E se leggere fosse un gesto innaturale?

Storia di Philip Schultz, poeta e dislessico

Sebastiano Iannizzotto
The Catcher
8 min readMar 9, 2017

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Philip Schultz, fotografia

Ho imparato a leggere a quattro anni. I miei primi ricordi sono entrambi legati alla lettura: un viaggio in treno da Catania a Roma, in un vagone letto con i miei genitori e un libro illustrato; la mattina in cui è nato mio fratello e io lo aspettavo con un libro (lo stesso libro illustrato del viaggio in treno?) appoggiato sulle ginocchia.

Ho sempre considerato la lettura un gesto automatico. Qualcosa che ho fatto e faccio senza quasi rendermene conto: le lettere si trasformano in parole e frasi che a loro volta si trasformano in idee o in scene e tutto questo avviene nella mia mente a una velocità estremamente rapida.

Fin da piccolo ho sempre letto bene, senza sillabare o incespicare: leggere per me è come correre in discesa, senza nessun ostacolo davanti, un’esperienza inebriante e gioiosa. I miei genitori e i miei nonni esaltavano le mie doti precoci di lettore. C’era una frase che era diventata una specie di bigliettino da visita: “sai, lui ha imparato a leggere a quattro anni”. Quando alle scuole elementari e poi alle medie mi sentivo escluso e preso in giro (bastava pochissimo: tifare per una squadra che non vince mai e essere sovrappeso), la lettura era uno scudo e una medicina per la mia autostima: quei ragazzini che mi sfottevano perché l’Inter aveva perso o perché ero grasso non riuscivano a leggere bene, sillabavano, si inceppavano sulle parole più difficili, sbagliavano gli accenti, bisbigliavano le parole prima di leggerle ad alta voce. Tutto questo mi faceva sentire migliore di loro: era una forma di compensazione, un piccolo edificio rimasto intatto tra le macerie della mia autostima.
Fino a qualche giorno fa non credevo che leggere, per alcune persone, potesse essere un inferno.

Philip Schultz è un poeta americano. Figlio di immigrati polacchi e russi, ha pubblicato otto raccolte di poesie e nel 2008 ha vinto il Premio Pulitzer con Failure (Houghton Mifflin Harcourt). Riassunta in poche righe, la sua sembra una storia di successo — anche se fa un certo effetto questa parola una riga dopo “failure”, parola chiave della poetica schultziana. All’apparenza sembra il classico cursus honorum dell’intellettuale americano: ha pubblicato su riviste prestigiose come «The New Yorker», «The Paris Review», «Slate»; ha beneficiato di importanti borse di studio come il National Endowment for the Arts Fellowship in Poetry (1981), il New York Foundation for the Arts Fellowship in Poetry (1985), Fulbright Fellowship in Poetry (2005); ha diretto il writing program della New York University per dieci anni e ha poi fondato la sua scuola di scrittura (The Writers Studio, a New York). Tutto liscio, in apparenza. Dopo la vittoria del Pulitzer, Schultz ha dichiarato in alcune interviste di aver imparato a leggere a undici anni e di aver scoperto solo nel 2003, quando aveva cinquantotto anni, di essere dislessico (quando il disturbo fu diagnosticato al figlio Eli).

“Una cosa è chiara: la mente di un dislessico è diversa da quella degli altri. Ho impiegato gran parte della mia vita per capire che non era la stupidità l’origine dei miei problemi di elaborazione del linguaggio. Come ogni altra importante transazione della mia vita, non è stato facile abbandonare l’immagine negativa che avevo di me.”

Nel 2010 Schultz scrive My Dyslexia (pubblicato in Italia da Donzelli Editore, La mia dislessia), un memoir in cui ripercorre la sua vita alla luce della scoperta della dislessia. E già il solo fatto di tornare indietro agli anni difficili dell’infanzia e della giovinezza è una fonte di ansia e di depressione: “ripensare al passato mi metteva così in agitazione che la mia mente si difendeva con la depressione”.

Per Schultz la vita è una lotta costante: “Una cosa facile come girare a destra invece che a sinistra può diventare un gioco di strategia il cui obiettivo consiste nel dominare una logica inafferrabile che non ha niente a che fare col vincere o col perdere, né con l’autostima. Mi piacerebbe poterlo definire pensiero magico, ma somiglia di più al pensiero talmudico, nel senso che ogni decisione o idea catalizza una massa di feroci autocritiche che automaticamente rinviano a un’ampia gamma di obblighi e divieti, di pro e contro, tutti presenti alla periferia di ogni decisione che prendo, non importa quanto ingenua, sana, generosa o banale possa essere.”
La mente, per un dislessico, arriva a essere un potenziale nemico, qualcosa che esercita un controllo spietato sulla vita, come HAL 9000, il computer della nave spaziale di 2001: Odissea nello Spazio.
Nella sua giovinezza, Schultz vive una doppia esclusione. La prima nasce dall’ambiente degli immigrati ebrei provenienti dall’Est Europa: “avevamo ereditato la povertà degli affetti, l’essenza stessa dell’anima contadina. Appartenevo a una famiglia e a una comunità di sofferenza contadina, di invidia e sottomissione, paura e sospetto”. L’altra forma di esclusione è direttamente causata dai disturbi dell’apprendimento. La dislessia spalanca le porte dell’esclusione e disegna un bersaglio su cui i bulli si possono accanire: “il guaio è che le vittime del bullismo, certamente quelle dislessiche, non capiscono che il modo in cui la loro mente elabora l’informazione non è una debolezza o una colpa; che l’incapacità di «rispondere» non è colpa loro. […] La mente del dislessico è un muscolo che ricorda che deve proteggersi dal ricordo di eventi dolorosi: si chiude quando è sovraccarica per risparmiare ulteriore fatica, cosa che accade automaticamente, senza preavviso.”

