Nessuna idea, se non nelle cose

A proposito di poesia, e di chi la scrive

Alberto Albertini
The Catcher
7 min readMar 21, 2017

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(Elaborazione grafica The Catcher / grab YouTube)

“Allora, vede, cioè, insomma, io vorrei fare un film sulla settimana tipo di un autista di autobus di Paterson, un’anonima cittadina del New Jersey, dove è nato il poeta William Carlos Williams e dove ha soggiornato l’anarchico italiano Gaetano Bresci. Nel film non succede niente, il momento di massima tensione sarà quando il suo cane, per dispetto, gli farà a pezzetti l’amato bloc notes dove ogni tanto Paterson ama scrivere poesie. Ah scusi, dimenticavo: il protagonista si chiama come il luogo in cui vive”.

Me lo riesco quasi a immaginare questo Jim Jarmush esordiente — e non uno dei più importanti registi del cinema indipendente statunitense, autore di film come Daunbailò, Broken Flowers e Only Lovers Left Alive — che si gioca tutto davanti a Jeff Bezos (Amazon è infatti uno dei produttori di Paterson).
E poi zoom sul volto di Jeff sbalordito dalla temeraria follia di quel pivello che osa proporgli una storia di tale banalità: “Bresci what?”, Bresci detto all’americana: “Breschi”.
Per fortuna non è andata così. Non sempre esiste la necessità di una trama avvincente. Del resto cos’ha di particolarmente eccitante la vita di William Stoner o la città di Holt in Colorado? La story non va intesa esclusivamente come plot e intreccio, con tanto di mistero e indagine, viaggio dell’eroe e sua trasformazione. Conta molto anche come la racconti. Certo, quando si scrive vale sempre il motto less is more.

Nelle sue lezioni di scrittura Giuseppe Pontiggia raccomandava: “scrivere vuol dire saper rinunciare”.

Ma piuttosto dovremmo assicurarci che sulla pagina ci siano tenuta e coerenza. Milton Glaser — tra i maggiori grafici contemporanei, quello di I love NY con il cuore nel mezzo, per intenderci — ha detto che non è vero che less is more: just enough is more.
Il protagonista di Paterson, interpretato da Adam Driver — nome omen: driver significa conducente in inglese — è un giovane autista di pullman pubblici e con il suo sguardo ingenuo, nel senso latino di “libero”, non ha niente a che vedere con i tratti somatici squadrati e duri del tipico villain Kylo Ren dell’episodio VIII di Guerre Stellari, il ruolo che l’ha fatto conoscere al grande pubblico.
Paterson ama ricambiato Laura, l’attrice e cantautrice iraniana Golshifteh Farahani, in bilico tra ingenuità e superficialità, tra frivolezza e innocenza. Laura e Paterson si svegliano ogni mattina poco dopo le sei, abbracciati in posizione fetale con un’inquadratura fissa dall’alto.

Un risveglio innocente e delicato, come tutto il film del resto, quando lei puntuale racconta cosa ricorda del sogno notturno come quelli che coltiva di giorno nel suo eclettico e a tratti confuso talento artistico e musicale, comunque incoraggiato dal marito. Dopo colazione Paterson si reca al lavoro per il suo turno e pranza davanti a un ponte e una cascata con quanto gli ha messo nella lunch box sua moglie, che a sua volta lo incoraggia a coltivare il talento poetico con messaggi amorosi sopra le cartoline che raffigurano Dante o altri poeti. Paterson annota sul suo amato taccuino versi a mano, ostinatamente contrario a cellulari e palmari. Chiude la giornata portando fuori il dispettoso Marvin, che nel film è un maschio e nella realtà una femmina di bulldog inglese, Nellie, la cui storia meriterebbe un’altra recensione (ha vinto un Palm Dog postumo, il premio alla miglior performance canina dei film al Festival di Cannes). Lascia il cane legato fuori e si fa una birra in un bar gestito da Doc, che infila nello specchio ritagli di giornale raffiguranti i personaggi famosi nati o vissuti a Paterson.
Period, direbbero gli americani. Punto. Punto e basta, il film sta tutto qui perché “la felicità non ha niente da inventare”, come ha scritto Romain Gary facendo il verso a Tolstoj e all’incipit più famoso della storia.
Eppure il film dura 113 minuti e ha incassato più di quattro milioni di dollari.

Paterson è il mio film ideale, l’altra faccia di un certo cinema americano. Anche perché mostra l’America vera, dell’americano medio di provincia, magari elettore di un Trump che ha sorpreso noi italiani perché siamo convinti di capire quel Paese dopo aver trascorso un capodanno a Manhattan.

