“Noi non siamo avventurieri”

Manoocher Deghati racconta il mestiere del fotogiornalista

The Catcher
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17 min readJan 28, 2019

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Foto di Giovanni Barbato

Un paio di guanti neri, di quelli che coprono solo mezze dita, con il dorso in lana e il palmo in pelle, giacciono su una delle tante bancarelle del Balòn, lo storico mercato delle pulci di Torino. Sembrano dimenticati là, tra vecchi libri, pentole di acciaio, scatole in latta, zoccoli di legno. Manoocher li vede, li prova, li compra. Due euro. Questo è il primo acquisto della giornata.

Manoocher Deghati, due volte vincitore del World Press Photo, non ha mai visto Torino e tantomeno il Balòn. Sembra incuriosito dalle cianfrusaglie che vede sulle bancarelle: è colpito soprattutto dal bizzarro accostamento degli oggetti. Si passa da vecchi orologi da taschino a mini abiti per le Barbie, fino a tanti piccoli Carletto, il camaleonte verde che si trovava nelle confezioni dei sofficini Findus: tutti rigorosamente in vendita. Il fotografo iraniano ha girato il mondo, ha visto una miriade di mercati, dal Sudamerica al Medio Oriente, molto più grandi e caotici di questo. Scatta qualche fotografia agli oggetti che lo incuriosiscono, chiede una foto ad alcuni venditori, si fa un selfie con noi davanti allo specchio. Con la sua Canon in mano non è invadente, anzi. Si avvicina e chiede sempre se può scattare qualche foto. Lo fa parlando ogni volta una lingua diversa in base a chi ha davanti: dall’iraniano all’inglese, dallo spagnolo all’arabo.

Una foto in bianco e nero di Totò, un murales sulla facciata di una ex casa occupata, una vecchia foto di un prete, un poster dell’URSS, dei tappeti persiani. Fotografa alcuni particolari, e riguarda i suoi scatti, ogni volta. Si ferma per qualche altro acquisto: annusa le spezie, ne contratta il prezzo. Si attarda anche ad ascoltare un piccolo concerto improvvisato di un gruppo di anziani del posto, lasciando una moneta in cambio di una foto prima di andarsene. Se lo si incrocia per le vie del rione sembra un turista qualsiasi: macchina fotografica al collo, giubbotto in pelle, occhiali da vista, volto segnato dall’età. Manoocher Deghati, però, non è uno qualsiasi.

Foto di Manoocher Deghati

Ci racconta la sua storia, seduto nella veranda di un locale marocchino, Al Jazeera: ordina una teiera di tè alla menta, rigorosamente in arabo. Lo versa nei bicchieri pesanti di vetro partendo dal basso e sollevando sempre più la brocca fino quasi a formare un arco, lasciando zampillare il tè nei bicchieri fumanti: li appanna, li profuma.

Cinema, fotografia e rivoluzioni

L’odore del tè alla menta e del narghilè, la confusione del mercato, le lingue dai suoni gutturali che ci circondano. Quando Manoocher inizia a parlare, non siamo più a Torino, ma dentro i suoi ricordi. Ecco allora che ci porta con sé nell’Iran degli anni ’60, durante la sua infanzia, quando assieme al fratello Reza inizia a scoprire la fotografia. Quel momento porta il nome di una macchina fotografica, una Lubitel per la precisione, che lo zio regala ai due fratelli: “Una macchina sovietica che non costava niente all’epoca. Così abbiamo iniziato a fare delle foto. Mi ricordo il primo rullino che abbiamo scattato: quando è finito non sapevamo cosa farcene” racconta divertito, “allora siamo andati in uno studio fotografico vicino casa e abbiamo chiesto che cosa dovevamo fare con quel rullino. Il titolare ci ha risposto che andava sviluppato e che costava una certa cifra. Ovviamente non avevamo un soldo, quindi ci ha proposto di andare ad aiutarlo e in cambio l’avrebbe sviluppato gratuitamente”. Così i due fratelli, per qualche giorno, si dedicano a pulire il negozio, ma non solo: osservano, studiano, imparano come funziona una camera oscura, quella che poco dopo si sarebbero costruiti autonomamente nella propria stanza.

