Da dove viene quello che scriviamo?

Immergersi nell'esperienza per trovare le parole

Ayriss Marta Pastorino
The Catcher
7 min readJun 29, 2017

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Le foto di questo articolo sono di Fabio Melotti

Si può raccontare un processo creativo? Ci abbiamo provato con alcuni allievi appena diplomati nel college Scrivere. Da marzo a fine maggio abbiamo assistito ad alcune fasi del lavoro coreografico di Daniele Ninarello, che ci ha aperto le porte della sua residenza presso la Lavanderia a Vapore, e questo è avvenuto grazie al progetto Convergenze Creative a cura di Mara Loro.

Da tempo mi chiedo se sia possibile come un atto alchemico trasformare l’esperienza del movimento in parola, una scrittura che abbia non lo stesso peso dell’esperienza viva, ma un certo peso, sì.

Quale? Dipende dal nostro sguardo, che è quello di chi ha già perso. Se punta sui vuoti anziché sui pieni.

Io non lo so come si racconta un processo creativo, perché una parte di esso è invisibile e misteriosa, ma sono qui per provarci. Seguo le indicazioni di Daniele Ninarello ai danzatori, partire da una griglia è rassicurante. Si costruisce un terreno intorno a una questione, la si diluisce, la si espande. In questo spazio, che può essere anche molto stretto, a volte si è ciechi e insicuri. Ma quando le cose accadono le vedi. E le vedono anche gli altri.

Do le stesse indicazioni agli scrittori: zoom, loop, direzioni e vettori. «Partite solo quando sentite un primo impulso a scrivere, rispondete all’impulso con il vostro intuito. Seguite un’idea sola alla volta. Predisponete il vostro corpo a sentire, sarà il vostro metro di misura, la prima regola. Interpretate queste, come azioni narrative formali: simulare, aprire, zoom, sospendere, loop, distanza».

Scriviamo perché le parole sulla carta sudano come i corpi. Non stiamo dalla parte di chi scrive e ha dimenticato da dove scrive, la sua fonte, la sua matrice. Scriviamo un testo corale, che sia un ponte tra chi resta a guardare e chi è guardato.

IL PROCESSO

Il processo che porta alla creazione è fatto di pesi, di equilibri, di corpi, di memoria. (Daniela)

Daniele è il Frankenstein della geometria. Il suo processo creativo è quello di uno scienziato pazzo (ma esperto) che utilizza i corpi come strumenti per dare vita ad archetipi del senso imprigionati nella geometria, attraverso l’energia cinetica dei corpi in moto. (Giovanni)

Sfrutta l’intuito del corpo per seguire tracce che di volta in volta hanno origine fuori o dentro chi danza. Seguirlo è servito a ricordare a me stesso che non deve esserci divisione tra la mente e il corpo, tra materia e spirito. (Giuseppe)

È fatto di ricerca e scoperta continua. Come in una staffetta, i gesti passano da corpo a corpo creando una scia, una traccia che ha la forza di rimanere impressa nella memoria. (Emilia)

IL CORPO INTUITIVO

È tutta colpa dei piedi che non sanno stare fermi nelle scarpe. Si divincolano, silenziosamente cercano di liberarsi. Lo fanno con accortezza. Quasi appena ce ne accorgiamo ritrovandoci, stupiti, ad osservare i nostri lacci sciolti. Vorrei che i miei piedi non avessero paura, che si lasciassero andare a questa danza. Vorrei che fossero coraggiosi, come non lo sono io che resto immobile. Qualcosa come un’emozione mi formicola dentro. (Emilia)

Nella costruzione e distruzione continua delle architetture fatte di movimenti e di direzioni, di pose plastiche, lo zoom è inevitabile su di lui, Daniele, che apre con le mani, con le dita, con le lunghe gambe, accelerando la danza o rallentandola, fermandola; le variazioni di ritmo sono continue. L’immagine rapida, un po’ accennata ma chiara e intuibile, finalmente si palesa e colpisce dritta nel mio costato — lui disegna e apre con le mani l’incrocio di due pareti come se stesse aprendo una finestra.

Occhio che tra poco ti alzi, mi dice qualcuno dentro la testa.

