Satira su Marte

Ci sono limiti alla libertà d’espressione?

Pier Franco Brandimarte
The Catcher
9 min readMar 9, 2017

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Jan Matejko, Stańczyk (via)

Ho cominciato a scrivere questo articolo, o quello che è, nei giorni successivi alla slavina sull’Hotel Rigopiano quando diversi amici abruzzesi mi spedirono la vignetta di Charlie Hebdo con la morte sciatrice. Mi chiedevano se, in quanto conterraneo e amante di satira, fossi d’accordo sul fatto che i francesi mancassero totalmente di rispetto per i nostri morti e la loro fosse nient’altro che monnezza camuffata da satira e io, in quanto conterraneo e amante di satira, risposi di no.

Nelle reazioni, come per la precedente vignetta sul terremoto di Amatrice, prevalevano insulti e minacce di morte. Qualcuno che era stato Charlie un po’ di tempo prima ora si pentiva, aggiungendo, riguardo alla strage dei vignettisti, che gli stava bene. Seguiva, come in tutti i casi del genere, la discussione su cosa sia e non sia la satira, limiti contro libertà d’espressione.

Si sa che per ragioni emotive e mediatiche un insulto vale più di una riflessione sensata (ne abbiamo valanghe d’esempi, viviamo dentro questi esempi), ma non posso fare a meno di pensare che il lavoro di Charlie Hebdo, quel tipo di satira, è interessante e necessario proprio alla luce di queste reazioni. Che lavoro? Che satira?
Nella questione satira o non satira, nelle reazioni forti, nei vignettisti sparati, mi sembrava di intuire qualcosa che riandava ai meccanismi delle folle inferocite, agli autodafé, alle jacqueries, a tutti quei bonaccioni dal cuore d’oro che se gli fai “partire la vena” ti tagliano la gola — va detto anche che le espressioni che potremmo liquidare come crassa ignoranza o violenza non rappresentano un solo tipo d’uomo come fosse una maschera della commedia dell’arte (per quanto esistano degli stereotipi viventi) ma sono un elemento potenziale anche alla persona più civile; come va detto che di satira, come sappiamo, si muore.

Avrei dovuto prendere in esame le forme di questa reazione successiva alla vignetta di Charlie, metterne insieme i casi, avrei dovuto farlo se non avessi trovato tutto già apparecchiato in un solo articolo. In poche righe apparse su «Il Fatto Quotidiano», Diego Fusaro è stato in grado di condensare i motivi dell’ignoranza di cui parlavamo e di andare anche oltre.

L’articolo, oltre alle doti di sintesi, è pregevole per diversi aspetti. Leggendolo possiamo cominciare ad entrare nella questione della satira. Infatti il filosofo riesce in una complicata operazione, vediamone un estratto (grassetti dell’autore):

“Un gruppo di sciocchi e utili idioti al servizio della deficienza imperante, della barbarie che avanza e che si esprime tanto nel terrore quanto nelle loro miserabili vignette. La satira, da sempre, si occupa del nesso tra servo e signore, tra sudditi e padroni. Prende impietosamente di mira i padroni, in ciò facendo valere un effetto liberatorio e critico. La vera satira attacca il potere e non chi lo subisce. Schernisce i costumi corrotti dei potenti: ridendo castigant mores.”

L’articolo parte da una dichiarazione non meglio argomentata (questi ironizzano senza pietà sui morti) e continua in una sorta di lungo insulto che promette una spiegazione finale e si conclude con la regola aurea per riconoscere la vera satira: se attacca i padroni è satira, sennò no, quindi quella di Charlie non è satira e quindi sono degli infami, assimilabili ai terroristi.

Per rispettare i dettami teorici del filosofo e attuare la pedagogia del castigat mores, i vignettisti avrebbero dovuto attaccare il presidente del consiglio, i capitalisti del turismo montano, magari l’associazione albergatori, o al massimo il dio Anubi. Ma così non è, loro prendono le parti della morte, facendosi ipso facto suoi cani fedeli e difensori contro i poveri morti sepolti. Nella lotta di classe metafisica tra vittime e signora con la falce, troppo facile schierarsi con quest’ultima, il vero filosofo marxista prende sempre la parte dei più deboli e difende il loro plusvalore di vita così razziato dalla morte capitale. Quasi una chiamata alle armi, tutti i popoli riuniti nella nuova internazionale delle vittime di morte, per un sol dell’avvenire d’immortalità, etc, etc.

