Populismo e anticorpi

Intervista a Christian Raimo

Martina Scalini
The Catcher
12 min readOct 30, 2017

--

Christian Raimo è scrittore, insegnante e penna di «Internazionale».
Il 21 ottobre è stato al FILL insieme a Jonathan Hopkin e Caterina Soffici per parlare delle stranezze della politica italiana.

Il populismo fa parte di un ciclo storico che prima o poi si esaurirà, oppure c’è il rischio che diventi un aspetto sistematico e perenne del modo di condurre l’azione politica da parte di tutti i movimenti?
C’è un aspetto di crisi e un aspetto di trasformazione della politica. L’aspetto di crisi è evidente, come per esempio la crisi dei costi intermedi e dello Stato-Nazione, e da questo punto di vista il populismo si presenta come una forma di fine delle democrazie per come le abbiamo pensate fino a oggi (ma del resto questo atteggiamento riguarda il corso di tutto il Novecento). In questo momento le democrazie rappresentative sono più deboli di fronte al populismo, ma d’altra parte penso anche che sia presente un elemento di innovazione, che in qualche modo segna la fine del potere patriarcale per come lo abbiamo immaginato fino a oggi. Nel giro di qualche decennio la gestione del potere potrebbe effettivamente cambiare, spostando il suo centro dal modello del maschio eterosessuale bianco e occidentale verso un’ Europa meticcia, dove donne e uomini si potranno dividere equamente il comando. Il populismo molto spesso è l’espressione della crisi di questo potere patriarcale.

A proposito di fine del potere patriarcale

Infatti, secondo una concezione dialettica della Storia, c’è chi crede che un movimento di resistenza, per svilupparsi, abbia bisogno di un leader fascista — o almeno così si è detto dopo l’elezione di Trump. Cosa ne pensi?

Hegelone

Sono d’ accordo con Hegel nel vedere sempre la potenza del negativo. I gloriosi trent’anni di boom economico sono nati da vent’anni di fascismo, da grandi dittature nell’Europa occidentale e da sei anni di guerra mondiale. Non deve necessariamente esserci una guerra nucleare per creare un nuovo mondo, ma è chiaro che le grandi democrazie occidentali siano in crisi e mostrino la loro forza, mostrino una trasformazione in atto, meno evidente magari sui titoli dei giornali, ma più evidente nella società. Alle volte ci sembra impossibile che le cose cambino così velocemente ma, se ci pensiamo, a una persona del 1938 sembrava molto possibile una seconda guerra mondiale e impossibile che l’Italia diventasse una repubblica, o che il fascismo venisse sconfitto. Chiedo sempre ai miei ragazzi: dove è nato l’antifascismo in vent’anni di fascismo? Evidentemente erano presenti delle tensioni che avrebbero fatto sbocciare quella che poi sarebbe diventata la nostra Costituzione repubblicana.

Boom economico, aka consumismo a palate (via)

I populismi oggi hanno come segno distintivo la capacità pervasiva di usare gli strumenti offerti dal web. Quanto incide la rete per farsi conoscere e per convincere le persone?
È sempre fuorviante parlare di questo: non abbiamo a che fare con la rete, ma con delle meta-multinazionali che condizionano la comunicazione di miliardi di persone attraverso un meccanismo in parte sconosciuto e finalizzato essenzialmente a scopi pubblicitari. Non abbiamo una rete, abbiamo Facebook, Google, Amazon: queste interfacce sono così enormi e così incontrollabili che mettono in discussione la stessa tenuta dei processi democratici di rappresentanza, di controllo, di garanzia del rispetto delle libertà fondamentali di comunicazione. Quello da cui metteva in guardia Morozov già dieci anni fa — ossia che la rete stava effettivamente diventando come Facebook — oggi è ancora più evidente, anzi è il problema che affrontiamo tutti noi che in qualche modo siamo in questa grande società della cultura e della conoscenza. Oggi non ci rendiamo conto che ovviamente sta diventando un problema per l’editoria, la scuola, l’università e per la politica. È chiaro che tutto questo porta a uno sbilanciamento molto grande, perché l’informazione per ora non ha la possibilità di avere un controllo da parte delle istituzioni democratiche. Questi grandi player della comunità dovrebbero avere almeno un criterio di autorità pubblica, per poter ritrovare un equilibrio.