Una provincia dove la moglie offre al marito una cena in città e due biglietti al cinema d’essai, a vedere un film in bianco e nero degli anni Cinquanta, perché al mercato agricolo del sabato ha venduto tutti i suoi cupcakes fatti in casa; e lui si chiede se non è il caso di indossare un’altra camicia per l’occasione e sostituire quella che ha messo per l’intera settimana.
Di Paterson si è scritto soprattutto che il protagonista, pur conducendo una vita ordinaria (qualcuno ha osato dire monotona) riesce a scoprire la poesia nelle piccole cose.

Come se si potesse trovare la poesia soltanto nelle grandi imprese, come se tutti noi dovessimo vivere esistenze avventurose per poter essere creativi.

“A volte si cammina per strada e improvvisamente si è colti da un verso. Non si pensa, me è proprio un verso già fatto, stupendo, forse tra i più belli che mai riusciremo a comporre, che esce da chissà dove e ci attraversa la testa”, ha scritto Franco Loi, che di poesia se ne intende. E già che ci siamo sfatiamo l’ennesimo mito: non è vero che la creatività è concessa a pochi eletti: “spesso è fissando il vuoto davanti a noi che veniamo colti dalla poesia”, scrive ancora Franco Loi.
I versi citati nel film sono quasi tutti originali e scritti per l’occasione da Ron Padgett, poeta di Tulsa in Oklahoma (ancora la provincia), autore inedito in Italia e amico di Jim Jarmusch (originario di Akron, Ohio, sempre la provincia).

Il regista ne ha curato e approvato personalmente la traduzione in italiano probabilmente perché ci teneva a fare bella figura con la lingua della poesia per antonomasia. Sono intervallati soltanto da un paio di componimenti di William Carlos Williams, Premio Pulitzer postumo che ha scritto un poema epico intitolato, tanto per cambiare, Paterson.
Williams diceva: “Nessuna idea, se non nelle cose”, oppure Make it factual, rendilo relativo ai fatti. Perché secondo lui i poeti dovevano abbandonare le forme tradizionali e i dotti riferimenti letterari, guardare il mondo in modo più genuino e diretto. E pensare che era amico di Man Ray e Marcel Duchamp, due che hanno messo lo spartiacque tra antico e contemporaneo rivoluzionando gli stessi fatti e oggetti citati dall’amico medico-poeta Williams, rendendoli d’affezione, da distruggere, ready made, opere che hanno cambiato per sempre la storia dell’arte.
“I walked around the streets; I went on Sundays in summer when the people were using the park, and I listened to their conversation as much as I could. I saw whatever they did, and made it part of the poem”, scrisse Williams: “Camminavo per le strade di domenica, d’estate, quando le persone andavano al parco e ascoltavo le loro conversazioni più che potevo. Guardavo tutto quello che facevano e lo rendevo parte del poema”.

“Everything is copy” (tutto è testo) diceva la sceneggiatice e scrittrice Nora Ephron.

Anche una bambina, che Paterson incontra all’uscita dal lavoro mentre lei, da sola, attende la madre seduta su un muretto, può declamare una poesia vera e degna di questo nome e, insieme, confermare ancora una volta la potenzialità espressiva del consueto, se abbiamo la sensibilità di trasfigurarlo e valorizzarlo, oltre la forza creativa occulta dentro ognuno di noi. Perché se tutto è testo, a sua volta tutto può essere nobilitato dal testo: è il potere terapeutico della scrittura. Infatti, che altro significato potrebbero avere la letteratura e la poesia, le arti tutte, compreso il cinema e a maggior ragione questo film?

Ricorrono in Paterson piccole coincidenze che propiziano altrettante epifanie e illuminazioni. A molti non sono piaciute: le sperimentiamo tutti i giorni nella vita, ma non le sopportiamo nei film perché ci sembrano artificiali e artificiose, così come il minimalismo di Jarmusch può venir frainteso in mediocrità. Giovanni Pascoli scriveva che “intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare”. Ma la sua poesia delle piccole cose non aveva un intento realistico, contava piuttosto il simbolo, l’io più profondo, la rivelazione di significati nascosti. Quelli che trova Paterson nell’ordinario che noi ingiustamente spregiamo, ignari del miracolo della vita, o che scopre nel suo corpo violato la poetessa indiana Rupi Kaur, canadese originaria del Punjab, autrice del bestseller Milk and Honey, recentemente tradotto in italiano da Alessandro Storti e pubblicato da Tre60.
Paterson ha il merito, tra gli altri, di proporci uno dei modelli di vita più alternativo, atipico e inconsueto degli ultimi decenni.

Nel finale del film un incontro ironico tra il protagonista e un giapponese ci consegna l’ennesima riflessione: smettiamola di cercare la poesia altrove, lontano, nell’esotico dei miti indotti, certi che nel New Jersey o in Giappone si viva meglio, si viva davvero.
È tempo di iniziare il viaggio meraviglioso e sorprendente attorno alla nostra camera.

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Alberto Albertini
The Catcher

(1966) Laurea con lode in Filologia Moderna, docente universitario, scrittore, giornalista, copywriter, manager, da 34 anni nell’industria.