Quello sguardo un po’ così, filosoficamente ammaliante

Il pezzo così com’è, per i contenuti e per l’interprete filosofo, sarebbe stato bene tra le pagine di una rivista satirica di rango. Sembra un monologo della commedia dell’arte, in perfetto stile tartufesco. È uno che ti vuole spiegare la satira facendo satira a sua volta. Spiccano alcuni degli elementi cardine del genere come il paradosso e la contraddizione. Il paradosso è quello di un filosofo che parla come un vongolaro e la contraddizione sta nella ricetta di satira che si contraddice nel dettato. Non è satira la parodia di un filosofo? E a chi si rivolge? Dove stanno i padroni? Arlecchino mentre briga per fregare il padrone si rende ridicolo a sua volta.

Molti prescrivono alla satira questo distinguo, è ammessa soltanto se si rivolge ai padroni. Ma la faccenda è più complessa e la satira, se libera, è libera da qualsiasi istanza, da quelle dei deboli come da quelle dei forti.
E dove sta allora? Sta fuori. Il satiro si proietta fuori, su Marte o sottoterra.
La satira, quando non è istituzionale, non ce l’ha una direzione, non ha vittime prescritte, è piena di punte, con direzioni molteplici, e anche crudeli.
La satira non è una cosa educata, di base è un tipo di offensiva linguistica che può essere rivolta contro chiunque, perfino contro chi la crea (l’esito più puro). Ricerca la caricatura, il ridicolo, lo scherzo, l’impertinenza.

La satira è attratta da ciò che si ritiene intoccabile, tocca il potere, così come qualsiasi altra certezza o debolezza umana, qualsiasi grumo d’orgoglio, non ha tatto la satira.

Chiamiamo satira molte cose, sfaccettature di una simile azione comunicativa. Si può provare a classificarla secondo le nomenclature, gli effetti o gli scopi. Siamo abituati ad esempio a una satira con intenti moralistici, in cui si denunciano le ipocrisie e il malcostume per difendere certi valori sociali, allora chi la fa si pone un gradino sopra le sue vittime, per sfogo personale o per nobili intenti pedagogici che siano (questa assomiglia alla castigat ridendo mores di cui sopra e non si rivolge solo ai padroni ma più spesso al popolo). C’è poi la satira che diventa propaganda (quella dei potenti contro altri potenti o contro i sottoposti), come ci può essere una satira di mero intrattenimento che ci porta a ridere o ghignare anche sul dolore o i difetti fisici altrui (un uomo impettito che cade, un uomo grasso, un balbuziente). Su questo, con più tempo, varrebbe la pena di approfondire.

Ritornando alla dichiarazione comune che la satira è vera soltanto contro i padroni e i potenti, dunque le classi alte, vorrei fornire qualche modello di satiro a tutto campo, tra i primi e più vicini che mi vengono in mente: Giuseppe Gioacchino Belli, Ennio Flaiano, il marchese del Grillo. Attaccano solo i padroni? Hanno qualche padrone? (Anche qui servirebbe approfondire, ma per ora sia sufficiente contraddire la ricetta di massima).

Esistono inoltre degli ambiti protetti in cui tolleriamo il satirico e altri in cui lo tolleriamo meno, come, per restare al passato, era lecito che durante il carnevale un guitto mettesse alla berlina il re e la sua corte mentre durante i giorni normali gli si staccava la testa. O, ad esempio, l’impunità concessa a certe categorie perché segnate dalla tara dell’incoscienza o della mostruosità, vedi i bambini, i vecchi, i folli, oppure i fools come quelli scespiriani o i gobbi (leggi la novella “Il gobbo” di Aldo Palazzeschi).

Chi fa satira rivolgendosi potenzialmente contro tutti e contro se stesso è bene si metta sempre sotto un’insegna di minoranza, che indossi un qualsiasi vestito da giullare, che sia poco serio, ai margini dell’istituzione, così potrà avere massima libertà, e le sue armi saranno sberleffi, disegnucci, battute, monologhi, farse.