E se stessimo affondando? (via)

Come può l’educazione diventare una difesa contro la propaganda più basica e feroce? Può la cultura, nelle sue forme più varie, arrivare a più fasce di popolazione per renderle capaci di resistere alle promesse dell’aizza popoli di turno?
Come scriveva Ida Dominijanni ne Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, abbiamo sottovalutato gli effetti di vent’anni di berlusconismo, perché abbiamo interpretato il berlusconismo e l’antiberlusconismo come una deriva immorale del Paese e non come una crisi costituzionale. Questi vent’anni hanno compiuto una grandissima opera di demolizione dei valori costituzionali, che di fatto però c’è stata anche in altri Paesi: gli anni di Bush hanno avuto un grande peso, ma gli otto anni di Obama hanno fatto sì che l’America fosse anche impermeabile alle pazzie che adesso arriveranno con Trump.

Women’s Marches (via)

Lo vediamo ogni giorno che Trump ha molte più resistenze di quello che si pensava, anche all’interno di un Partito Repubblicano che non gli permette di cambiare le regole del gioco, e in un mondo culturale in cui ci sono le Women’s Marches, in cui i giocatori dell’NBA e dell’NFL si rifiutano di sottostare alla propaganda nazionalista. C’è una rivolta del popolo afroamericano e anche il caso Weinstein è decisamente indicativo. Queste sono le strutture di un Paese che non cede davanti a quella che si presenta come una dissoluzione morale. Gli anni di Obama sono stati importanti anche per questo.

In Italia c’è stato il ventennio berlusconiano: vent’anni di cattiva pedagogia e di totale incomprensione e sottovalutazione del problema berlusconiano, che veniva riassunto solo in termini essenzialmente giudiziari e politici.

Berlusconi è stato assolto dalla maggior parte delle accuse che gli erano imputate e oggi si presenta nell’agone politico più forte che mai. Forse non è stato giusto cercare di combatterlo da un punto di vista giudiziario, morale o politico, ma sarebbe stato più intelligente contrastarlo sul campo della cultura. Non è stata espressa una cultura antiberlusconiana in questi anni. L’antiberlusconismo è stato spesso un clone, una replica un po’ stizzita di fronte al berlusconismo.

La cultura che poi è venuta fuori con il MoVimento 5 Stelle e il PD renziano assomiglia molto alla cultura berlusconiana, una cultura fatta di disprezzo per le minoranze, di semplificazione del messaggio, una cultura che ha pensato di ridurre la componente di verifica della verità.

Il fatto che nel PD e nel Movimento 5 stelle ci siano delle ostilità e mancate comprensioni nei confronti delle migrazioni, la dice lunga su quello che ha fatto Berlusconi. Di fatto abbiamo sottovalutato la potenza culturale di una cattiva pedagogia.

Mi consenta (via)

E quindi non c’è un antidoto a questo berlusconismo che abbiamo assimilato e da cui non ci siamo difesi?
In vent’anni di fascismo sono nati l’antifascismo e due anni di lotta partigiana. Penso che qualunque dittatura non riesca a sconfiggere gli anticorpi molto forti che esistono nelle varie storie delle nazioni e delle culture.
Un antidoto si trova nell’azione, nella scuola, nell’università, ovvero in quegli istituti che hanno subìto la crisi più forte.

È tutta lì la sfida da raccogliere: una buona pedagogia contro una cattiva pedagogia.

Non è un caso che negli ultimi anni ci si appelli alla forza della Costituzione: alle volte lo si è fatto in maniera parodica, caricaturale, quasi nostalgica, ma è chiaro che, in una Costituzione che ha in sé una chiara vocazione pedagogica, molte persone abbiano ritrovato un senso di comunità che andava contro la postura berlusconiana, che si è sempre fatta beffe della serietà, incentrata com’era su barzellette inframezzate da discorsi razzisti.
La Costituzione in qualche modo non è soltanto un argine, ma un progetto: il meglio della politica italiana che è venuto fuori negli ultimi anni è una politica che si rifà espressamente alla progettualità della Costituzione. È anche per questo, secondo me, che al referendum costituzionale ha vinto il NO.

«Vedi fascisti ovunque e fai il solone di estrema sinistra» — così ti descrive «il Giornale», mentre sul web si fanno largo molti commenti negativi che ti riguardano, addirittura li ho trovati sotto un video in cui si parla di libri per bambini; tutto questo dopo la trasmissione di Belpietro. Cosa ti aspettavi quando hai deciso di partecipare al programma?

