzavano sui tacchi, a mento basso, come pugili.

Dentro era un volume espanso vertiginoso, i neon viola inondavano una marea informe brulicante. Un paio di energumeni col codino fendeva il varco tra la folla, si creava un boato imploso al loro passaggio, le ballerine avanzavano, creature celesti atterrate in un altro pianeta. E mentre seguiva le altre, inondata dalla musica che rimbombava nelle viscere, Tea subiva uno spaesamento percettivo. Avrebbero potuto essere chiunque, le prendevano per quelle della tv, per un gruppo famoso, per gente di successo. La verità è che di lì a tre anni Patti sarebbe rimasta incinta, Giusi avrebbe fatto ancora la barista, di Coco si sarebbero perse le tracce, e Tea sarebbe stata ancora l’unica del quartetto ad aver finito il liceo.
La verità è che non tutte le verità servono a qualcosa.

Yatma le mostrò gli ultimi scatti, scarponi di pelo e ortopediche con para. Manteneva il display davanti al busto con le dita bicolore fuori nere dentro rosa, e nel frattempo controllava il volto di Tea, il triangolo scavato sotto gli zigomi risucchiato nelle guance. Due indiane si sedettero davanti a loro, donne giovani dai capelli inchiostrati vestite all’antica. La metro sussultava, l’apri e chiudi delle ante cadenzava il ritmo della corsa. Tea si alzò, macchie scure le sporcarono la vista, la sacca sulla spalla le sbilanciò l’assetto, salutò Yatma senza girarsi, alzando una mano contro il vetro.

Catwoman e Candy erano fuori da venticinque minuti, Tea aveva incrociato i nastri delle scarpette direttamente sulla pelle nuda, le cosce unte di olio screziavano marmorizzate, fluorescenti, sopra indossava la ruota di un tutù bianco, un reggipetto imbottito e uno zircone incastonato nell’ombelico. Ogni tanto inarcava le caviglie e saliva in punta, l’alluce premeva contro il silicone dei salvapiedi e il gesso della mascherina la faceva diventare altissima, immortale.

Fasci di luce tagliavano il buio in strisciate accecanti, la sala era un tappeto umano, le t-shirt e i denti flashavano, teste e braccia si muovevano a scatti scompattando la massa cinetica.

Il fumo bianco era il segnale, un getto a pressione di vapore chimico che provocava una cecità graduale allentando un aroma di fragola sintetica. Quando sarà vecchia questo odore di fragola polverizzata sarà la sua nostalgia minchiona, pensava tutte le volte. Sull’altro lato del palco Coco era una figura immersa nella penombra, indossava un costume tigrato e dei gambali di plastica trasparente che a breve avrebbero cominciato ad appannarsi e a condensare microgocce. Catwoman fece cenno, la scena rimase vuota qualche istante.

Yatma comparve all’alba come sempre, entrò nel vagone, Tea cercò di non fissargli l’occhio martoriato che gli accoppava l’espressione, eppure l’attenzione capitava esattamente lì. Le allungò un sacchetto di carta bitorzoluto che sprigionava un odore di burro cotto, lei lo aprì, addentò la brioche calda. Masticava e ingoiava voracemente, era a digiuno, aveva il palato amaro. A volte, la mattina, mentre Milano era un profilo frastagliato, e il crepuscolo si accendeva in un punto disperso all’orizzonte, e le vie erano deserte e silenziose, in quel tempo sospeso e arrestato dove gli uomini e le donne non sono altro che desideri pensati sotto forma di sogni notturni, quando rientrava nel suo monolocale mansardato, e il giorno era una lamina amianto che filtrava dal lucernario del tetto ribassato, e appoggiava le chiavi sul tavolo, e le scarpe erano due reduci davanti alla porta, Tea pensava che sarebbe stato giusto essere più bella, o più intelligente, o più ricca, o più brava, qualsiasi cosa, ma più. Nel piegare il gomito la faccia di Yatma tradì il dolore acuto che gli traversò i nervi.

Lo schermo del telefono centrò il dettaglio: plateau, tacco a spillo, fascia dorata sul metatarso, ventidue euro e novanta.