Foto di Elisa Tasca

La passione per le immagini nella vita di Deghati, però, passa inizialmente per il cinema, la stessa passione che lo porterà a studiarlo a Roma: “Quando ero piccolino scappavo da scuola e andavo a vedere tutti i film dell’epoca e rimanevo dentro la sala due o tre proiezioni di fila. Poi delle volte si rompeva la macchina e dovevamo aspettare ore o addirittura tornare il giorno dopo”. Scoppia in una risata quando ci racconta che il suo primo contatto con il cinema italiano è avvenuto proprio in quel momento con pellicole come “Ciccio e Franco e cose di quel genere lì”. Ma è il cineclub dell’università che gli fa conoscere i grandi autori di quel periodo come Pasolini, Visconti, Antonioni ma anche i maestri del cinema francese: “È in quel momento che mi sono detto: io voglio fare cinema. Ma non come regista, a me interessava fare il cameraman”.

È così che, dopo aver trascorso sei mesi in India, a 19 anni, Deghati decide di trasferirsi a Roma per inseguire la sua passione: “Ho preso un treno da Teheran e dopo nove giorni sono arrivato a Roma. Sono passato per Istanbul e la Jugoslavia, ma mi sono fermato una notte a Belgrado. Un tale che avevo conosciuto durante il viaggio, un iraniano, non era tornato e il treno era prossimo alla partenza. Così sono sceso per cercarlo e, in quel momento, il treno è partito. L’ho trovato dopo poco, perso per la città: quella notte abbiamo dormito fuori, faceva un freddo…”.

Gli studi a Roma, le simpatie per la sinistra extraparlamentare italiana, gli amici di Lotta Continua e infine il fatidico 1978, l’anno in cui il mondo ha puntato gli occhi sull’Iran e su quello che stava avvenendo: “Così ho cominciato la mia carriera, tornando immediatamente in Iran, dove ho iniziato a scattare sin da subito. Durante le proteste ho preso la mia macchina fotografica, una Nikkormat, me lo ricordo ancora: sono sceso in strada con due rullini e degli obiettivi comprati per l’occasione. Anche la mia ragazza italiana (lei era abruzzese) era venuta con me. Ha partecipato anche alle manifestazioni, insieme abbiamo curato i feriti. Era un tempo molto turbolento”. Mentre racconta alcuni episodi, riscopre dei dettagli che lo fanno divertire. Niente sembra potergli togliere il buon umore.

È in quel momento che Deghati inizia la collaborazione come corrispondente con «Time Magazine» e diventa un punto di riferimento per moltissime pubblicazioni internazionali. Non c’è evento cruciale di quel periodo che il fotografo iraniano non abbia coperto: non avere nessun timore, insieme a un incredibile senso del dovere, lo porta a essere sempre un passo avanti alla notizia e a conoscere le leggende del fotogiornalismo novecentesco. “McCullin, Abbas, sono passati tutti, dimmi il nome di un fotografo e io ti posso dire che c’era. Vederli lì a scattare foto è stata una cosa fantastica”.

Nonostante la situazione di caos e incertezza, fino a quando il potere degli Ayatollah non si è ancora del tutto consolidato, si riescono ancora a trovare spazi di relativa libertà. Ma una volta instaurato il regime, inizia la repressione:

Mi hanno prima tolto la tessera da giornalista, poi hanno cominciato a intimidirmi, ma io non mi fermavo quindi sono arrivati altri problemi. Mi hanno arrestato e interrogato. In quel periodo se entravi in carcere non uscivi così facilmente, però loro sapevano che eravamo nomi conosciuti a livello internazionale: per questo non ci tagliavano la testa.”