Sono convinto che l’unico modo per fare politica in questo momento sia attaccare l’emittente, perché il problema del berlusconismo, come anche del grillismo e del renzismo, è che sono tutte ideologie completamente prive di contenuto. Sono delle forme di replica di un consenso generico che esiste in Italia. Se uno dovesse dire quali sono i principi ideologici del PD, del berlusconismo e del grillismo, non troverebbe forze così diverse, proprio perché hanno tutte una chiara potenza nell’emittente.

È utile, a un certo punto, replicare alla cattiva informazione portando dei dati: è un lavoro che va fatto, e che continuerò a fare. È quello che faccio anche per «Internazionale».

Bisogna portare un attacco frontale contro chi fa cattivo giornalismo. A me sembra assurdo che in Italia non ci sia un giornalista che abbia fatto una lunga intervista, dettagliata, a Davide Casaleggio o a Luigi Di Maio. In questo modo avremmo avuto un’arma in più per comprendere meglio la povertà politica che c’è in personaggi del genere. Per me questo è il solo modo di fare di politica: andare lì dove il potere politico si rappresenta, cercando di colpire la retorica proprio dove la retorica si costruisce.

Così

In altre interviste hai definito la partecipazione a Dalla vostra parte come un gesto necessario.
Non avevo idea che la trasmissione fosse così brutta. Avrei potuto intervenire in maniera sciatta e superficiale per un minuto di trasmissione: qualunque cosa avessi detto o fatto sarebbe stato come un gesto fine a se stesso, dimenticato. Quello che invece mi sembrava giusto fare era mostrare la pecca del programma, ovvero che è un programma fondamentalmente fatto male, oltre che razzista. Il mio obiettivo era far capire che quel programma non è giornalismo. Se dico che qualcosa è fascista o razzista, possiamo metterci a discutere. Ma se dico che quello non è giornalismo perché non ci sono dati né fonti, è diverso: sto mettendo in discussione l’emittente del messaggio. L’ho fatto con un cartello e con un post che in qualche modo decostruisse tutta la creazione di quella retorica.

Ho cercato di creare un flame diverso, uscendo dal sentiero che mi avevano assegnato: sono andato in trasmissione, ho portato tutti i dati e ho risposto punto per punto.

Se mi fossi dato fuoco, non avrebbe funzionato: non avrei messo in discussione l’emittente, lo avrei tutto sommato ricalcato.

Internet, le opinioni immediate da social e gli articoli da click-baiting: tutto viene semplificato e si ragiona per opposizioni binarie. C’è sempre un noi opposto a un loro. Quali strumenti si possono adottare per sconfiggere la banalizzazione del discorso politico?

Memento

Possiamo creare degli emittenti credibili. L’importante è cercare di mantenere dei criteri di autorevolezza e coltivarli. Durante il Festival di Internazionale a Ferrara, per esempio, ho avuto modo di incontrare molti reporter davvero in gamba, come Can Dündar, un giornalista turco rifugiato in Germania perché minacciato in maniera molto feroce dal governo di Ankara.

Si può fare buon giornalismo, certo è che alle volte bisogna anche avere il coraggio di rischiare la vita, o la carriera.

Gli anticorpi ci sono. Mi viene in mente Daphne Caruana Galizia, la giornalista uccisa a Malta: aveva un blog e ha fatto un’inchiesta fatta molto accurata. Mi viene da dire — ma forse suona troppo drammatico –– che quel lavoro è stato in qualche modo “premiato” con un attentato. Quale giornalista oggi rompe le scatole così tanto da dover essere fatto fuori? Evidentemente quel lavoro giornalistico ha fatto paura, così come i lavori sui Leaks, i Panama Papers.
Daphne Caruana Galizia è un esempio di come, oggi, si possa fare informazione e di come si possa incidere sulla realtà. Ci sono molti giornalisti e politici che attraverso le loro inchieste e i loro libri riescono a conquistarsi la possibilità di essere degli emittenti autorevoli. Penso al lavoro che fa «The Intercept», per citarne uno.

A proposito dell’assassinio di Daphne Caruana Galizia, molti ritengono che un giornalismo del genere non esista o che sia rarissimo in Italia.
C’è un fondo di verità in questo, perché non si investe nel giornalismo italiano. Manca la formazione, manca anche il coraggio, ma ci sono delle persone valide. L’International Consortium of Investigatives Journalists comprende anche bravi giornalisti italiani. Lo stesso si può dire della scuola e dell’università: anche lì gli anticorpi ci sono e si possono coltivare. Si deve iniziare a pensare che questi sono i luoghi in cui imparare e accrescere un proprio pensiero critico, i luoghi in cui fare un’attività di ricerca seria. Anche il caso di Giulio Regeni è un esempio luminoso: lui stava facendo una ricerca universitaria.

