Una mattina con Turconi e Radice

Di viaggi, famiglia, fumetti e altre storie

Davide Cerreja Fus
The Catcher
28 min readDec 13, 2017

--

Mente e mano (elaborazione grafica The Catcher)

Intervista di Alessia Siciliano e Davide Cerreja Fus.
I disegni e le illustrazioni sono di Stefano Turconi.

Lo scorso anno, proprio di questi tempi, eravamo in giro alla disperata ricerca dei famigerati regali di Natale: parenti, amici e nipoti da sfamare con piccole o grandi sorprese che rispondessero sia ai nostri che ai loro gusti.

In particolare eravamo alla ricerca di un regalo per una delle nostre amiche, che era allora in una fase molto delicata della gravidanza (tutto bene, Bea è arrivata ed è una bimba bellissima) e, dato che noi siamo giusto i tipi da cercare una scusa per passare un paio d’ore in posti così, siamo andati nella nostra fumetteria di fiducia, Pop Store in Via Bertola.

Mentre eravamo lì a ragionare su quale graphic novel fosse più adatto allo scopo, Sara, piccola e potente consigliera, ci ha messo in mano Il porto proibito di Stefano Turconi e Teresa Radice.

Noi, non per sfiducia ma perché non siamo abituati a regalare cose che non conosciamo, naturalmente ci siamo sacrificati e lo abbiamo letto (giusto per essere sicuri che andasse bene per la nostra amica).

È stato amore puro.
Uno di quegli amori per cui, come diceva Holden Caulfield: «vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira».
E poiché è nostro preciso dovere aziendale seguire la succitata massima di Salinger (e siamo tanto fortunati da poterlo fare) li abbiamo invitati alla Scuola Holden, con il pretesto di tenere una lezione sul fumetto e l’oscuro intento di rinchiuderli in sala professori e tempestarli di domande.

Intervistanti e intervistati

Siamo d’accordo che l’approccio sia un po’ da mitomani, ma Teresa e Stefano, che quando li incontri sembrano i tuoi vicini di casa e appaiono quasi più emozionati di te, sono stati molto disponibili. Intorno al tavolone di legno sul quale campeggiava Il porto proibito, pronto per essere autografato con disegnino alla fine dell’intervista, la nostra chiacchierata è durata più di un’ora.

Iniziamo facile facile: qual è la vostra formazione a livello individuale e come è nato il vostro rapporto lavorativo prima e sentimentale poi? Per chi non lo sapesse, voi siete una coppia lavorativa, ma anche una coppia nella vita!
Teresa:
È buffo, perché la prima storia che abbiamo fatto insieme è uscita quando ancora noi non ci conoscevamo.

In Disney funziona così: lo sceneggiatore consegna una sceneggiatura e la redazione si occupa di trovare un disegnatore per quella storia.

Stefano ha ricevuto la mia storia, che si intitolava Legame invisibile: qualcosa doveva succedere! (Teresa ride e dice a Stefano di iniziare dalla sua di storia, dato che lui è più vecchio.)
Stefano: Io ho una formazione artistica, sin da piccolo volevo fare fumetto, quando ero bambino disegnavo: è una cosa che so fare, che mi piaceva, che mi piace. Ho fatto il liceo artistico, l’accademia di belle arti — che però per fare fumetti non serve a molto — ho fatto una scuola di fumetto serale, quella del Castello Sforzesco di Milano, e poi l’Accademia Disney. Ho una formazione disneyana: a luglio di quest’anno sono stati vent’anni dalla mia prima uscita su Topolino. Ho studiato con Giovan Battista Carpi, l’autore de Il manuale delle giovani marmotte, e con Alessandro Barbucci, che è un disegnatore bravissimo con un’impronta molto di animazione. Anch’io ho quel tipo di impronta, e la devo a lui.
T: Io ho fatto la strada di una che studia cose normali: lingue al liceo e all’università.
Però volevo raccontare storie, quindi ho fatto molte piccole cose parallele, tra cui una scuola di scrittura internazionale, che è durata dieci giorni e mi ha aperto gli occhi.

Avevo un’insegnante bravissima, che io considero una seconda mamma, che mi ha detto: «Secondo me tu nella vita devi scrivere».

Quando te lo dici tu è un po’ autoconvinzione, ma è diverso se te lo dice un esterno che neanche ti conosce. Tra l’altro siamo ancora in contatto adesso, la considero il mio mentore insieme ad Alessandro Sisti, che è stato il mio insegnante in Accademia Disney.
Quest’ultima però è venuta dopo, è stato un caso, la prima cosa in cui sono capitata. Io e Stefano ci siamo conosciuti lì, per colpa di un programma di Disney Channel: la redazione ha scelto un disegnatore e un autore tra i tanti che lavorano in Italia - e che spesso non si conoscono perché magari uno è a Roma e l’altro a Napoli. Hanno chiamato noi per questa puntata in cui si raccontava come nasce un fumetto: un anno dopo ci siamo sposati senza tra l’altro aver mai neanche visto il programma!

Pirati!

Quindi l’Accademia Disney fa corsi per sceneggiatori?
T:
Faceva, adesso non esiste più. Faceva corsi per sceneggiatori, per disegnatori, coloristi, illustratori: era fantastica. Erano corsi brevi, di pochi mesi, ma molto intensivi.
S: Io l’ho fatta anche due volte da insegnante, e avevamo delle super selezioni. Inoltre, se sentivo che la sera prima erano andati a ballare, gli davo il doppio del lavoro: si doveva lavorare e basta. Erano sei mesi in cui dovevi fare solo quello. E funzionava perchè ti facevi le ossa: lì ho imparato il mestiere.

