The Founder: alle origini dell’impero

Manuale per aspiranti guru

Alberto Albertini
The Catcher
10 min readJan 28, 2017

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Negli Stati Uniti alcuni mesi fa girava un poster che diceva: “He took someone else’s idea and America ate it up. Michael Keaton is The Founder”. Cioè: “Ha preso l’idea di qualcun altro e l’America se l’è mangiata. Michael Keaton è Il Fondatore”.

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Ma eat up è un verbo polisemico, significa anche ha abboccato. L’America ci è cascata, come tutti noi che pensavamo di vedere le avventure del fondatore, del signor McDonald. Non a caso, infatti, nel poster il protagonista è di spalle, in mezzo a due archi dorati, raffigurati solo nella parte centrale che li fa sembrare due gambe aperte. Di spalle perché il nome della catena non è quello di chi si è sempre dichiarato il suo fondatore: c’era qualcun altro dietro di lui: i fratelli Richard e Maurice McDonald, Dick e Mac per gli amici, la mente e il braccio che alla fine degli anni Quaranta, in un piccolo chiosco di hamburger e patatine a San Bernardino in California, inventarono il metodo espresso di produzione: trenta secondi dall’ordine al servizio, e a sottolinearlo la mascotte Speedee con la testa a forma di panino e il cappello da chef.
Il film è così pieno di cliché, archetipi, frasi fatte e modelli di comportamento che dovrebbero obbligatoriamente vederlo tutti coloro che si occupano di scrittura, marketing, comunicazione, economia e finanza. Un classico. Una fiaba. Un mito. L’imprenditore underdog e outsider, il sogno americano, il furfante, il visionario, l’eroe, il viaggio, la perseveranza, il pensare positivo, l’opportunità e l’opportunismo, prove ed errori, l’ambizione, la costruzione e il potere del brand, il fallimento come esperienza, only in America… si potrebbe continuare il lungo elenco, prendendo spunto dalle varie scene e dai dialoghi sempre asciutti, a tratti banali ma solo perché sono ormai parte dei nostri meme direbbe l’evoluzionista Richard Dawkins, sono parte del DNA culturale dell’Occidente. Alcuni esempi:

L’ambizione aiuta gli audaci.
Gli affari sono guerra.
Cane mangia cane, ratto mangia ratto.
Se non puoi batterlo compralo.
Incrementa la tua offerta e la domanda arriverà.
Se il mio nemico sta affogando gli verso l’acqua in bocca.
I contratti sono come i cuori: sono fatti per essere infranti.
Voglio prendere il futuro. Voglio vincere.

Talmente semplice da farsi prevedibile: guardi quel sorriso beffardo da una parte e gli occhi di un’onestà languida dall’altra, e sai già come andrà a finire, ne hai viste tante di storie analoghe da dimenticarti che quella è forse la prima della nostra era, la madre di tutte le altre. Incredibile che ancora non la conoscessimo, che ancora non l’avessero raccontata.

Per questo può darsi che il film e il suo già visto di sottofondo dicano poco al pubblico generalista: innanzitutto è l’ennesimo biopic (sono ben 203 dal 2010), il film biografia sul businessman guru che con la sua impresa ha cambiato il mondo, l’imprenditore icona del nostro tempo dopo il pittore rinascimentale, il poeta romantico e lo scienziato illuminista. Tra l’altro il regista John Lee Hancock non è nuovo al genere avendo diretto il film del 2013 Saving Mr. Banks, liberamente ispirato alla storia vera di come Walt Disney ottenne i diritti del romanzo Mary Poppins dopo vent’anni di richieste.
E poi The Founder non è classificabile. Non è certamente commedia ma non è nemmeno tragedia nonostante, ancora una volta, riprendendo i miti dell’epica classica: la nemesi diventi condanna, il riscatto vendetta.

Ci fregano l’ambizione e la grinta del protagonista che attenuano la sua ferocia e avidità, stiamo in bilico sul confine sottile dell’ammirazione per ciò che non riusciamo ad essere, vittime della seduzione che esercita la determinazione anche quando è amorale.

Perfino Michael Keaton ha dichiarato in un’intervista la sua ammirazione per Ray Kroc, per la sua etica del lavoro, sintagma che dopo il film andrebbe in realtà letto come un ossimoro. Ci siamo già lasciati alle spalle il documentario Supersize me che aveva rivelato al mondo intero la reale mission di McDonald’s, anche se insieme aveva favorito una maggiore attenzione della multinazionale a cibi più salutari e meno calorici. Ora, come direbbero gli americani, è piuttosto time to celebrate the man, the founder appunto.