Ce lo racconta con la saggezza e la consapevolezza di chi le ha viste davvero tutte: “In varie occasioni mi hanno rotto le macchine, una volta mi hanno menato male con delle catene, ma ho comunque continuato a scattare foto. Ho cominciato a non mettere più il mio nome, così per quattro anni”. Ma la parte più difficile era far uscire i rullini dal paese senza che venissero intercettati dalla polizia: “Potrei scrivere un libro su come facevo uscire queste foto dall’Iran”. Forse una delle storie più incredibili, racconta Deghati, è quella successa in concomitanza con un caso internazionale che ha lasciato il mondo con il fiato sospeso. Un boeing 737 di Air France viene sequestrato da alcuni terroristi: ai fotografi viene permesso solo di scattare qualche foto a distanza dell’aereo, quando decidono di farlo esplodere. Fortunatamente viene raggiunta un’intesa con la Francia e si decide il rilascio dei passeggeri: “Ci hanno fatto entrare per dieci minuti all’interno della stanza in cui c’erano tutti gli ostaggi che sarebbero stati rimpatriati. Non so per quale motivo, sentivo che sarebbe successo qualcosa. Avevo portato con me una piccola borsa con dentro tutti i rullini scattati quella settimana. Così mi sono messo davanti a uno di questi ostaggi e visto che conosco il francese ho iniziato a parlargli: «Io sono un fotografo di «Paris Match» e ho dei rullini che devo far arrivare alla redazione, posso lasciarli a te?». E tutto questo” esclama mimando il gesto “mentre continuavo a scattare per non farmi notare! L’ostaggio ha accettato. Poi ho saputo che, non appena è arrivato all’aeroporto, è stata la prima cosa che ha fatto”.

La fuga dall’Iran verso un nuovo mondo

A ogni aneddoto che Deghati racconta con cura e trasporto, la sua vita sembra sempre più simile alla trama di un film al quale non si può che rimanere incollati con il fiato sospeso. Ecco infatti che arriva uno dei tanti colpi di scena che hanno costellato la sua carriera: “Avevo un amico di infanzia che era anche il mio compagno di banco a scuola: non era molto bravo in certe materie e io lo aiutavo. Non l’ho sentito per molto tempo ma sapevo che era diventato una figura importante del regime. Un giorno ricevo una telefonata e sento una voce che mi dice: «Mi riconosci?» Era lui. Rispondo che sì, lo riconosco. «Ma perché sei ancora qua?» mi dice, «Solo per quello che hai fatto per me ti dico che è meglio se te ne vai»”. Deghati sapeva che lo avevano messo nella lista nera e sapeva che questa volta facevano sul serio: “Il giorno dopo sono partito immediatamente, con mia moglie e mia figlia di un anno. Per fortuna avevo il visto francese”.

È in questo momento che inizia l’avventura del fotografo in giro per il mondo. Prima Parigi, poi Los Angeles, dove fotografa “Michael Jackson e tutte le star di Hollywood”, poi la Costa Rica come direttore della fotografia del Centro America per France Press: “Ho visto di tutto. La guerriglia in El Salvador, i Sandinisti in Nicaragua, l’invasione americana di Panama. Ogni anno succedevano moltissime cose!”. Nel ’91 inizia l’avventura al Cairo, sempre come responsabile della fotografia in Medioriente e in Nord Africa: copre la prima Guerra del Golfo, le guerre tra Israele e Palestina, i movimenti fondamentalisti in Egitto, il ritorno di Arafat, l’uccisione del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e, nel frattempo, anche l’assedio di Sarajevo e la guerra nei Balcani. Dove c’era una notizia, c’era Deghati. Lui ci scherza su questa strana coincidenza.

“Ogni volta che arrivo in un posto succede sempre qualcosa. Ormai questa è la fama che mi porto dietro.”