Come mai non esiste più?
S:
Purtroppo le testate hanno cominciato a chiudere, l’Accademia sfornava autori che poi facevano fatica a lavorare: quindi a un certo punto hanno deciso di chiuderla.
T: Diciamo che non era scontato che tu uscissi dall’accademia e poi cominciassi a lavorare. Avevi una formazione forte, poi però dovevi scontrarti con la realtà, con la redazione che aveva un’ulteriore selezione per vedere se era veramente quello che volevi fare. Nel mio corso eravamo in tredici, ma credo che al momento io sia l’unica che lavora.

Ma c’era l’impronta fumettistica in generale o proprio disneyana?
T:
Diciamo che la sceneggiatura aveva un’impronta fortemente disneyana, con i paletti Disney e le regole Disney. Però il corso di sceneggiatura è un corso di sceneggiatura: se riesci, ti metti a scrivere qualcos’altro e funziona lo stesso. Il principio è identico, solo più centrato sul mondo disneyano.
S: Con una scuola disneyana sei in grado di disegnare qualsiasi cosa nel settore umoristico, meno in quello realistico.

Alla fine il mondo del fumetto in Italia è Disney o Bonelli: quando prendi una direzione bene o male stai in quella cosa lì, è difficile passare dall’uno all’altro.

Anche se c’è chi ci riesce e anche molto bene.

Qui alla Holden abbiamo Tito Faraci, per esempio.
S:
Be’, lui e Mastantuono passano da Topolino a Tex con facilità. Nel disegno l’Accademia ti insegnava la costruzione del personaggio attraverso figure semplici: se sei in grado di costruire Topolino e muoverlo, puoi muovere qualsiasi cosa, puoi prendere un oggetto e trasformarlo in un personaggio.

C’è tanto mondo Disney nelle vostre opere: da Viola Giramondo a Il porto proibito
S:
Tantissimo. Magari non è subito evidente ma c’è. Diciamo che, più che altro, c’è questa impronta che ti danno di base: se hai fatto una scuola di questo tipo, se vieni dal fumetto popolare, che sia Disney o Bonelli, puoi farti le ossa a fare un certo numero di tavole al giorno. Quando poi hai l’occasione di fare qualcosa di tuo, non sbarelli, sai dove puoi buttar giù i paletti, ma non esageri.

Sai che devi fare una cosa che il lettore possa comprendere, non fai l’artistoide con uno sputo sulla pagina che nessuno capisce.

Ecco, questa cosa è molto forte e ti rimane. Poi è chiaro che hai libertà totale di esprimerti: noi abbiamo avuto la fortuna, soprattutto negli ultimi tempi in Disney, di fare cose anche molto autoriali in cui si riconosceva la nostra impronta, anche con personaggi di altri. In Disney hai dei confini ben precisi, ci sono molte cose che non puoi raccontare e di cui non puoi parlare. Ma all’interno di quei confini hai una grande libertà. Abbiamo fatto piangere persone con storie Disney.
T: (ride)Noi facciamo piangere sempre, siamo bravissimi a far piangere!

Prove, espressioni e volteggi

S: Da un certo punto in poi della nostra carriera - che brutta parola - (“del nostro viaggio!”, suggerisce Teresa, ndr) abbiamo cominciato a fare delle cose in Disney che erano molto riconoscibili, pur essendo disneyane cioè ineccepibili dal punto di vista del marchio. Però erano cose nostre, chi le vedeva le riconosceva come nostre, mettiamola così.
T: Un esempio stupido: adesso stiamo lavorando all’adattamento di Orgoglio e pregiudizio in versione Disney e non posso parlare di matrimonio, né di differenza di classe. Pensa a dover fare Orgoglio e pregiudizio con questi limiti! Però è stimolante: a me piace così tanto questo romanzo che voglio farlo. E vediamo se si trova il modo.
S: Io la sto disegnando, leggendola mi sembra che funzioni: è Orgoglio e pregiudizio, però in versione Disney.

Quando abbiamo fatto L’isola del tesoro non potevamo fargli bere il rum, allora abbiamo messo il tè nero con dentro la polvere da sparo. Giochi con questi trucchi.

Così come il discorso della morte: in Disney non esiste la morte, se sparisce un personaggio devi trovare un modo per farlo sparire dando comunque un senso alla storia.

Solitamente una graphic novel nasce da una storia, seguita da un incontro tra sceneggiatore e disegnatore che lavorano sulla direzione visiva da prendere e così via. Un rapporto lavorativo che può avvenire anche a distanza, al telefono o via e-mail. Voi siete una coppia, vivete insieme, e ci chiedevamo come affrontate questa dinamica. Vi immaginiamo a piegare le lenzuola e discutere animatamente sullo stile grafico dei vari personaggi! Ma soprattutto: se siete in disaccordo chi ha la meglio di solito, la sceneggiatrice o il disegnatore?
T:
Sembra una cosa buffa ma di solito non siamo tanto in disaccordo, perché le indicazioni che do a Stefano non sono quasi mai indicazioni di aspetto fisico. Tranne per Il porto proibito, per il quale ho solo chiesto che Abel fosse biondo, perché la persona a cui è dedicato il libro era bionda e per me era un po’ come farla rivivere. Ma non gli ho detto nient’altro: Abel è un ragazzino, è biondo. Basta.
Gli racconto di solito quali sono le debolezze dei personaggi, cosa gli piace fare, che tipo di carattere hanno, come reagiscono di fronte a una certa situazione.