Quali sono i sintomi della dislessia? Questi.

Quello con la lettura è più uno scontro che un incontro. Alla mancata comprensione delle parole, Schultz oppone la sua cocciutaggine. Vuole diventare uno scrittore, nonostante lo scherno del suo insegnante, Mr Joyce. E vuole imparare a leggere. Succede quasi per caso, quando ha undici anni: più che una magia, è il frutto della sua forza di volontà.
Uno degli aspetti più sorprendenti di My Dyslexia riguarda proprio il rapporto di Schultz con la lettura. Non avevo mai considerato l’atto di leggere come qualcosa di innaturale. La mia esperienza mi aveva indotto a immaginarlo come qualcosa di automatico, qualcosa che riesco a fare in modo del tutto naturale. Come respirare. Invece la lettura “è un atto acquisito, «un’invenzione da apprendere a livello conscio». È la naturalezza del parlare a rendere la lettura così difficile, perché chi legge deve «convertire i caratteri di stampa su una pagina in un codice linguistico — il codice fonetico» e, se non ci riesce, queste lettere restano una sbavatura priva di una forma e un senso riconoscibili.”
[le frasi tra caporali sono tratte da Overcoming Dyslexia di Sally Shaywitz, testo citato da Schultz, nda]

La lettura per un dislessico è una battaglia, una lotta dall’esito incerto. Una lotta innanzitutto contro se stesso e contro la propria mente. Questo, però, non esclude l’amore per i libri.

“Più di tutto mi piace l’insieme di così tante visioni del mondo personali e private che sono invitato a condividere; la fiducia inattesa, il legame sempre più forte e l’affetto che sento per i loro autori. Mi piace davvero tutto dei libri, tranne che leggerli.”

E il rapporto con la scrittura non è molto diverso: è un braccio di ferro con se stesso, con il desiderio di abbandonare la scrivania e correre via.

“Non ce la faccio a resistere al desiderio di alzarmi, innaffiare le piante, riscaldare il tè. E quando riesco a convincere la mia mente a produrre qualcosa dal nulla, a collegare parole a pensieri, e pensieri ritmati alla musica presto mi assale un tremendo senso di disperazione e paura. Forse questa disperazione è il prezzo che ogni artista deve pagare per il privilegio e il piacere di essere creativo? Certo non è un’esperienza insolita per gli scrittori, né limitata a quelli che soffrono di dislessia. Ma per i dislessici è più normale. Anzi, è proprio la norma.”

Nonostante non sia dislessico, vivo la scrittura allo stesso modo. È qualcosa da cui preferirei fuggire. Per paura, perché mi sembra di essere inadeguato, perché ho l’impressione di non trasferire quello che sento e che penso sulla pagina. Per pigrizia, forse: è la lettura il vero piacere, ma è sempre la lettura a far scattare in me il desiderio mimetico, un desiderio così forte e pesante che mi schiaccia e che non fa altro che generare insoddisfazione e frustrazione (perché non riesco a scrivere?).

Il fatto che un dislessico abbia scelto di dedicarsi alla scrittura e, nello specifico, alla poesia è sorprendente. E incoraggiante, anche per chi non soffre di disturbi dell’apprendimento.

“Fu il desiderio di superare l’immagine di me come membro della Classe dei Cretini a farmi andare avanti in quel periodo.
Mi dicevo che in un modo o nell’altro sarei diventato scrittore, un bravo scrittore, così come ero riuscito a imparare a leggere da solo.”

I wanted to make non-Dyslexic people understand what it is like to read with the condition and to recreate the frustration and embarrassment of reading everyday text.

Cosa si prova nel dover affrontare un testo, anche semplicissimo, quando si è dislessici? Cosa succede nella vostra testa? Il designer inglese Daniel Britton ha cercato di simulare questa esperienza con il progetto Dyslexic Typeface. Ha elaborato uno speciale carattere tipografico spezzando, sottraendo e mischiando alcuni dei tratti fondamentali di ogni lettera. I testi scritti con questo font risultano sempre leggibili, ma richiedono molto più tempo per essere compresi e con un sforzo maggiore rispetto alla naturalezza e semplicità dell’atto quotidiano al quale siamo abituati. Provate.

Tutti i dati e gli approfondimenti di questo pezzo sono a cura di Luca della Maddalena, in arte bogler. La fonte dei dati è il MIUR.

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