Angela Davis a Ferrara ha detto che sono tempi meravigliosi per avere vent’anni, ma sono tempi meravigliosi anche per essere vecchi, perché si capisce che questa crisi delle democrazie porta anche un grande senso di responsabilità.

Parlando di Purity di Franzen hai scritto che nella letteratura possiamo ritrovare un’educazione alla verità. Ci fai qualche esempio?

Potrei fare un milione di esempi, ti dico due libri che sto leggendo adesso contemporaneamente: Patria di Fernando Aramburu e Soldati delle parole di Frank Westerman. Uno è un romanzo storico sugli effetti che ha avuto la repressione del terrorismo basco nella società spagnola, e l’altro invece porta avanti una serie di reportage e di riflessioni in contesti di terrorismo. La letteratura può dare un’educazione alla verità, perché di fatto un libro, se funziona, è qualcosa che ci lascia diversi rispetto a quando lo abbiamo aperto. Decidiamo che un libro valeva quel prezzo non tanto se ci ha intrattenuto o regalato un piccolo paradiso artificiale, ma se ci ha dato della verità, che si tratti della non-fiction di Westerman, che guida la riflessione su cosa sia la condizione politica e umana di un mondo di persone che cercano di contrastare il terrorismo, che si tratti di fiction che cerca di indagare in generale sulla condizione dei nostri animi. Se non incontriamo quella verità, allora quei quindici o venti euro che abbiamo speso per un libro ci sembrano buttati. Se invece troveremo questa verità ne compreremo un altro, lo regaleremo a un nostro amico e penseremo che avremmo potuto anche spendere cinquanta o cento euro in un libro che ci ha cambiati, che ci ha educati alla verità: in quel momento quel libro sarà il bene più prezioso che possiamo avere. Quest’educazione avviene attraverso la letteratura, che è l’unico posto in cui non vale il linguaggio promozionale. Il libro è l’unico oggetto di cui possiamo assimilare il contenuto perché dentro non contiene della pubblicità. La pubblicità è presente in tutte le forme di comunicazione, dalla tv fino alle canzoni che ascoltiamo su YouTube o su Spotify, mentre in un libro non accettiamo la pubblicità, ed è incredibile, perché vuol dire che non accettiamo un livello compromissorio rispetto all’educazione alla verità.

Se in un libro ci fosse una pagina di pubblicità, storceremmo il naso e, probabilmente, non compreremmo quel libro.

Cambierebbe il valore che sta lì dentro, fosse pure il Gabbiano Jonathan Livingston o un libro di Fabio Volo. Posso anche leggermi articoli importanti di investigazione o vedermi un documentario sulla BBC che tratta un argomento molto serio, ma so che all’interno ci sarà della pubblicità. In un libro invece non ci sono solo l’informazione e la conoscenza: pretendo che ci sia una verità, e quella verità non può essere intaccata in nessun modo. È per questo che per me la letteratura è il vero contrasto a quello che è invece il grande linguaggio di oggi, quello della promozione.

Qual è il libro che ti ha maggiormente istruito alla verità?

Gabriel Casas i Galobardes per la promozione della lettura (via)

C’è stato un libro importante per ogni fase della mia vita: I ragazzi della via Pál a otto anni; le Confessioni di sant’Agostino a tredici; il Vangelo a sedici; la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer a ventuno; le Ricerche filosofiche di Wittgenstein a ventiquattro; Infinite Jest a ventotto.
C’è una bella risposta a una domanda che si fa tra religiosi quando qualcuno chiede «qual è la parte migliore della Bibbia?»; la risposta è il dorso, perché il dorso tiene insieme tutti i libri che contenuti nella Bibbia.
Mi ricordo di quello che disse Sandro Veronesi, quando raccontò perché secondo lui la Scuola Holden fosse una scuola funzionante. Disse che in una lezione poteva sostenere che Lolita fosse un romanzo comico, mentre, un altro insegnante, a un’altra lezione, poteva sostenere l’esatto opposto. Ed è così, una scuola che funziona è una scuola che in qualche modo contempla una dialettica che tiene insieme polarità diverse, a un livello complesso.

--

--