Per Deghati la fotografia diventa quindi un mezzo per conoscere il mondo e un mezzo per comunicare con le persone. “Quando fotografo non è che prendo la macchina e scatto. Mi avvicino alle persone, ci parlo, cerco di far capire loro chi sono, cosa faccio. Questa è la cosa più importante per scattare foto che abbiano un significato anche per me. Così ho conosciuto molte persone, mi sono fatto molti amici fotografando, condividendo la loro vita”. Scattare, quindi, non è solo occhio o tecnica. Certo, richiede studio ma anche un certo modo di approcciarsi. Deghati ci racconta che, quando partiva per un Paese di cui non conosceva la lingua, iniziava a informarsi, a leggerne la storia e a studiare un dizionario di base per imparare a dire “buongiorno” o “ciao”. “Queste due parole mi aprivano tante porte perché, quando vai in un villaggio sconosciuto e dici “buongiorno” nella lingua dei suoi abitanti, li rendi felicissimi. È come se fosse una chiave che apre molte porte. Per fare il fotografo devi essere aggressivo e umano allo stesso tempo, devi avere un’aggressività umana. Ma non devi essere invadente, le persone non devono sentire che stai invadendo il loro spazio. Devono capire che tu sei lì per loro, per dare loro voce”.

Da sinistra, foto di Elisa Tasca, Giovanni Barbato e Manoocher Deghati

L’aggressività umana di cui parla Manoocher è venuta meno, però, in alcune occasioni. In certi casi si è trovato a fotografare chi non voleva essere immortalato: si trattava di esecuzioni, episodi che andavano documentati. Perché questo è il dovere del fotoreporter: documentare. Ed è per questo che, spesso, gli è capitato di vedere alcuni suoi colleghi feriti, a terra, ma di non essere intervenuto per continuare a scattare, per mostrare al mondo cosa stava accadendo. Solo se non ci fosse stato nessuno di competente a poter aiutare i colleghi feriti sarebbe intervenuto, perché, in quel caso, si sarebbe trattato di salvare una vita: e quello viene prima di tutto.

Lui stesso l’ha provato sulla propria pelle. A Ramallah, mentre con le sue foto raccontava il conflitto israelo-palestinese, un cecchino lo ha colpito alla tibia con un proiettile esplosivo, frantumandola in trenta pezzi. “Quando sono stato ferito non ero sorpreso del fatto che mi avessero colpito, ma ammetto che non mi aspettavo mi sarebbe capitato proprio lì. Sono stato a Sarajevo, in Africa, in Iraq: scoppiavano bombe a due metri da me, ho visto persone saltare in aria. Ma a me non è mai successo niente. In quel momento non ho sentito dolore. All’inizio pensavo di essere semplicemente caduto a terra. Quando ho capito che non era così, ho provato a cambiare obiettivo, a metterne un grandangolare per scattarmi una foto, ma non ci sono riuscito, non avevo le forze per farlo. Ho visto il bagno di sangue attorno a me e ho capito che era ben più grave di quello che pensassi”.

Nonostante tutto, non ha mai provato nessun desiderio di vendetta e non ha mai pensato di attaccare la sua macchina fotografica al chiodo, anzi. Quell’episodio è stato un punto di svolta che ha determinato un cambiamento nel suo modo di fotografare. “Credo che un fotografo abbia bisogno di cambiare il suo modo di lavorare, per evitare che l’occhio e il cervello si abituino a quella situazione che diventa alla lunga normale, banale. All’epoca fotografavo per «France-Press»: mi occupavo di conferenze stampa, di varie notizie nel mondo. Un giorno, però, ho sentito che il mio occhio e il mio cervello non si stavano sviluppando, perché stavo facendo sempre le stesse cose, mi stavo ripetendo, stavo perdendo sensibilità: fotografare stava diventando un lavoro. Ma la fotografia non è lavoro, è passione. Quel giorno, dopo diciassette anni, sono andato dal direttore a presentare le dimissioni. Il mio capo era incredulo ma gli ho spiegato le mie ragioni”. Appena diventato freelance, hanno iniziato a chiamarlo tutti: da «Paris Match» al «National Geographic». Ha cominciato a occuparsi di progetti più pensati, di storie di sei mesi, un anno, che richiedevano lunghe fasi di ricerca e di sviluppo delle idee. “In quel momento ho ricominciato a stimolare e a sviluppare il mio cervello” dice Deghati.