Tenerezze

S: È questa la cosa che interessa a un disegnatore, cioè conoscere il carattere del personaggio. A meno che non ci sia un’esigenza diversa: se un personaggio ha la gamba di legno, deve avere la gamba di legno. Però, al di là di questo, per il disegnatore è molto importante avere la descrizione psicologica dei personaggi. È dalla psicologia che tiri fuori il personaggio: come è fatto, com’è vestito, se ha la barba oppure no.
T: Il mio è un modo di procedere un po’ strano, ma l’iter è quello normale, come se lavorassimo distanti. Lavoriamo in due stanze diverse, puntualizziamo questa cosa!

Però c’è una fase preliminare che ci facilita: vivendo insieme, all’inizio decidiamo che cosa vogliamo raccontare, poi io sviluppo la storia, tant’è vero che spesso lui la scopre mentre la sta disegnando.

Quando hai visto per la prima volta Rebecca (la protagonista de Il porto proibito, ndr) su tavola, era Rebecca?
T:
Rebecca quando l’ho vista era Rebecca, sì. Di solito funziona così. Adesso stiamo lavorando su una serie medievale, mi viene in mente quando doveva fare i due cattivi e allora mi diceva: «Come te lo immagini?». Però molto tranquillamente. In effetti la condizione ideale sarebbe trovarsi un disegnatore e sposarlo!
S: Quando pensiamo a cosa raccontare, lo facciamo chiedendoci: Cos’è che ti andrebbe di disegnare?, oppure: Cos’è che hai voglia di raccontare?
T: Diciamo che, quando ci chiedono che cosa farete dopo, noi abbiamo già due o tre progetti in ballo, perché comunque sono tutte cose che vengono da quello che viviamo insieme, quindi dai film che vediamo o dai viaggi che facciamo.

Anche l’ambientazione in Siam viene da questo, dato che c’è sia ne Il porto proibito che in Non stancarti di andare?
T:
Sì, siamo stati in Thailandia nel 2008 e l’isola, la Chicken Island, c’è davvero, c’è davvero quella spiaggia!

Appunti thailandesi

E vi ha colpito tantissimo!
T:
Diciamo che nel momento in cui puoi buttare giù la storia, ti ritornano le cose.
S: Il porto proibito è un esempio di due modi di inserire il viaggio in un libro: il Siam era un viaggio che avevamo fatto prima di avere Viola, la nostra prima bimba, e abbiamo fatto quindici giorni in giro, con macchine in affitto, tutto bellissimo. Eravamo abbastanza randagi come viaggiatori, adesso dobbiamo farlo con più tranquillità.
Abbiamo usato quel viaggio come ispirazione per tutta la parte del libro ambientata in Siam. Anche le statue di Buddha in mezzo alle quali camminano i personaggi sono in Thailandia; sono in un altro posto, ma abbiamo unito le cose. Ovviamente prendi un po’ di qua e un po’ di là.
Poi c’è stato il viaggio che abbiamo fatto apposta, dovendo scrivere questo libro abbiamo detto: beh, cacchio andiamo in Inghilterra, andiamo a vedere Plymouth!

Ci siamo stati per una settimana, con i bambini, loro si sono divertiti come dei matti perché li abbiamo portati a Portsmouth a vedere la nave di Nelson: è un veliero pieno di cannoni, per un bambino è il paese dei balocchi!

T: Lo raccontiamo sempre, il nostro piccolo aveva quindici mesi, ha fatto i suoi primi passi sul ponte della Victory ed è cascato con le chiappe sulla targa dove c’è scritto «Qui cadde Nelson», con tutte le signore inglesi che impazzivano e chiedevano se si chiamasse Horatio!
S: Abbiamo approfittato di quel viaggio per raccogliere materiale a destra e a manca, alla fine moltissime vignette ambientate a Plymouth non sono altro che fotografie copiate.

Perché poi, diciamocelo, il lavoro del disegnatore è al novanta per cento copiare. Lo diceva anche Picasso: io copio e cerco di farlo meglio.

A Plymouth è rimasto poco di quel che era perché è stata bombardata durante la guerra, ma quello che c’era lo abbiamo usato. Eravamo in giro per la città e dicevamo: ok, qui ci mettiamo l’albergo, qui ci mettiamo il porto…
T: Abbiamo fatto il set! Anche perché all’epoca io avevo già scritto tutta la storia, lui l’ha letta per la prima volta nel sottotetto della stanza di Plymouth che avevamo preso in affitto. Io sono un po’ maniaca di queste cose, secondo me alla fine un pochino si sente, il lettore magari non ne sa niente però qualcosa si sente: io volevo che la storia fosse nello zaino e che Stefano la leggesse lì.
S: la storia ha fatto il nostro stesso viaggio.

Furti fotografici

Quindi l’appassionata di letteratura inglese sei tu, Teresa?
T:
Sì, sono io.