Eppure il film, lo ricordiamo ancora, ha il merito di essere un manuale condensato per gli addetti ai lavori, per chi vuole ripassare una serie di temi ormai acquisiti nella moderna cultura occidentale, con il beneficio di vederli tutti uniti in un intreccio coerente perché vero.

Ray Kroc fu uno dei primi a intuire l’importanza del brand, innanzitutto del nome. La potenza del nome. I fratelli McDonald, candidamente, gli avevano rivelato i principi di produzione: Ray poteva copiarli. E poteva dare il proprio nome al primo locale. Ma capì che il nome era di per sé un valore. McDonald: gli piaceva il suono, dice in un’intervista alla fine del film: “non è la solita trovata furba, burger qui, burger là, scorre, è la tipica parola inglese-americana, facile da dire per i bambini e da ricordare, suona genuina, suona come Tiffany”. Ecco l’intuizione che anticipa la società della comunicazione di almeno vent’anni. Quando nel 1965 Edoardo Fendi fondò l’omonima maison della moda, a proposito del suo marchio-cognome disse: “Diventerà famoso. È breve, unico e musicale”.

E insieme Kroc comprende anche l’importanza dell’iconografia: le chiese hanno le croci, i tribunali le bandiere. Per riconoscere il luogo dove mangiare ora ci saranno gli archi dorati, la grande M fatta con i golden arches che sono sopravvissuti soltanto nell’insegna ma che un tempo attraversavano da parte a parte i due fianchi dei chioschi, un tratto distintivo e immediatamente riconoscibile, il primo concept, il primo format. In una parola: brand identity.

Due archi e il gioco è fatto (via)

Agli archi Kroc aggiungerà negli anni anche altri visual: il pagliaccio Ronald e il modello di business simboleggiato dallo “sgabello a tre gambe”: i fornitori, la company e i ristoranti in franchising, ognuno indipendente ma unito agli altri per reggere il colosso del panino.
Chiunque inizi a lavorare in un McDonald’s viene messo davanti a un filmato che gli mostra la possibilità di una carriera: da manovale del panino su su fino alla Hamburger University di Oak Brook nell’Illinois, villaggio natale di Kroc. La vision è innanzitutto questo: mostrare il traguardo lontano è già una mezza conquista, come quando John Kennedy, nel 1961, per spiegare l’obiettivo del piano di investimenti aerospaziali decennale, disse semplicemente “un uomo da mandare sulla luna e da riportare a casa sano e salvo”.

Felici e contenti (via)

E sotto gli archi dorati si consumeranno pasti non convenzionali, perché — dice Kroc ai fratelli McDonald per convincerli a cedergli la licenza di franchise e la possibilità di aprire fast food in tutta la nazione — McDonald’s può diventare la nuova chiesa americana dove la famiglia va a spezzare il pane, aperta tutti i giorni, non soltanto la domenica. E qui davvero “solo in America”, perché soltanto là c’è la possibilità e l’abilità di trasformare un oggetto in un ente metafisico, un comportamento ordinario in un rito, un brand in un simbolo. I due però non sono ancora convinti, ci avevano già provato con alcuni franchisee, in California, ma non erano stati capaci di sorvegliare adeguatamente il controllo qualità, il rispetto delle procedure e la scelta degli ingredienti. “Fatelo per la nazione” dice allora Kroc, la frase magica, il grimaldello negli Stati Uniti, dove l’epica della nazione non passa attraverso la storia, ma attraverso un’idea e l’impresa che ne consegue. Impresa nel doppio senso di corporation e azione eroica. Anche i fratelli McDonald, da buoni americani, volevano passare alla storia, volevano che il loro orgoglio si materializzasse in un’impresa che rimanesse nel tempo come fu per le cattedrali nei secoli scorsi: i brand nuove religioni, i punti vendita nuovi templi. Non è un caso se la famiglia Kroc ha donato un miliardo e mezzo di dollari al solo Esercito della Salvezza e centinaia di milioni ad altri enti.
Kroc ha 52 anni quando conosce I fratelli McDonald. “I was an overnight success alright, but 30 years is a long, long night”, dirà alcuni anni dopo, “Ho avuto successo da un giorno all’altro, ma 30 anni sono una notte molto lunga”.

In posa accanto al suo impero (via)

Anche questo fa della sua storia una storia esemplare. Nel film, Keaton-Kroc guarda in camera e dice: “Lo so a cosa state pensando. Come può un venditore di milkshake costruire un impero del fast food che guadagna 700 milioni di dollari all’anno? Una parola: perseveranza”. La perseveranza è la qualità che, a detta dei cacciatori di teste, cercano oggi tutte le aziende. La capacità di resistere allo stress, di superare frustrazioni e fallimenti, di saper lavorare ad un obiettivo, un sogno a lungo termine (l’uomo sulla luna, la M di McDonald’s nei Paesi di tutto il mondo), al di là del quoziente d’intelligenza, dell’intelligenza emotiva e di varie doti alle quali a turno, negli ultimi decenni, è stato imputato il successo.

