Distopia portaci via

Cos’hanno in comune 1984 e Donald Trump?

Sebastiano Iannizzotto
The Catcher
7 min readFeb 5, 2017

--

(Internet / elaborazione grafica The Catcher)

Dal giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump non è certo stato con le mani in mano: ha firmato ordini esecutivi (ovvero provvedimenti di efficacia immediata che non hanno bisogno del passaggio al Congresso) come se non ci fosse un domani. Ha ritirato formalmente gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), un grande trattato commerciale internazionale fra 12 dei paesi affacciati sul Pacifico. Ha interrotto le assunzioni nel governo federale. Ha cancellato i finanziamenti del governo a tutte le organizzazioni che praticano o fanno informazione sulle interruzioni di gravidanza nel mondo (come avevano già fatto Ronald Reagan e George W. Bush). Ha deciso di far ripartire i lavori del Dakota Access e del Keystone XL, due oleodotti parecchio costosi.
E il famigerato muro al confine col Messico? Niente paura, ha firmato un ordine esecutivo anche per quello. Gli ultimi provvedimenti, in ordine di tempo, sono la sospensione delle procedure di accoglienza dei richiedenti asilo per quattro mesi e il divieto d’ingresso per i cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana (Iran, Iraq, Siria, Sudan, Libia, Somalia, Yemen).
Le conseguenze di questi provvedimenti: proteste (non sono negli Usa) e situazioni grottesche negli aeroporti.

La ciliegina sulla torta, in questo indimenticabile incipit dell’Era Trump, l’ha messa Kellyanne Conway. Ma andiamo con ordine. Sean Spicer, il portavoce della Casa Bianca, ha sostenuto che la cerimonia d’insediamento di Trump è stata quella a cui hanno partecipato più persone nella storia degli Stati Uniti d’America. Una piccola bugia, diciamo.

(via)

Conway, durante il Meet the Press di NBC, ha difeso Spicer dicendo che le sue non sono menzogne: lui dà solo alternative facts.

Prima responsabile della campagna elettorale di Trump, ora consigliere del Presidente

Il rapporto di Conway con la realtà è piuttosto problematico.

Per giustificare quello che è stato ribattezzato “Muslim Ban”, ha affermato che nel 2011 due rifugiati provenienti dall’Iraq furono gli autori del “massacro di Bowling Green”, un attacco terroristico che pochi ricordano perché non fu molto raccontato dai media. Certo, perché non è mai avvenuto.

Il linguaggio della politica ci ha da sempre abituato a salti mortali e altri trick da capogiro per raccontare in modo diverso (più conveniente per il politico sotto i riflettori) fatti piuttosto evidenti e difficili da contestare. Usare l’espressione “utilizzatore finale” per dire che Berlusconi ha pagato per le prestazioni sessuali di una donna è un espediente per ritoccare la realtà, un trucchetto per raccontare la verità in un modo più favorevole. Nonostante lo squallore, “utilizzatore finale” non mette in questione la verità dei fatti.

Alternative facts, invece, compie un passo ulteriore: si spinge nella pampa sconfinata della menzogna, ignorando le prove che mostrano una realtà diametralmente opposta, e riscrive quello che i nostri occhi hanno visto.

Dal giorno del Meet the Press di Conway, la classifica degli Amazon Best Sellers (che si aggiorna ogni ora) è stata dominata dallo stesso libro: 1984 di George Orwell (scalzato solo negli ultimi giorni da Dangerous, la controversa biografia di Milo Yiannopoulos, razzista, sessista e paladino dell’alt-right).

Simon & Schuster ha pagato 250.000 $ di anticipo a Yiannopoulos

Orwell descrive così il doublethink (bispensiero):

To know and not to know, to be conscious of complete truthfulness while telling carefully constructed lies, to hold simultaneously two opinions which cancelled out, […] to forget whatever it was necessary to forget, then to draw it back into memory again at the moment when it was needed, and then promptly to forget it again, and above all, to apply the same process to the process itself […] To tell deliberate lies while genuinely believing in them, to forget any fact that has become inconvenient, and then, when it becomes necessary again, to draw it back from oblivion for just as long as it is needed, to deny the existence of objective reality and all the while to take account of the reality which one denies — all this is indispensably necessary. Even in using the word doublethink it is necessary to exercise doublethink.