Il porto proibito contiene tantissime citazioni dalla letteratura inglese e la divisione in atti lo fa diventare un’opera epica. Sono idee tue?
T:
Sì, questo libro veniva proprio dalla Rime of the Ancient Mariner di Coleridge. Ci sono delle parti dei romantici inglesi che ho imparato a memoria al liceo, poi non li ho letti per vent’anni, ma quando li ho ripresi ho detto: no, qua ce li metto!

Che poi mi son detta: metti poesie in fumetto? è una roba da matti! Va be’, facciamolo!

La Rime era perfetta per raccontare la storia in sottofondo. In pratica, quando a un certo punto ci sono delle parti che magari non sono esattamente realistiche, non è colpa mia: è colpa di Coleridge!

Noi ci vedevamo il teatro di Shakespeare, Stevenson…
T:
Voleva essere una cosa molto teatrale. È buffo perché in Francia non l’hanno capita questa cosa degli atti! Noi abbiamo scritto Opera a fumetti in quattro atti, opera nel senso di lavoro a fumetti e invece son rimasti di sasso: «Ma perché l’avete chiamata opera?!». Poi è piaciuta, in Francia sta andando benissimo, ma all’inizio sono rimasti spiazzati.

Ditecelo, però: questa cosa la fate, che piegate le lenzuola e…
S:
Sì, sì! Adesso partecipano anche i bambini perché seguono tutto l’iter della preparazione del libro, anche questi che sono più per adulti: loro conoscono perfettamente chi è Abel, chi è Rebecca.

Quando a tavola noi parliamo di queste cose ogni tanto partecipano. Tutti e due dicono di voler fare il lavoro di papà. Sono disperato!

T: Sì, il lavoro di papà, non di mamma! La scrittura non si vede come i disegni!

Complicità

Avete ricevuto in Francia il Prix Bande Desinée dell’Academie de Marine: come è stato incontrare dei veri marinai, l’avevate già fatto prima o durante la stesura de Il porto proibito? Nell’opera ci sono tanti termini tecnici e un’ottima conoscenza delle tecniche a bordo di una nave. Faceva già parte del vostro bagaglio culturale o avete dovuto studiare?
S:
Noi siamo nati e vissuti in mezzo alla tristissima pianura padana, il mare è quello di quando ci vai d’estate. E per noi neanche perché andiamo in montagna!

La passione sono i romanzi di mare: credo che il primo libro a cui ci siamo appassionati entrambi sia stato L’isola del tesoro. Poi Conrad, Melville, insomma siamo cresciuti con questi libri.

La scintilla però l’ha fatta scattare Master&Commander (Peter Weir, 2003), il film: lo abbiamo visto tutti e due quando uscì, senza conoscerci e in cinema diversi. Io avevo comprato i libri di Patrick O’Brian da cui è tratto e li ho letti tutti. Tutto viene da lì, da una passione letteraria.
T: E abbiamo anche studiato tanto…
S: Abbiamo letto un sacco di roba e quando il libro è uscito ho detto: ok, speriamo di aver fatto tutto bene.

Poi un giorno, mentre facevamo le dediche a un festival in Italia, si presenta un ragazzo. Mani in tasca, ci guarda e ci fa: «Io ho la patente nautica e ho letto il libro». Panico. «Va bene, bravi!»

Questa cosa ce l’ha detta anche in Francia un velista, un bretone credo. Lo ha letto e ha detto che era tutto preciso.
E poi il premio! L’Academie de Marine è l’accademia della marina militare e mercantile francese, e premia le opere che divulgano l’amore per il mare: c’è il premio per il libro, per il saggio e premiano anche il fumetto. Quest’anno l’hanno dato a noi, è un medaglione bellissimo. Una cosa formale, con gli ammiragli! E il tipo che ci ha consegnato il premio sul palco, quello che aveva letto il libro e che lo aveva proposto per il premio, ci ha fatto un sacco di complimenti, ci ha detto che la parte marinaresca era verosimile, attendibile. Siamo contentissimi di questa cosa!
T: Io sono maniaca delle cose emotive, Stefano è un maniaco della precisione: tutto deve essere giusto.
S: Pensa che io ho costruito un modello della nave per poterla disegnare; il modellino di un veliero dell’epoca, con le vele, le corde e tutto il resto. Poi sì, ti sfugge qualcosa perché è difficilissimo, però, se ti ci sei buttato dentro, si sente. Poi magari uno non capisce tutti i termini, ma sente che dietro c’è un mondo che è stato esplorato.
Adesso ci siamo dimenticati quasi tutto, se lo rilegessimo, quasi la metà delle cose non le capiremmo!

Cantieri navali Turconi-Radice

Quanto ci è voluto in termini di tempo?
S:
Due anni e qualcosa. Alla fine del libro mettiamo sempre una data di inizio e una data di fine, che però non comprendono tutta la parte precedente di documentazione. Inoltre non lavori ventiquattrore ore su ventiquattro su un solo libro, hai sempre un po’ di Disney, un po’ di qua e un po’ di là: è difficile stabilire il tempo preciso. Grosso modo Il porto proibito è durato un paio d’anni di lavoro. In genere un graphic novel di quella misura richiede almeno due anni.

