Retromania reloaded

Perché torniamo ossessivamente a rifugiarci negli anni ’80

Francesco Guglieri
The Catcher
12 min readJul 11, 2017

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Tetris, o dell’archiviare

Il mese scorso ho aiutato la mia ragazza a traslocare. Ormai viviamo insieme da tempo, per cui non c’era più motivo che lei continuasse a pagare l’affitto per un appartamento in cui rientrava di rado. Prima di lasciarlo, però, dovevamo svuotarlo di tutte le sue cose. Cosa fare con i libri? Alcuni li avrebbe portati da me, certo, ma non tutti. Non solo lo spazio è quello che è, ma molti titoli ce li avevo già, e una libreria non è un’arca di Noè in cui c’è bisogno di due copie di ogni libro. Di molti, tra doppi o semplicemente inutili, se ne sarebbe sbarazzata vendendoli.

È verità universalmente nota, al punto di essere ormai un luogo comune, che i grandi traumi della vita sono tre: lutto, divorzio e trasloco.

Anche così è detta bene (via)

Essendoci passato più o meno tre anni fa, attraverso il trauma del trasloco intendo, sapevo cosa avrebbe scoperto, di lì a poco, la mia ragazza: poche cose si svalutano più velocemente di un libro. Dovevo starle vicino.

Questi due traslochi a distanza di qualche anno, i libri che sarebbero rimasti negli scatoloni per mesi, il piccolo shock di liberarsi di una gran quantità di volumi (vendendoli o regalandoli o donandoli a una biblioteca), la svalutazione degli stessi, mi ha fatto mettere a fuoco una sensazione che da qualche tempo si era fatta strada in me: l’impressione che stia cambiando qualcosa nel nostro rapporto con i libri, almeno nel mio. A cominciare dal loro possesso.

Quello che nel corso degli anni mi aveva spinto a accumulare tutti quei libri, a — per usare un’espressione un po’ pomposa — “mettere insieme una biblioteca”, era il vecchio principio del “un giorno ti sarà utile”. Quando in una biblioteca iniziano a entrare libri che non si sono letti, quando cioè smette di essere un semplice deposito delle letture fatte, il criterio per accettare un nuovo membro della collezione è che, anche se non penso di leggerlo subito, un giorno forse vorrò farlo, o mi servirà farlo per approfondire un certo tema, trovare una citazione, un riferimento, un’idea, e allora intanto è meglio metterlo da parte.

Una biblioteca è come la Borsa: un investimento sui titoli futuri. E in entrambi i casi si può scoprire di essere sul lastrico.

Il gesto di disfare le casse dei libri, ho scoperto, ha dato vita a una piccolissima, curiosa tradizione letteraria, una specie di “Meditazione con natura morta di libri nelle casse”. Nel 1931 Walter Benjamin in Disfo la mia biblioteca scrisse di quel momento sospeso quando una biblioteca “ancora non sta, dunque, sugli scaffali, ancora non l’annusa tutt’intorno la leggera noia dell’ordine” e il lettore/collezionista di libri è assalito dalla marea delle memorie legate a questo o a quel volume: perché “se ogni passione confina con il caos, quella del collezionista confina però con il caos dei ricordi”.

Quando era capitato a me di traslocare, mentre svuotavo le scatole di cartone, ma man mano che passavo al vaglio libro dopo libro, mi assaliva un dubbio sempre più angosciante e molto più prosaico di quelli di Benjamin: ma davvero a un certo punto della mia vita ho pensato che questo libro potesse essermi utile? Intere bibliografie d’autori di cui adesso potevo fare tranquillamente a meno, discipline che occupavano scaffali e scaffali di cui non sapevo assolutamente che farmene, vestigia di interessi passati che ora mi apparivano più muti di un idolo ittita. Sul serio l’avevo comprato io questo classico del cyberfemminismo anni Novanta? Davvero un tempo volevo sviluppare app per iOS come questo manuale lascia intuire? E tutto questo teatro belga d’avanguardia? Cosa mi passava per la testa quando li ho presi? Chi era la persona che li ha accumulati? Tanto vale liberarsene.