L’esperienza della guerra lo ha incoraggiato a coltivare la sua passione. Un fatto tutt’altro che scontato. Ci racconta, infatti, che molti colleghi hanno abbandonato il mestiere dopo essere stati in zone di conflitto:

“Vedere delle persone morire accanto a te, camminare tra le case distrutte, vedere la gente che scappa senza scarpe per le strade non è affatto facile. Ma ognuno vive questa situazione in modo diverso. Per molti è bastata solo una volta: poi sono tornati e sono stati ricoverati in ospedali psichiatrici perché non riuscivano più a dormire dagli incubi che facevano. Io mi sono salvato perché credo veramente in quello che faccio, sono convinto che abbia un impatto positivo sulle cose”.

Ci dice che ciò che lo spinge a vivere, a vedere e ad affrontare situazioni così estreme sono tre fattori: la passione, la curiosità e la voglia di viaggiare. “Queste tre cose mi hanno portato a fotografare tutto e tutti: dai matrimoni reali in Inghilterra e in Olanda ai presidenti francesi, americani, africani, fino al backstage delle sfilate di moda parigine. Ricordo bene quel giorno in cui ho iniziato fotografare i clochard per le vie di Parigi. Ho lavorato fino a notte fonda, quasi fino all’alba. Poi sono tornato a casa, ho preso la mia valigia diretto all’aeroporto militare e ho preso l’aereo con Chirac. Siamo andati a Washington a incontrare Clinton”.

Il fotogiornalismo non è avventura

La rivoluzione digitale sta cambiando questo mestiere e lo sta facendo diventare sempre più democratico. Tutti possiedono uno smartphone capace di fare foto e immortalare una vacanza, una manifestazione o qualsiasi altra cosa. Parallela a questa rivoluzione c’è la crisi dei giornali. “Il fotogiornalismo non è morto” ci dice Deghati, “sta cambiando: anche se adesso sembrano tutti fotografi, credo che supereremo questo momento di confusione. Il futuro del giornalismo ancora non lo conosciamo: sappiamo che ci sarà meno carta stampata, ma le notizie saranno sempre più accessibili grazie a Internet. Questo è un aspetto positivo perché l’informazione si sta democratizzando: adesso tutti possono dire la loro opinione”.

Foto di Giovanni Barbato ed Elisa Tasca

Il World Press Photo premia lo scatto che “non è solo la sintesi fotogiornalistica dell’anno, ma rappresenta un problema, una situazione o un evento di grande importanza giornalistica, e fa questo in un modo che dimostra un eccezionale livello di percezione visiva e creatività”.

Per fare del buon fotogiornalismo, quindi, non serve solo la tecnica. Come spiega Deghati, non è necessario andare lontano a cercare le storie perché sono tutte a un passo da noi, sotto il nostro naso. “Ora tra i fotogiornalisti c’è una sorta di corsa alle zone di guerra: ci vanno sperando di potersi portare a casa qualcosa. Un giovane fotogiornalista però dovrebbe iniziare a fotografare il giardino di casa”. Quando era direttore di «Associated Press» in Medio Oriente, riceveva ogni giorno decine di email e di scatti di giovani fotografi che andavano in Siria a documentare il conflitto. “Rifiutavo quelle foto, anche se erano interessanti. Se trovavo un giovane bravo a fotografare gli facevo un contratto, così aveva anche l’assicurazione: se gli fosse successo qualcosa, ci saremmo presi carico delle cure e di tutte le sue necessità. Quelli che vanno all’avventura non stanno lavorando nel modo giusto: prendersi tutti quei rischi senza avere un minimo di protezione non è il modo giusto di lavorare. Se avessi comprato per cento euro una di quelle foto, loro avrebbero continuato a farlo, magari in luoghi ancora più pericolosi e lontani. Potrebbe accadere di tutto senza che nessuno si prenda la responsabilità dei rischi che corrono. Vi ricordate come ha iniziato a fotografare Henri Cartier-Bresson? Faceva foto a Parigi, a quello che vedeva. Poi, quando ha iniziato a viaggiare, si è fatto un nome. Non è andato in zone di guerra. Ci sono altri modi di fare piuttosto che partire all’avventura. Sì, noi viviamo delle avventure, ma non siamo avventurieri”.