C’è una fase di editing, come in letteratura?
T:
L’editing è molto sereno, con Michele Foschini (chief creative officer di Bao Publishing, ndr) ormai siamo amici e lui sa come lavoro, di solito va molto a fiducia. Quello nuovo, invece, è stato seguito passo passo da Caterina Marietti (amministratore unico di Bao Publishing, ndr) e lei si è appassionata tantissimo. Michele lo ha letto prima che andasse in stampa e, quando lo ha finito, mi fa: «Non hai scritto un libro, hai scritto due libri!».

Noi presentiamo sempre un progetto molto dettagliato, quindi più che un controllo durante il lavoro c’è questa fiducia grossa all’inizio.

Comunque un controllo c’è, ci sono quattro persone che hanno riletto tutto. Qualcosa ti scappa sempre.

Il porto proibito è raccontato da un’angolazione tendenzialmente infantile: la tematica principale è la rinascita, la negazione della morte, e i punti di vista sono quello di Abel, un ragazzino, e quello di Rebecca, un’adulta che, dopo essere morta e rinata, ha acquisito nuovamente un occhio da bambino. Ricorda classici come L’isola del tesoro o Alice nel paese delle meraviglie, classificati come letteratura per ragazzi sebbene lo siano fino a un certo punto. Quanto resta, nelle vostre storie scritte per un target adulto, di quelle scritte pensando ad un pubblico di bambini e ragazzi? C’è una continuità, voluta o inconsapevole, che non si perde tra Viola giramondo e Il porto proibito?
T:
Noi ci freghiamo un po’ da soli, se facessimo sempre solo la stessa cosa avremmo un pubblico che ci segue sempre! Per esempio, per Orlando curioso devi intercettare un altro tipo di pubblico, o sperare che qualcuno dei grandi che hanno letto Il porto proibito lo vada a cercare. Però abbiamo voglia di fare cose sempre diverse, ci piace proprio, e credo che una delle cose più belle che ci hanno detto quando è uscito Orlando curioso è stata: «Be’, ma siete voi!». Gente che aveva letto Il porto proibito, che aveva letto Viola Giramondo, classificato come graphic novel per ragazzi sebbene io non lo abbia mai pensato come tale.

Un po’ come era successo a Stevenson per L’isola del tesoro
T:
Quando lo scrivevo ero incinta e pensavo: questo è un graphic novel per mamme. Infatti ero molto stupita di incontrare bimbi di sei, otto anni che lo avevano letto e lo avevano amato, perché secondo me non era una cosa per bambini. Poi è stato inserito in quella collana: ci sta, perfetto, però io non lo avevo pensato così. Mi mettono in imbarazzo le etichette, non riesco a capirle.

Per Il porto proibito abbiamo avuto tantissime difficoltà all’inizio: c’è stato un momento in cui questo libro non lo voleva veramente nessuno perché il protagonista era un bambino, un ragazzino, ma la storia era molto adulta.

Ci dicevano: «Non si può, perché se il protagonista è un ragazzino allora deve rivolgersi a un pubblico di ragazzini, mi devi aumentare l’età». Ma io non potevo perché lui è una pagina bianca: se lo avessi fatto diventare un diciottenne certe esperienze, certe iniziazioni, non avrebbero avuto più senso.
È difficile perché comunque il mondo esterno ragiona per etichette e questa cosa un po’ ci frega, nel senso che siamo stupidi noi che ce le andiamo a cercare!

Privilegiati e perplessi (via)

Quindi, senza volervi etichettare, secondo voi è un punto di vista privilegiato quello dell’infanzia?
T:
Per come la vedo io, sì. Lo vedi quando sei genitore, ogni giorno è una cosa nuova perché la vedi un po’ anche tu con gli occhi dei bambini. Forse dovremmo tornare tutti un po’ più bambini, toglierci un pochino di schemi e un po’ di etichette. Vivremmo più serenamente. I bambini non hanno etichette: lo vediamo tanto adesso, con la multietnicità. Etichettiamo tutto e non c’è mai una via di mezzo.

I bambini queste cose non le hanno. I bambini accolgono istintivamente, le etichette gliele mettiamo noi o comunque da noi le assorbono.

Quindi sì, volevamo che Abel fosse un bambino e che il rapporto più sincero, senza freni e senza barriere fosse quello con Harriet, la piccolina.

Ci sembra il momento giusto per lanciarsi sul terreno delle pippe mentali che ogni lettore si fa davanti a un libro. Vi chiediamo: il nome capitano Stevenson si chiama così in onore dell’autore de L’isola del tesoro, vero? E le sue tre figlie ci hanno subito fatto pensare a Piccole donne
T:
Questa è una cosa buffissima, noi avevamo pensato di più a Jane Austen. Ma in realtà le sorelle sono ispirate a tre mie cugine, quindi è buffissimo quando ti trovano delle citazioni a cui tu non avevi pensato, a volte non le conosci proprio le opere…

Ieri ho avuto una specie di epifania sul capitano McCloud…
S:
HIGHLANDER! (Esultiamo, ndr)

T: Highlander c’era, e sei il primo che lo becca! In realtà sai chi è il capitano McCloud? Sempre in un viaggio fatto in Canada, capitiamo un giorno in un B&B di una coppia di signori anziani e lui si chiamava McCloud. Al mattino col grembiulino ci portava la colazione, in un posto sperduto nella Nuova Scozia.

Chiacchierando viene fuori che lui era il capitano di un’imbarcazione e faceva archeologia subacquea: avevano trovato un relitto della Chameau, una nave francese affondata nel 700. Hanno trovato un tesoro, con le monete d’oro, i Luigi d’oro del 700!