Una volta imboccata la strada del furente decluttering editoriale, però, è difficile tornare indietro. Geoff Dyer, in un pezzo in cui racconta di quando toccò a lui disfare la propria biblioteca dalle casse, scrive che se uno inizia a liberarsi di qualche esemplare, a fare una selezione, si arriva in fretta alla consapevolezza «che in fondo ti servono pochissimi libri. Negli ultimi cinque anni di rado avevo più di venti libri con me ovunque vivessi, e anche se creava qualche inconveniente, non ha mai causato grossi problemi. Ora all’improvviso ne ho migliaia. Ne butti via tre e, secondo lo stesso criterio che li ha esclusi, puoi farne fuori altri trenta o trecento o tremila».

Del resto, se ci pensate, Auerbach ha scritto il capolavoro della critica letteraria del ventesimo secolo, Mimesis, lontano dalla sua biblioteca, mentre era in esilio a Istanbul…

Non c’è solo questo. Il fatto è che oggi è molto più facile procurarsi un libro di cui si ha bisogno: online posso trovare praticamente qualsiasi testo mediamente diffuso, nuovo o usato, e farmelo arrivare a casa in pochi giorni. Mentre il prezzo di un classico in tascabile è tale che è quasi più conveniente ricomprarlo quando se ne sentirà il bisogno che fargli occupare dello spazio in casa: alla peggio, se mi serve all’istante scarico l’ebook. Insomma: superata la riserva narcisistica del possesso, mi ero reso conto che si era allargato a dismisura l’accesso a quel determinato bene che è il libro.

Certo, c’è a chi è andata molto peggio: ad esempio alla musica.

RETROMANIA

Con gli mp3, la musica si è svalutata in due sensi: da un lato ce n’era troppa (come l’iper-inflazione, quando le banche stampano troppi soldi), dall’altro si insinuava nella vita quotidiana come una corrente o un fluido. Di conseguenza, la musica ha cominciato a somigliare a un servizio pubblico (l’acqua o l’elettricità, per esempio) e non più a un’esperienza artistica totalizzante con una sua temporalità. Insomma, è diventata una fornitura continua inevitabilmente suscettibile di discontinuità (pausa, riavvolgi, avanti veloce, salva per dopo e così via).

via

Questo lo scrive Simon Reynolds in Retromania, un libro di cui non mi sono mai liberato in nessun trasloco. Reynolds è un critico musicale e Retromania (uscito nel 2011, pubblicato in Italia da Isbn e adesso riportato in libreria da minimum fax) parla soprattutto di musica, o meglio, per lui la musica è la pista dove collaudare le idee. Per questo, pur non essendo io particolarmente appassionato di musica, non sono un nerd musicale come con tutta evidenza è Reynolds, per questo, dicevo, Retromania mi sembra uno di quei libri decisivi per capire un po’ di cose che ci stanno succedendo. L’idea di Reynolds è questa: nessuna epoca come la nostra è stata tanto ossessionata dal suo passato recente.

L’enfasi è sul recente: perché, è ovvio, ogni epoca si è in qualche modo riappropriata del passato, ma si trattava di un passato lontano nel tempo, la cui distanza dal presente permetteva, anzi obbligava, a una rielaborazione creativa.

Pensate a quello che il neogotico ha fatto a fine Ottocento con le cattedrali medievali, o i preraffaelliti con l’arte italiana. La distanza temporale faceva sì che la storia, con i suoi oblii, le sue lotte, le sue genealogie, creasse una specie di filtro, operasse una selezione, una gerarchia.

Quello che caratterizza la nostra epoca, invece, è che, per la prima volta nella storia, abbiamo accesso all’archivio digitalizzato del passato prossimo: su Spotify posso ascoltare qualsiasi canzone, su YouTube ogni pubblicità, ogni jingle, ogni sigla di cartone della mia infanzia, su Netflix, Sky Now, MUBI ogni serie, ogni film o quasi, tutto il porno su YouPorn o simili. Posso leggere sull’iPad tutte le riviste del mondo.

Non c’è più selezione della memoria, filtro del canone e delle egemonie culturali. Tutto è immediatamente disponibile, richiamabile con un click, offerto alla nostra manipolazione. Tutto è remixabile: così come il telecomando ha già in sé, strutturalmente per così dire, lo zapping, allo stesso modo un contenuto digitale è per sua natura trasformabile, disponibile al cut & paste.