L’importante, per Manoocher, è lo sguardo. Questo è quello che insegna nelle sue lezioni di fotografia.

“Insegno la filosofia, quello che sta dietro alle cose, non perdo tempo a spiegare le tecniche di base, non c’è niente di complicato nel fare fotografie. La migliore scuola di fotografia è camminare, andare in giro.”

Ed è proprio quello che stiamo facendo: camminiamo per la città, attraversiamo le strade del quartiere Barriera di Milano, ognuno con la sua macchina fotografica al collo. Deghati si ferma spesso per catturare un dettaglio, una luce o un movimento. È domenica e le strade del quartiere sono semi deserte, molti negozi sono chiusi. Ci dirigiamo nuovamente verso il Balòn, dove il fotografo iraniano spera di trovare un negozio cinese aperto per comprare delle alghe: “Giù in Puglia dove abito io non riesco mai a trovarle e mia figlia ne va matta! Ogni volta che parto mi chiede di portarne un po’”. Quando vediamo un alimentari aperto, Deghati si lancia letteralmente all’interno, alla ricerca delle sue alghe. Questa piccola missione lo diverte: si aggira per gli scaffali con un sorriso contagioso ma delle alghe non c’è traccia. Cerca di spiegare alla commessa e le chiede quale sia il nome cinese di quelle sottili foglie verdi. Semplice ed efficace, una sillaba. Appena usciamo dal negozio riusciamo a dimenticarcelo tutti.

Alghe cinesi e lezioni di vita

Ripercorrendo le vie del Balòn scoviamo un altro alimentari, affacciato su Piazza della Repubblica, e ci entriamo subito, per portare a termine quella che ormai è diventata una caccia al tesoro. Di nuovo proviamo a pronunciare il nome delle alghe alla commessa, ma ognuno di noi lo storpia a modo suo. Ci guarda stranita e scoppia a ridere, però alla fine ci consegna le famigerate alghe.

Quando l’intervista sembra ormai alla fine, a pochi passi dal centro, ci imbattiamo in una processione religiosa della comunità peruviana di Torino: uomini e donne vestiti in abiti da cerimonia, veli bianchi in pizzo, fiori di ogni tipo, canti religiosi, incenso e, in alto, sopra le teste di tutti, una statua della Madonna, issata sulle spalle di alcuni uomini. In un lampo, Deghati imbraccia la sua macchina fotografica e si lancia in mezzo alla folla che accerchia il corteo, delimitato da una corda tenuta da alcuni fedeli. Lo perdiamo di vista. Incuriositi iniziamo a scattare anche noi qualche fotografia. Passano pochi minuti quando notiamo la giacca color cammello di Deghati spiccare fra le toghe viola della confraternita, nel bel mezzo del corteo. Ci fa un cenno invitandoci a raggiungerlo, ma gli diciamo di non preoccuparsi, noi le foto le facciamo dall’esterno del cordone. Quando raggiungiamo la testa del corteo vediamo Deghati riemergere dal concerto di veli bianchi e toghe viola: “Non dovete essere timidi perché non ce n’è motivo, per fare questo mestiere bisogna buttarsi senza esitazione! Parlate con le persone senza alcun tipo di paura, è così che si fanno le foto migliori. Sapete come sono passato? Ho chiesto a uno di quegli uomini se mi poteva far entrare. Lui era titubante, ma ho riconosciuto la sua parlata peruviana e gli ho risposto con lo stesso accento. Così mi ha fatto entrare subito!”. Bastano poche parole, ci dice il fotografo, un grazie, un per favore, un saluto: questa è una delle chiavi per entrare subito in confidenza con le persone.

Foto di Manoocher Deghati

È in quel momento che ci rendiamo conto che ormai l’intervista si è trasformata in una vera e propria lezione di fotografia e di vita, con tanto di pratica sul campo. È finita, forse, come Deghati avrebbe voluto: facendo amicizia con un religioso peruviano e con un ristoratore persiano davanti a un kebab, un piatto di falafel e un bicchiere di yogurt salato.

Foto di Giovanni Barbato ed Elisa Tasca

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