In realtà è per questo che abbiamo chiamato il nostro personaggio McCloud. Poi, ovvio, c’erano echi di Highlander.

Questa storia parla anche un po’ d’immortalità, quindi ci sta!
S:
Io sono del ’74, per me Highlander è uno dei capisaldi!

Sempre ne Il porto proibito la famiglia è un desiderio agognato da tutti, che però sfugge continuamente. E, quando alla fine si ricompone, è una famiglia un po’ rattoppata, ma felice. Nei ringraziamenti del libro, inoltre, vengono citati nonni, figli e persone che sembrano dei famigliari anche se non lo sono. In questo momento storico la famiglia è spesso trattata come un territorio minato, mentre per voi pare sia ancora un’isola felice. Quanto è importante la solidità famigliare all’interno della vostra vita professionale?
T:
La famiglia è importantissima, non deve essere per forza la classica mamma e il classico papà.

Cioè noi siamo la classica mamma e il classico papà, siamo sposati e abbiamo due bambini, quindi proprio la famiglia classicissima e, se vuoi, oggi anche un po’ controcorrente.

La famiglia che c’è alla fine del libro è una famiglia: Rebecca è una mamma, McCloud è un papà e non importa che non sia un padre biologico, l’importante è avere dei porti sicuri, un luogo in cui tornare. Il bello di andare in giro per il mondo è tornare per poterlo raccontare a qualcuno.
Anche nel prossimo libro ci sarà tantissimo questo aspetto: è pieno di personaggi che sono madri, che sono padri, ma magari non lo sono biologicamente. È bello quello che dite, che ringraziamo delle persone che sembrano di famiglia, ma magari sono semplicemente amici.

Gli amici diventano parte di te, perché li scegli. Il senso della famiglia per noi è quello di un nucleo forte e al quale si ritorna.

S: C’è quel libro bellissimo di Altan (Piccolo uovo, ndr) con bambini che hanno tutti due papà, due mamme, i papà e la mamma: è bellissimo perché passa una cosa bella ai bambini, senza etichette.

Ritratto di famiglia su pagina doppia

Cos’è La Casa Senza Nord?
S:
È casa nostra! Semplicemente non ha il nord. È una bifamiliare e abbiamo i tre lati che sono sud, est e ovest, quindi il nord non c’è, è la schiena dell’altra casa. Ci piacevano il nome e l’idea di un posto al caldo e al sole, per questo La Casa Senza Nord. E poi è diventato anche il nome del nostro blog, sì.

Parliamo di case editrici: voi pubblicate tanto anche in Francia e molti dei vostri lavori sono distribuiti anche in inglese, spagnolo e francese. Avete pubblicato Viola Giramondo con Tunuè e Orlando curioso, Il porto proibito e Non stancarti di andare con Bao Publishing. Come si sceglie la casa editrice a cui inviare un progetto?
S:
Principalmente guardi che cosa pubblicano e quanto curano il prodotto che pubblicano: quelle sono cose che puoi capire andando semplicemente in libreria, senza conoscere le case editrici.

Immagino un giovane che dice: «Ho una buona idea, voglio fare un graphic novel, ho il progetto, a chi la porto? Non conosco nessuno». La cosa che può fare è andare in libreria e vedere che libri ci sono, chi pubblica cosa, quanto il prodotto è curato, quanto i libri che una casa editrice pubblica sono belli, anche quanto è bella la carta, perché ti da l’idea che la casa editrice ci tiene a quello che pubblica.

Poi la distribuzione: è bellissimo che ci siano librerie ovunque, più capillari sono meglio è, ma se trovo i libri di una casa editrice solo in una piccolissima città, il mio libro non è da nessuna parte, un lettore lo desidera e poi non lo trova. All’inizio ci sono anche questi aspetti da considerare. Vivere di fumetto in Italia non è come farlo in Francia: lì è considerato letteratura e quindi c’è più gente che lo compra, ha dei numeri, altri compensi.
T: In Bao però Il porto proibito lo hanno voluto così come noi volevamo farlo, ci hanno dato fiducia e c’è stato subito un bel rapporto. Adesso ormai siamo anche amici, abbiamo un legame stupendo.

Poi loro sono cresciuti tantissimo…
T:
Sì, sono cresciuti tantissimo, hanno avuto tanto coraggio nel fare cose non scontate. Il porto proibito non era scontato perché era un libro di trecento tavole, in bianco e nero, dove c’era la poesia nel fumetto e le navi. Poteva essere un flop megagalattico. Però loro ci hanno creduto da subito, non ci hanno messo nella condizione di pensare: «Ti sentirai in colpa se la cosa non andrà». Ci hanno creduto con noi. Questa cosa è impagabile. Ritornando alla famiglia, ci sarà un ringraziamento nel libro nuovo: c’è scritto A Cate e Michele, Bao boys&girls, siete casa e famiglia per noi e per i nostri bambini.