Affermare menzogne deliberatamente e, nel frattempo, crederci in modo genuino: è quello che fa Spicer quando afferma che la cerimonia di insediamento di Donald Trump è stata la più partecipata nella storia, nonostante le prove fotografiche dicano il contrario; è quello che fa Conway quando inventa un attentato mai avvenuto e lo usa per giustificare un provvedimento discriminatorio. Negare l’esistenza della realtà oggettiva: è quello che fa Conway quando parla di fatti alternativi.

Il doublethink sta agendo anche in campo scientifico. Le posizioni di Trump sul riscaldamento globale sono state chiare fin da subito: il global warming non esiste. E, appena insediatosi, il nuovo presidente ha cancellato ogni traccia sul cambiamento climatico dai siti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Il passo successivo è stato il congelamento dei fondi all’Enviromental Protection Agency. Ai dipendenti dell’EPA, poi, è stato caldamente consigliato di non pubblicare news, post sui social e sui blog ufficiali. L’unico a ribellarsi è stato l’account Twitter del Badlands National Park, che ha twittato dati e evidenze scientifiche a proposito del cambiamento climatico.

L’eroismo di un social media manager

I tweet sono stati poi prontamente rimossi e il National Park Service ha affermato che erano stati scritti da un ex dipendente del parco.

In 1984 Orwell scrive:

In Oceania at the present day, Science, in the old sense, has almost ceased to exist. In Newspeak there is no word for “Science”.

La voce “distopia” del vocabolario Treccani recita così:

Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi (equivale quindi a utopia negativa).

La prima metà del Novecento è stata il terreno fertile in cui il genere distopico ha attecchito, proliferato e definito le sue regole formali. Superata l’età dei totalitarismi, la distopia ha comunque goduto di ottima salute, e non solo perché romanzi come Il mondo nuovo di Aldous Huxley, lo stesso 1984 di George Orwell e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury fanno parte delle reading list con cui, prima o poi, devono fare i conti liceali e studenti universitari.
A conferma che non si tratta di una tendenza dello scorso secolo, basta citare I figli degli uomini di P. D. James, Hunger Games di Suzanne Collins, Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro, La strada di Cormac McCarthy (tutti e quattro poi trasposti sul grande schermo). In Italia, solo negli ultimi anni, sono stati pubblicati XXI secolo di Paolo Zardi, Berlin di Fabio Geda e Marco Magnone, Anna di Niccolò Ammaniti, Randagi di Alessandro Mari e Francesca Zoni, La terra dei figli di Gipi. Da un lato lo spettro dei totalitarismi, dall’altro il terrore per la fine del mondo: la distopia è lo strumento perfetto per raccontare le paure del presente.

Piccola biblioteca distopica

Le distopie ci piacciono perché ci mostrano quello che potremmo essere, quello che potremmo diventare. Così si spiega la fortuna di un genere con uno schema tutto sommato abbastanza semplice: la società è schiacciata da un regime totalitario; la vita dei cittadini è controllata al fine di azzerare qualsiasi forma di dissenso; un outsider si ribella e tenta di sovvertire l’ordine costituito imposto dall’autorità; l’outsider fallisce e rientra tra i ranghi. Si tratta di una lotta tra il male, dominante, pervasivo, onniscente e onnipresente, e il bene, incarnato dall’outsider o da un ristretto gruppo di ribelli, eroici ma deboli. Nonostante il carattere profondamente pessimistico, la distopia è rassicurante, perché colloca nel futuro, lontano da noi, il male che germina già nel nostro presente. E accarezza la volontà autodistruttiva che ci abita.

Cosa succede, però, se la distanza tra realtà e fiction si riduce drasticamente?

Le prime due settimane di Trump alla Casa Bianca hanno portato la distopia dalle pagine al mondo reale. Questo processo è stato facilitato anche dal fatto che, fin dalla campagna elettorale, Trump è stato percepito e raccontato come un personaggio di finzione, il cattivo per eccellenza, il villain dei fumetti, il male a tutto tondo senza nessuno spiraglio di luce.

Trump in stile Watchmen (via)

Prima assimilato al Joker, poi a Bane, infine al Big Brother orwelliano. Tutto questo però distoglie l’attenzione dal fatto che non viviamo dentro a una finzione, non verrà Batman a salvare Gotham. Il fatto che il doublethink esista non ci esime dall’affrontare un problema reale.

Resistenza al doublethink (da 1984, diretto da Michael Radford)

--

--