(Certo se un bambino fosse andato dall’Ayatollah Khomeini a dirgli che dio puzza di culo non so se si sarebbe salvato da una fatwa. O se un gobbo veneto gli avesse urlato una catena di bestemmie…)

Ma non divaghiamo e teniamo presente il caso di Charlie Hebdo.
Dopo aver letto l’articolo del filosofo mi è venuto in mente un racconto di Bukowski (non leggo Bukowski dalle superiori, da quando ho cominciato a conoscere la gente che lo ama e lo imita). Il racconto, molto breve, è Una birra al bar all’angolo (che potete leggere anche qui).
Il protagonista entra in un bar dove si conoscono tutti, lui è nuovo e attira la curiosità di un’avventore. Deve affrontare una specie di esame generale. Si comincia da qual è la tua squadra preferita per arrivare alla fede in Dio, prova finale la compassione per una notizia di cronaca: cinquanta orfane bruciate in un incendio a Boston. Il candidato, sottoposto alle domande, è trovato mancante. L’esaminatore, con un po’ di creatività, riassume a favore dell’uditorio: “Non crede nemmeno in dio! Detesta il baseball. Gli piacciono le corride e se la gode un mondo a vedere bruciare vive le orfanelle!”. L’uditorio reagisce, i placidi avventori, individuato satana nel loro locale, se ne escono in minacce più o meno velate, una puttana patriottica e timorata di dio chiosa: “Coglione, coglione… sei un vero coglione! Puzzi come una fogna. Scommetto che detesti anche il tuo Paese, vero? Il tuo Paese, tua madre e tutto il resto. Già, li conosco i tipi come te! Siete tutti dei coglioni, delle merde senza spina dorsale!”.

La cosa più interessante è la prospettiva. Il comportamento del protagonista fa affiorare per contrasto quello degli altri, ne stana la retorica dominante e nella reazione al diverso, ne espone l’ipocrisia.

Basta qualche lieve anomalia e il gruppo si coalizza e attacca.

Questo nichilismo bukowskiano è una cartina di tornasole e può essere strumento di satira, di una satira senza ripari, nichilista appunto. E uno dice, ma è inaccettabile, a che serve una satira del genere? Serve, se proprio deve servire, a prendersi una pausa da se stessi, a uscire e guardarsi da fuori, a schiarirsi il sangue, evitando la trombosi o che vada alla testa.

La stessa prospettiva si ritrova nel lavoro di Charlie Hebdo, basta vederne i numeri, le annate: lo stesso nichilismo senza riguardi per nessuno, straniero o locale che sia, familiare o no, potente o no.

Possiamo concedere a qualcuno una tale prospettiva? Possiamo concedergli d’andarsene su Marte o sottoterra? Possiamo concederla a Charlie Hebdo?

Una delle cose che ha spinto gli italiani all’offensiva è stato l’aver preso le vignette di Charlie come un affronto nazionale (leggi: ’sti francesi pensassero ai mortacci loro). Ma il fatto è che le vignette di Charlie, come dicevo, colpiscono qualsiasi cosa. Per fare solo un esempio, dopo la strage di Nizza la disegnatrice Coco ha pubblicato una vignetta in cui il clima turistico e spensierato della costa azzurra si tingeva di sangue — potete indovinare le reazioni.
Si tratta di uno status contro l’intoccabile, con argomenti come la morte e il Dio-patria-famiglia (o per meglio dire la retorica di questi, la finta-morte, il finto-Dio-patria e famiglia), e l’azione è svolta sotto l’egida di una testata che dichiara apertamente i suoi intenti, non in un manuale scolastico o in un discorso al parlamento.

Nel caso della vignetta con la morte sciatrice la prospettiva è quella della morte stessa, una prospettiva disumana appunto, che viene vista come turista appassionato di sci che dice, a proposito della neve, Y en aura pas pour tout le monde, vale a dire: “affrettatevi che sta per finire”, giocando sul linguaggio pubblicitario, ultimi posti, ultime possibilità per andare sulla neve. Un cortocircuito, crudele certo, tra i divertimenti delle vacanze e la morte.
Va considerato anche il fatto che una satira possa riuscire meglio o peggio ma la sostanza di fondo rimane: toccare e mettere tutto alla prova.

Voi siete o siete stati Charlie, ma Charlie non ha mai voluto essere nessuno di voi.

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