All’arrembaggio

Domanda per Stefano, che definiremmo quasi cinematografica: Il porto proibito era una storia senza colore e disegnata esclusivamente a matita, invece in una recente intervista hai dichiarato che la color di Non stancarti di andare è parte integrante della storia. Come si sceglie nel fumetto il registro stilistico più adatto alla storia che vai a raccontare?
S:
Mica facile! Era la prima volta che facevo un libro da trecento pagine, ero un po’ spaventato. Ecco il perché del bianco e nero. Dovevo riuscire a rispettare la scadenza, quindi il non dover fare il colore mi aiutava a guadagnare un po’ di tempo. Poi ci siamo resi conto che funzionava per il tipo di storia, con aspetti un po’ gotici, le ambientazioni, le navi. L’uso della matita è semplice: sono un pessimo inchiostratore a pennello! C’è un autore, Cyril Pedrosa, mi piace moltissimo, che in un suo libro, Tre Ombre (Delcourt, 2003), un libro stupendo, ha disegnato tutto a pennello scarico,cioè con poca china, con molti effetti che possono sembrare matita. Cercavo di fare una cosa del genere, ma non mi è venuta. Il pennello non è la mia tecnica preferita. Lavoro moltissimo con i pastelli e con le matite, è la cosa che preferisco di più.

Anche con Non stancarti di andare (Bao Publishing, 2017) avevo provato con un’inchiostrazione: a un certo punto ho provato con la bic, una banalissima bic. E funzionava. Potendo calcare e non avendo il problema di stare preciso col pennello, mi dava degli effetti che ricordavano la matita. Sono trecento pagine in buona parte inchiostrate con la bic!

La fregatura è che devi comprarne dieci per usarne tre, perché ce ne sono alcune che sono troppo grigie, altre che lasciano punti neri e sporcano, non è proprio comoda da usare. Mi piace moltissimo cambiare tecnica, cambiare stile, mi piace giocare. C’è molto di analogico, non uso la syntic, talvolta il computer. Per esempio, il prossimo libro è colorato al computer, mentre Il porto proibito no: qui l’unico intervento al computer è il nome delle navi, bianco su nero, perché quello non riuscivo a farlo, e le stelle. Tutto il resto è fatto a mano.

Mi piace moltissimo avere le mani sporche, avere il tavolo pieno di pennelli, pastelli, fogli, carta, sono molto materico.

Per chi vuol fare il lavoro del disegnatore e imparare a disegnare, secondo me è utilissimo imparare prima con le tecniche tradizionali e poi arrivare al computer.

Con le tecniche tradizionali devi ragionare su quello che fai, se devo fare una pennellata di un colore devo essere sicuro del colore che uso perchè non torno indietro, non ho il CTRL- Z.

Sì, uso un pc, non il mac: sono antico anche su quello!
Penso che sia utile partire dal tradizionale per arrivare al digitale, ma questa è opinione personale.
T: Pensate che io scrivo tutto a mano: per Il porto proibito e Non stancarti di andare esistono due blocchi ad anelli dell’Ikea, tutta la sceneggiatura è scritta a mano. Poi la batto al computer per darla a lui, altrimenti non capisce cosa ho scritto.

Il mio libro è tutto sulle Moleskine, perché io scrivo prima nella fase della documentazione, ho dei blocchettini, scrivo citazioni dei libri, cose che mi piacciono, inoltre attacco pezzi, biglietti e diventano delle robe stile Smemoranda del liceo.

Infatti la fase di ansia maggiore del lavoro è quando ho finito di scrivere tutto e non c’è ancora niente sul computer: se andiamo in vacanza non so mai se mi devo portare dietro tutto, e poi magari mi derubano, o lasciare tutto a casa rischiando di perdere tutto se brucia la casa! Adesso mi hanno dato un consiglio: fotografo tutte le pagine. Tenete conto che parlate con una che non ha neanche il cellulare!

Abbiamo un contenzioso aperto, che ha fatto discutere anche noi mentre piegavamo le lenzuola: ne Il porto proibito la scena in cui il capitano McLeod e Rebecca fanno l’amore per la prima volta è realizzata graficamente con la tecnica dello schizzo: io (Alessia) ho pensato che il motivo della scelta fosse quello di edulcorare una scena di sesso in un’opera in cui questo non viene mai mostrato esplicitamente. Davide, invece, ha interpretato questa scena come una metafora: lo schizzo, quindi la genesi di ogni tavola fumettistica, come simbolo della rinascita di Rebecca. Tutte pippe mentali nostre o c’è qualcosa che corrisponde al vero?
T:
Forse è un po’ tutto quanto: da un lato volevamo fosse una scena d’amore e non di sesso, quindi una cosa più profonda. Abbiamo pensato che non mostrare troppo desse un’idea più romantica, anche perché su questo tipo di fumetti non ci sono censure.

È un momento cardine della storia, il momento in cui lei rinasce come se fosse la pagina bianca da riscrivere, quindi è bello che sia fatto come se fosse veramente l’inizio di un carnet che non è ancora definito.

Anche lei non è definita, non sa che cosa è diventata nel momento in cui le è successo qualcosa, non sa cosa ha davanti a sé, è come se fosse una bozza.
S: Infatti nella sceneggiatura avevi scritto: «Qui fanno l’amore, queste sono le battute e adesso sono cazzi tuoi!». Volevamo fosse delicata quella cosa lì, che non fosse troppo esplicita. Anche se ogni tanto è divertente disegnare donne nude!