Mi ritrovo in piedi. Riprendo l’osservazione, periferica, di nuovo focalizzato sui passaggi, rapidi e precisi, trasparenti, appaiono e scompaiono. Il flusso si evidenzia e ognuno lascia una scia dietro di sé, ognuno segue le tracce dell’altro, ma senza prevederlo — è naturale, intuitivo, ritmico — si costruiscono un luogo e subito dopo l’abbandonano, qualcun altro è già pronto a edificare di nuovo: non ci sono più singoli, abbraccio questo corpo diffuso e gassoso, dinamico, nessun ego, finché non ricado nello zoom. (Pietro)

LA CITTÀ DEI CORPI

Fuori siamo come una città, fatta di corpi. Ci stiamo accanto e ci disponiamo gli uni in base agli altri, ci inseguiamo, ci evitiamo. Ed è più facile camminare in uno spazio segnato. Facile e inevitabile. D’istinto seguiamo la striscia d’erba bruciata da ripetuti passaggi precedenti. Scopriamo uno spiraglio tra i cespugli e la spalla non aspetta. Si torce, per permetterci di attraversarlo. (Daniela)

LA CREAZIONE

Scendo dalla macchina, le mie gambe chiedono di stendersi, desiderano muoversi. Cammino fino alla stanza dove vedrò i corpi che vivono nel movimento. Quando arrivo mi siedo. La musica elettronica riempie il silenzio. Ha inizio un viaggio nel tempo: mi portano a prima della creazione. Sono immobili, i loro sguardi obbediscono a una forza generata dalla musica e io sono terrorizzato: temo che qualcuno si metta urlare impazzito. Un vento leggero li scuote, soltanto i piedi sono ancorati a terra. I loro occhi mi affascinano e mi spaventano. Quelli della donna guardano qualcosa che a noi si manifesta nei suoi gesti. Poi la musica cresce, danzano veloci in circolo.

Il suono e il movimento a quel punto mi attraggono e li imito con il collo e la schiena.

Adesso formano la pala di un’elica: ruotando, perlustrano lo spazio, a turno ne occupano il centro. Senza più paura fisso gli occhi di quello coi capelli lunghi quando si trova in mezzo, mi entrano dentro così profondamente che devo voltarmi. C’è una stasi. Sono in fila, due vicini e l’altro solo. Io mi sento perso nel vuoto troppo ampio che c’è tra loro. (Giuseppe)

DOV’È IL MIO POSTO?

Il mio posto è sul limite estremo. Troppo distante per essere dentro, troppo vicino per essere fuori. Intorno a me gli altri camminano avanti e indietro, si confondono davanti ai miei occhi, ruotano su loro stessi, liberi. Inizio a sentire un peso all’altezza dello sterno, a metà busto, nel momento in cui dovrei sentirmi il centro di un prisma, il mio spazio d’azione. Dovrei potermi muovere al suo interno, invece le gambe camminano; ma dall’osso iliaco in su tutto è immobile. Dovrei entrare in relazione con gli spazi di chi mi è accanto, lasciare che i loro mutamenti mi cambino. Invece guardo fuori dal tappeto, è lì che devo andare. È lì che voglio andare. Fuori da tutto. Distante. E restare a guardare. (Daniela)

Rincorro i nostri sguardi e li seguo sulla linea sottile che separa logica da istinto. Mi separo. È allora che le palpebre si allargano di scatto, le labbra si schiudono sulla mascella rilassata, esausta, è tutto il mio corpo che respira. Inala emozioni. Che svaniscono, si assottigliano, si fanno precise, fragili, tornano verso il luogo in cui si sono originate e quando anche il tempo si restringe dalla sua iperestensione, io vengo riportato in un corpo solo, il mio. La prima sensazione che provo è la solitudine. Nostalgia, subito dopo. So che non potrà mai essere così, non ci saranno mai due composizioni identiche. Ma questo, dice una voce, fa parte del gioco. (Giovanni)

Il processo creativo di Daniele muove dalla consapevolezza del corpo come organo capace di produrre segni.

Allora è possibile esplorare lo spazio intorno, costruirlo, architettarlo, renderlo evidente.

Ogni corpo ha i propri segni, ognuno attraversa e costruisce lo spazio a modo suo, ma è dalla consapevolezza e dalla contemplazione di queste azioni che il processo si rende attivo, ridando spessore e concretezza, luce ai corpi, allo spazio, alla rappresentazione. (Pietro)

È stato un po’ come guardare dall’esterno quella che è la vita. Non sappiamo cosa stiamo facendo, quando siamo immersi nell’esperienza. Sappiamo che è necessario, senza conoscerne il perché. Ma quando arriviamo alla fine, allora tutto acquista un senso. (Daniela)

Questo articolo è scritto a più mani. L’introduzione è mia. I contributi sono di Pietro Giorgetti, Daniela Moramarco, Emilia Bifano, Giovanni Giliberti, Giuseppe Maria Rabita.

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