Tragicamente rassegnati a votare

Se la politica diventa una pratica di consumo

hamilton santià
The Catcher
6 min readDec 11, 2017

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Da quando minimum fax ha pubblicato Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, tutti quelli che si riconoscono in questa definizione hanno preso confidenza con il concetto di bene posizionale.

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In estrema sintesi, si tratta di quel particolare meccanismo di consumo attraverso il quale vogliamo esprimere un modo di essere. Un linguaggio universale, insomma, per riconoscersi tra persone che condividono le stesse aspirazioni e, in un modo o nell’altro, aspirano ad appartenere alla stessa tribù urbana. L’idea molto suggestiva va riportata alle teorie sul gusto e la distinzione del sociologo francese Pierre Bordieu (La distinction. Critique sociale du Jugement, Minuit 1979) e a quelle sull’uso creativo degli oggetti che cambiano di significato del critico culturale americano John Fiske (Understanding Popular Culture, Routledge 1989), ma quello che è interessante, se vogliamo forzare la tesi di Ventura, è il ribaltamento di fondo che emerge dal disagio di questa classe creativa che sembra ripiegarsi nella sua stessa sconfitta.

Se un tempo il bene posizionale era in qualche modo usato da chi decideva di appropriarsene, adesso è come se noi subissimo il bene. Passivi, rassegnati, disagiati.

Il bene posizionale è un consumismo consapevole, ma non etico (non ne ha l’ambizione) che si esprime a ogni livello e va a toccare ogni sfera della vita privata e, soprattutto, della vita pubblica. Attraverso l’acquisto e la messa in mostra di un bene noi definiamo chi siamo — questo vale per la musica che ascoltiamo, i libri che leggiamo, i vestiti che decidiamo di portare — e questo tipo di dinamica include anche la politica.
Diventata essa stessa una pratica di consumo più che l’espressione di un’ideologia, non rappresentando più delle istanze sociali definite (di cui pur ci sarebbe grande bisogno) ma limitandosi a raccontare una storia dalla quale sempre più persone si sentono estranee, anche la politica si consuma come se fosse un bene posizionale. Una merce da sfoggiare al pari di un paio di scarpe o di un romanzo Adelphi. Non votiamo più in base alle nostre idee, che sembrano aver perso qualsiasi validità, e non votiamo più il partito che rispetta le nostre idee, perché semplicemente non esistono più:

votiamo il partito che ci si aspetta che noi si voti sulla base del nostro sistema di consumo e della nostra personale bolla mediatica.

Mi ci vuole un certo sforzo per presentarmi con coraggio

Chi ha trent’anni adesso non ha mai votato per qualcosa con gioia, felicità e trasporto. La rassegnazione di una generazione che ha perso la politica si vede anche nell’essere stata vittima del circolo vizioso del meno peggio: una delle più grandi non-categorie della politica contemporanea. Sia che si scegliesse l’alternativa di governo con il voto a un partito di massa sempre più sbiadito, spurio e lontano da una qualsiasi spinta di contemporaneità; sia che si decidesse la strada della sinistra radicale o estrema (mai aggettivi furono usati più a sproposito), i nostri voti sono stati voti stanchi, tristi, rassegnati.
Del resto, da quando abbiamo contezza delle cose del mondo, la sfera pubblica è stata dominata dalla figura di Silvio Berlusconi. Durante la fine degli anni Ottanta, infatti, si è costruito quel clima culturale capace di preparare un certo modo di intendere la politica basato sull’esaltazione del privato, della liberazione dei desideri, contro la retorica dell’impegno sociale e spostando l’idea di partecipazione dal territorio dell’ideologia a quello del consumo. Una sorta di riflusso totale, un frame cognitivo che ha garantito a Berlusconi, ai tempi della sua discesa in campo del 1994, di potersi muovere liberamente in un un mondo e in un immaginario collettivo forgiati a sua immagine e somiglianza (e se ci pensiamo è quello che adesso gli sta permettendo di ritornare in auge spingendo i suoi vecchi oppositori quasi a una rivalutazione ironica).