Che te ne farai di tutte queste foto, disse lei.
Io mi salvo così, disse lui.

Il posto era un night, una pedana con due pali al centro, c’era puzza di ormoni, di sudore, di deodoranti scadenti. E non era sufficientemente buio, dal palchetto si vedevano i crani che riempivano la sala. Gli occhi di Tea misero a fuoco il portinaio, il panettiere, l’edicolante, un amico del liceo, uno zio, Michi, il dottor Erisi, ma poi no, erano solo orecchie fronti capelli bocche nasi — a centinaia. Si voltò di schiena, si stoppò, diventò un fermo immagine, una scultura ossea levigata immersa in un caos di suoni e colori, un contorno scavato controluce, gambe a strapiombo delimitate in alto da un triangolo laminato abbagliante sotto la pellicola bluastra. Prese a muoversi lentamente come in preda a uno svenimento estatico, una paralisi mistica in atto negli arti pronti a contorcersi, a disarticolarsi in scatti improvvisi; un felino che inarcava la spina dorsale e si ribaltava divaricando le cosce in faccia a quelli della prima fila. A volte il tassello del perizoma rientrava nelle carni.

Nel suo cervello la sala gremita perdeva consistenza, diventava un’onda energetica, i crani sparivano, la musica si incurvava in una distorsione magmatica, rimanevano i battiti cardiaci, un tam tam lontano, ancestrale.

Sabato mattina il labbro inferiore di Yatma mutò in un’escrescenza di carne tumefatta, il livido sulla palpebra invece si stava appiattendo, la pelle seccava raggrinzita. Incrociò lo sguardo di Tea, le fece cenno con la mano. Erano seduti paralleli, il borsone nel mezzo, non entrò nessun altro, sprofondarono in un sonno violento. La mente di Tea diventò un susseguirsi di immagini, scarti di vissuto, ritagliati isolati e riproposti ad alta velocità, ogni tanto si destava, controllava la fermata, poi riprendeva a scandagliare eventi onirici. Riemerse per tempo agganciata comunque alla confusione psichica, si alzò, attese lo sfiato decompressivo delle automatiche, si voltò indietro per salutare Yatma, ma trovò un ammasso corrugato e spento. La metro ripartì elencando riquadri di vetro immersi nel buio, diventò una striscia liquida, spazzò l’aria. Fu l’ultima volta che si incontrarono.
Tea pensò che prima o poi sarebbe ricomparso, invece Yatma non lo vide più. Passarono mesi.

Era l’alba di un giorno qualsiasi, Milano in superficie allestiva uno scenario grigio coperto da una calotta di gesso mentre sottoterra ramificava un flusso elettrico in continuo scorrimento.

In uno dei treni della linea verde, di fronte a Tea, dormiva una famiglia marocchina, madre padre e due bambine disattivate nell’identica posa scomposta delle gambe a ciondoloni. Come fossero lì da anni, incantati in un eterno presente. Tea era tramortita dal freddo, aveva arrotolato nelle scarpe quattrocento euro, li osservò passivamente, poi prese il telefono, puntò la camera sui piedi impiccati delle due creature e scattò una foto.

ATLANTE NAZIONALE è una collana di racconti con un’ambientazione circoscritta e ben delineata, che si pone l’obiettivo di rappresentare, da nord a sud, l’Italia attuale.

Racconti apparsi negli ultimi anni su alcune delle più interessanti riviste letterarie indipendenti, riscoperti e selezionati dagli allievi del corso “Editoria per esploratori coraggiosi”, impreziositi dai collage di Andrea Falcone e dagli acquerelli di Alice Rebolino. Una collana a cura di Francesco Sparacino, per raccontare l’Italia di questi anni e approfondire il mondo delle riviste letterarie.

Francesca Marzia Esposito vive a Milano, insegna danza. Si è laureata dal Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ‘tina, Colla, GQ, Cadillac. La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi, 2015) è il suo primo romanzo.

«Cadillac» è una rivista di racconti nata nel 2012, ospita sia autori esordienti sia autori già noti, anche stranieri (come Jonathan Lethem, Shelley Jackson, Pedro Juan Gutierrez).

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