Capacità misurata da un test, il “Marshmallow test”. Si mette un bambino in una stanza, da solo: davanti a lui, sul tavolo, c’è un marshmallow. Un adulto gli dice: “Io torno tra 20 minuti. Se hai resistito e non l’hai mangiato te ne do due”. L’adulto esce e poi si riprende la scena: cosa fa il bambino? Più tempo resiste e maggiore sarà la sua persistence quando diventerà adulto.

Kroc era stato il miglior venditore della Lily-Tulip produttore di tazze e bicchieri di carta, e poi del Multimixer di Earl Prince (conosciuto a un corso motivazionale di vendita), una macchina a cinque mandrini per preparare più milkshake contemporaneamente e la cui velocità aveva affascinato Kroc, tanto da chiederne l’esclusiva di vendita in tutta l’America contro il parere di sua moglie, che non voleva cominciasse un nuovo lavoro a trentacinque anni.
Ma agli inizi degli anni Cinquanta, quando in molti si trasferirono dalle città alle campagne, le vendite del multi mixer crollarono: chiusero infatti centinaia di drugstore soda mountain dove si spillavano le bevande gassate combinando sciroppo, acqua e anidride carbonica. Sopravvissero però i piccoli ristoranti come quello dei fratelli McDonald, che ne ordinarono otto in un colpo per assecondare il loro sistema produttivo: trenta secondi dall’ordine al servizio, solo hamburger, milk shake, patatine e bibite, cioè gli articoli di maggior consumo (focus lo chiamerà alcuni decenni dopo Al Ries, un guru del marketing). L’ordine anomalo attira l’attenzione di Kroc che parte con la sua Buick dall’Illinois per capire a chi servono otto multimixer insieme.

I fratelli McDonald ignorano qualsiasi esperienza industriale, ma trasferiscono i principi dell’organizzazione del lavoro di una fabbrica tayloristica e della catena di montaggio nella preparazione degli hamburger. Regole che oggi si sono evolute e si chiamano Toyota, Lean e Kaizen, perché sono state perfezionate dai giapponesi, ma conservano sempre la stessa base di buon senso, pratica, ordine, pulizia e razionalità. Ed è l’innovazione che affascina Ray Kroc, come era stato anni prima per il multimixer a cinque mandrini.

Con tanto di autografo di Dick e Mac McDonald (via)

Dunque il sogno di Kroc è lo stesso dei fratelli McDonald. Un sogno che però non riescono a realizzare davvero nei nove franchisee sotto il loro controllo: alla fine, quando Kroc li liquida, ci si arrende a riconoscere che è stato lui a creare la catena dei locali, a implementare una formazione rigorosa e la standardizzazione delle procedure: in fondo con i 2,7 milioni di dollari il vecchio Ray paga il nome, il concept e il modello di produzione. Gli intangibili diremmo oggi.

Così tra i due schieramenti si combatte lo scontro tra il capitalismo feroce, avido e spietato, e quello famigliare dell’imprenditore vecchia maniera che non accetta di servire un frappè alla vaniglia in polvere, né altri compromessi sugli ingredienti che gli permetterebbero di aumentare i profitti, l’imprenditore old style che vuole regalare uno dei locali in California ai dipendenti più fedeli.

Kroc aprirà il suo McDonald’s a pochi metri dal vero e originale McDonald’s di San Bernardino, costretto a cambiare nome in The Big M dopo la cessione del marchio. I due fratelli saranno costretti a chiudere e Kroc non manterrà la promessa fatta con una stretta di mano di ceder loro ogni anno l’1% dei profitti. Nel film, a Dick e Mac quasi dispiace più che Kroc si definisca the Founder, il fondatore con la F maiuscola. Così come oggi i manager dei fondi di investimento si sostituiscono ai vecchi padroni delle aziende che acquistano e cancellano i meriti, il passato e le persone con una risata sarcastica.

Fine di un’era?

Il locale originario dei fratelli McDonald, a San Bernardino in California, non esiste più. Quello di Ray Kroc che lui chiamava “il McDonald’s numero uno”, a Des Plaines nell’Illinois, è diventato un museo.

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Alberto Albertini
The Catcher

(1966) Laurea con lode in Filologia Moderna, docente universitario, scrittore, giornalista, copywriter, manager, da 34 anni nell’industria.