È come se fossimo condannati a conservare tutto, a ricordare tutto. Total Recall. «Tutto è recente come uno squillo di sveglia»: ed è a un solo click da qua.

ARCHIVI

Negli ultimi anni ho maturato una curiosità quasi morbosa per la vita segreta dei libri. Anzi, per gli uomini e le donne che li accompagnano, che ci vivono intorno. Quei circuiti clandestini, non per illegalità ma per marginalità, di commercianti di libri usati, un universo bolañiano di cacciatori di libri, svuotatori di cantine, rabdomanti ossessivi e malinconici alla ricerca di biblioteche dismesse, di vedove e orfani che si liberano dei tomi del caro estinto, di magazzini che chiudono. Artisti della dismissione e del fallimento. Economie informali di struggente esiguità economica ma piene di storie e di promesse, a cominciare da quella di una seconda possibilità. E, arrivati a una certa età, alla promessa di una seconda possibilità uno inizia a farci caso.

Ogni volta che capito in via Po, sotto i portici del Rettorato, dopo aver salutato con un cenno la signora che fa la guardia alla prima bancarella (se arrivate poco prima dell’una la vedrete pranzare con un piatto di verdure su un vassoio proveniente dal bar dall’altra parte della strada, sopra un piccolo tavolino da campeggio montato davanti alla sua esposizione), inizio a passare in rassegna i libri usati cercando qualche nuovo arrivo, qualche novità portata da un giornalista che l’ha ricevuta e che mai la recensirà, o una chicca di un professore della vicina università che deve fare spazio in casa, o di un autore che non conoscevo e la cui copertina di Pinter o di Munari mi ha incuriosito.

E ogni volta ho l’impressione che lì, in quel dimesso ma prezioso commercio, in quel viavai di studenti, scrittori, folli, innamorati e depressi, in quell’archivio di scarti e eccedenze, ci sia qualcosa che ha a che fare, in un modo segreto e tutto suo, con l’abbondanza digitale in cui siamo immersi.

L’anno scorso ha avuto molto successo una serie dal titolo Stranger Things. Per quanto fosse una serie originale, basava gran parte del suo fascino nel pescare dall’immaginario pop degli anni Ottanta: giochi di ruolo, videogiochi Atari, ET, Spielberg, Carpenter, sintetizzatori e Bmx. E non solo come ambientazione: anche nella sintassi cinematografica, nei personaggi, nelle musiche, combinava insieme così tanti elementi noti che sembrava essere stata assemblata da un algoritmo che pescava nei big data delle nostre cronologie di navigazione nostalgiche.

Ma al di là di Stranger Things, non c’è quasi settimana in cui non si annunci un qualche seguito, remake, reboot: da Blade Runner 2049 ai vari spin-off di Alien, dal reboot di Ghostbusters alle due versioni dei Fantastici 4 alle tre ripartenze di Spider-Man.

Dai reboot al vaporwave, perché gli anni Ottanta non smettono di passare? Il primo motivo è il più semplice: sono stati gli anni di infanzia dei quarantenni di oggi — un target di acquisto molto interessante a cui vendere delle cose (ho dovuto fare appello a tutta la mia forza di volontà, lo scorso autunno, per non comprare un aggeggio massimamente inutile — ma ADORABILE — come il Mini NES).

Come si fa a resistergli? (via)

Ma ci sono altri motivi, secondo me più interessanti: il primo è che gli Ottanta sono stati l’ultimo decennio in cui c’è stata un’idea di mainstream chiara, condivisa e definibile, e non la proliferazione di nicchie sempre più specializzate, personalizzate e ininfluenti. Il secondo è che sono stati l’unico momento in cui il digitale esisteva già, sì, ma non era ancora una presenza così invasiva e ingestibile.

Lungi dal “tornare di moda”, gli Ottanta ci ossessionano perché incarnano la fantasia di essere noi a dominare una totalità digitale (enorme, ansiogena e ingestibile come il sublime kantiano) e non viceversa.

ATTENZIONE

A un certo punto, il puro e semplice volume del passato musicale accumulato ha cominciato a esercitare una sorta di attrazione gravitazionale. L’esigenza di movimento, di arrivare da qualche parte, poteva essere soddisfatta altrettanto facilmente (anzi, più facilmente) volgendosi a questo immenso passato, e non guardando avanti. L’istinto esplorativo rimaneva intatto, ma aveva assunto la forma dell’archeologia.