Dalla pagina di Logo Comune, miglior commento: Foruza Itaria (via)

Una miscela di soft power e hard power che ha attaccato e distrutto la sfera pubblica, ha fatto saltare il momento dell’impegno atomizzando la società e distruggendo — rendendole prima inutili, poi caricaturali — le occasioni di aggregazione pubblica e ha messo in crisi l’idea di politica come pratica collettiva trasformandola in consumo attraverso slogan vuoti, uno storytelling ridondante, e quello che Umberto Eco ha definito «populismo mediatico», in cui la parola diventa vuota e quindi capace di significare qualsiasi cosa. Ribaltando il tavolo, delegittimando corpi intermedi, partiti politici, organizzazioni sindacali, giornalisti; attaccando ogni forma di dissenso, anche pubblico (non dimentichiamo ad esempio la gestione del G8 di Genova, uno dei tanti punti di non ritorno della storia recente di questo paese), la politica postmoderna nata dall’alveo del berlusconismo come logica culturale del tardo capitalismo [cit.] ha avuto come conseguenza l’annullamento dell’alternativa. Ogni nuova proposta veniva fatta solo ed esclusivamente contro di lui. Non è stata, insomma, capace di costruire una contro-narrazione, una contro-egemonia in cui riconoscersi e in cui anche chi era cresciuto solo ed esclusivamente con l’orizzonte culturale berlusconiano avrebbe finalmente avuto l’opportunità di sperare nella possibilità di un altro mondo.

Il «voto » serve non a connotarci come persone di sinistra, di destra o altro. Del resto, nell’epoca della Propaganda Totale e delle posizioni fluide che cambiano in base ai sondaggi del giorno prima, non c’è un partito che esprima una linea.

Il voto serve a dirci chi siamo solo ed esclusivamente se messo in relazione a tutti gli altri nostri consumi.

Questo perché il voto non è più l’atto finale di un processo dialettico. Una valutazione che parte dal confronto delle idee, dalla messa in discussione di un orizzonte e dalla consapevolezza che il voto possa incidere sui meccanismi di rappresentanza per — sia mai! — cambiare le cose. È invece diventato l’ennesimo gesto automatico, l’ennesima ripetizione di un rito vuoto e stanco al pari di tutti gli altri meccanismi di consumo che accendiamo ogni giorno. Al punto che c’è addirittura chi sta cominciando, forse provocatoriamente, a lanciare l’idea che tutto sommato votare non serva a niente.

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È il caso di David Van Reybrouck, che nel suo Contro le elezioni (Feltrinelli 2015) fa proprio saltare il legame tra voto e democrazia: “L’individualismo e il consumismo avrebbero minato la capacità di coinvolgimento del cittadino, al punto da raffreddare la sua fede nella democrazia. Oggi, al più, fluttua in un’amara indifferenza e cambia argomento ogni volta che si parla di politica”. Per Van Reybrouck la parola d’ordine del nostro tempo è «impotenza», laddove la politica è diventata: “l’arte del microscopico. Perché l’incapacità di affrontare i problemi strutturali s’accompagna a una sovraesposizione del triviale, incoraggiata da un sistema mediatico che ha perso la testa e che, fedele alle logiche di mercato, preferisce ingigantire conflitti futili piuttosto che analizzare problemi reali”. Trovando in un diffuso «incidentalismo» la pratica contemporanea dell’azione pubblica.

Insomma, lo scenario è confuso. La crisi dei partiti — quella che li vede da anni perdere consensi, percentuali di fiducia oltre che migliaia di iscritti — sembra non avere fine e, al tempo stesso, non sembrano esserci le avvisaglie di novità che siano quantomeno diverse rispetto a quello che c’è sempre stato prima. Già il Movimento 5 Stelle, nato per sovvertire il sistema e aprire il parlamento come una scatoletta di tonno, adesso viene accusato da alcuni di essere troppo politicista.

E in questa crisi totale di rappresentanza, con il voto diventato semplicemente un consumo posizionale come un altro, ci sta anche che sempre più persone prive di riferimenti possano trovare plausibile votare formazioni di estrema destra.

In tutto questo, la parte politica che più di tutte in Italia si è arrogata il complicato compito della costruzione del futuro sembra latitare persa in una irreversibile crisi di identità e impossibilità di superare le proprie stesse zavorre. Questo consumismo politico ci sta consumando come cittadini e quello che resterà, probabilmente, dopo che neppure tra noi appartenenti alla stessa tribù saremo in grado di riconoscerci, sarà un annullamento totale. Non più «impotenti», non più «incidentali», ma infine tragicamente «rassegnati».

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