Siamo schiacciati da questa massa di possibilità, di consumi, in cui viene meno il principio di selezione. Così come è mutata la temporalità dei consumi. Anche prima c’era la totalità delle informazioni che sapevo non avrei mai potuto maneggiare, ma era rinchiusa, per così dire, nelle biblioteche, negli archivi analogici: era lontana da me. Oggi è qui, nella mia tasca, che preme ogni secondo per sfondare la sottile parete del touch screen.

Quando i dati premono un po’ troppo (Happyish)

I consumi culturali hanno smesso di essere un bene di cui faccio esperienza in un tempo preciso, isolato dagli altri, ma sono diventati più simili a un servizio che mi viene erogato, un flusso in cui sono perennemente immerso. I libri, per loro natura e per la conformazione del mercato, hanno subìto meno questa spinta, ma si trovano comunque immersi in una nuova realtà: perché ci sono immerso io, lettore ma anche ascoltatore di musica in streaming, spettatore di serie su Netflix, cicala che spande la propria attenzione dietro al primo link curioso che gli passa sotto il naso online.

NOSTALGIA

Un accumulo così gigantesco di musica registrata esercita inevitabilmente una certa pressione subliminale. Inizi a chiederti non già se riuscirai a fare nuove scoperte, ma se ti rimangono abbastanza giorni da vivere per poter riascoltare almeno una volta le cose che ti piacciono. L’equivalente musical-ossessivo della crisi di mezza età è quando tutte quelle potenziali meraviglie impilate sulle mensole smettono di darti piacere e cominciano a somigliare a messaggeri di morte.

Jacques, ti stanno dando del novecentesco!

Jacques Derrida parlava di mal d’archivio: l’ombra opprimente di un archivio infinito, senza memoria, cioè senza possibilità di oblio, in cui tutto è sempre a portata di mano (anzi, di dito), il passato, il presente, il vero, il falso, l’ironico, il serio, il cialtrone, il futile, l’importante, la superficie e la profondità (due categorie così novecentesche…), l’autentico e l’artefatto, il popolare e l’elitario.

La nostalgia è allora una narrazione di protezione, una strategia di controllo dell’ansia, un modo per ancorare l’identità e impedire che si disperda frammentata nell’infinita disponibilità degli archivi. Questo tipo di nostalgia assume spesso la forma di un ritorno alla semplicità, a una frugalità che è il fantasma di un tempo mai esistito, più autentico, più vicino alla natura. Una fantasia di controllo. Se ci fate caso si è passati da un tempo in cui l’utopia si incarnava in un sogno d’abbondanza a quello in cui l’utopia ha l’aspetto della scarsità, della semplicità minimale, della disconnessione, del digital detox.

RISENTIMENTO

Ma c’è anche un altro aspetto che l’esplosione degli archivi porta con sé. Se ogni epoca, stile, tendenza è contemporaneamente presente, come faccio a essere originale? La proliferazione di modelli culturali lontani nello spazio e nel tempo che di colpo diventano immediatamente disponibili, a me come al mio prossimo, rende molto più difficile — e ansiogeno — trovare qualcosa che mi differenzi dal vicino, che fermi l’indistinzione. Non farà che aumentare la mia frustrazione. Come faccio, in altri termini (cioè in termini girardiani, ne parlavo qua), a disinnescare il conflitto mimetico?

Hannah Arendt diceva che la prossimità spaziale aumenta il conflitto tra gli uomini. Quello di cui ci stiamo accorgendo è che lo fa anche la prossimità temporale con il passato archiviato digitalmente.

Ma forse sono pensieri un po’ troppo ambiziosi per un semplice trasloco. Già, i libri: che fine hanno fatto? La mia ragazza e io abbiamo fatto una selezione, non senza fatica e qualche discussione. Alcuni libri li abbiamo venduti, altri regalati, e una parte confluirà negli scaffali condivisi della nostra nuova casa. Alla fine le collezioni di libri, le biblioteche, hanno qualcosa di organico — o almeno ci piace crederlo. Perché come gli organismi viventi crescono, cambiano, perdono dei pezzi come scaglie di pelle nei letti al mattino, si accoppiano e danno vita a nuove famiglie.

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