A proposito di cose delicate

Par condicio, domanda per Teresa: amore, viaggio e soprattutto attesa li ritroviamo sia ne Il porto proibito che in Non stancarti di andare. Possiamo dire che questa sia la struttura sentimentale delle tue opere?
T:
Penso di sì, nasce da ogni cosa, da quando ero piccola così. Il viaggio fa parte della mia vita da sempre, mi ricordo che i miei mi hanno sempre portata in giro. Magari non viaggi estremissimi come li potevamo fare noi, ma hanno sempre viaggiato. Quindi la passione per il viaggio, incontrare gente diversa, lingue diverse, cibo diverso l’ho sempre avuta.

Sono figlia unica e per me questa cosa è sempre stata uno strazio perché cercavo gente, mi sono sempre buttata in gruppi dove non conoscevo nessuno per cercare fratelli o sorelle.

L’amore per i viaggi, la passione per quello che fai e per le persone che ti ruotano intorno, credo siano in tutto. In Viola Giramondo (Tunué, 2013) è la stessa cosa: c’è il viaggio, c’è la sua famiglia che è una famiglia multietnica, il nonno non è suo nonno però lo è. E c’è anche l’attesa di scoprire cose nuove. Anche Orlando curioso (Bao Publishing, 2017), è uguale. Mi sono molto preoccupata per il libro nuovo. Spero che chi ha amato Il porto proibito ami anche il prossimo, nonostante le tematiche siano diverse. È un salto nel vuoto, tocca degli argomenti che per alcuni sono fastidiosi: si parla di religione, si parla di Dio, e di nuovo di poesia.

Arriviamo alla domanda baricchiana: alla Scuola Holden lo storytelling è la pietra fondante e ne Il porto proibito voi dite che il compito di un seminatore di emozioni è far trovare in una storia la verità più profonda e che la vita stessa è una storia dalle trame intricate. Cosa sono per voi le storie? E perché avete scelto di seminare emozioni attraverso il fumetto?T: Cavolo, le storie sono come l’aria che respiri! Ritorniamo a me figlia unica che cercavo compagnia nelle storie. Mi raccontano che a tre anni già leggevo.

Le storie sono parte integrante della vita, da quando sei piccolissimo, e aiutano a superare dei momenti in cui ti senti perso. Puoi trovare la direzione nelle storie, nella poesia, nella letteratura, nel cinema.

Anche nel prossimo graphic c’è un libro che fa da guida ai personaggi: in alcuni momenti non sono a loro a parlare ma le poesie, che dicono quello che loro hanno dentro. È capitato il fumetto perché è capitato. Ho sempre voluto scrivere. Il fumetto c’è perché, tra le cose che mi sono capitate per scrivere, è stata la prima, concreta, per cui mi pagassero. Ho vissuto sin da piccola leggendo fumetti Disney come tutti i bambini, erano per me una delle tante vie di sfogo al fatto di essere figlia unica. È stato un po’ come essere a casa, con i personaggi che conoscevo.
S: C’è anche la questione dell’opportunità: perché racconti storie coi fumetti? Perché so disegnare!

Le storie sono una delle cose di cui l’uomo ha bisogno, come mangiare e bere, in qualsiasi cultura.

Noi lo vediamo con i nostri bambini, quando Viola era piccola piangeva, magari faceva un capriccio, e l’unica minaccia che funzionava per farla smettere era non raccontarle una storia la sera. Ai bambini piacciono le storie e, se ti piacciono da piccolo, ti piaceranno sempre. Alla fine noi al cinema cosa cerchiamo? Le storie. Ci sono film che hanno effetti speciali, per i quali hanno speso milioni dollari per fare la super qualcosa, e magari te lo dimentichi subito. Un film fatto con dieci euro, ma in cui c’è la storia, te lo ricordi. È la storia che conta.

Ognuno è fatto delle storie che ha sentito, che gli hanno raccontato e che lui racconta ad altri. Quando io ero bambino mio padre mi raccontava l’Odissea, non leggeva le favole, aveva una passione per i classici. Io ero felicissimo. Anche io le ho raccontate ai miei bambini. Adesso ogni due per tre arrivano: «Papà, dai! Una storia di Ulisse!».

T: Io avevo il nonno che mi leggeva Calvino, ho iniziato così, e coi Topolino di mio zio. Topolino e Calvino!
S: Alla fine uno fa questo lavoro non perché abbia fatto dei calcoli e voglia fare i soldi. Non funziona così.

Fai il disegnatore o lo scrittore perché hai qualcosa dentro che ti dice: devi fare quella roba lì. Non è qualcosa che fai per calcolo.

Incontriamo spesso persone che vogliono fare fumetti ma non leggono fumetti, che ti dicono: «una volta ho letto Topolino». Allora no, non farai mai questo lavoro: è una passione che trasformi in un lavoro, è un privilegio. Noi ci rendiamo conto di essere privilegiati, abbiamo una possibilità che altri non hanno: non si può sprecare.

Con un po’ di amici e un po’ di libri

Be’, questo ci sembrava un finale perfetto, anche perché è ora di pranzo e tutti e quattro abbiamo decisamente fame!

Spegniamo il registratore, andiamo a mangiare e, continuando a parlare di famiglia, fumetti e viaggi, scopriamo che la Casa senza nord ha un’amaca al centro del soggiorno, che due bambini le hanno fatto più danni della foresta amazzonica e che il padre di Teresa era uno degli animatori di Calimero.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

Il trofeo va esibito (foto di Alessia&Davide)

Per la cronaca, Teresa e Stefano hanno poi affrontato la loro (prima) lezione holdeniana: lei era molto emozionata, ma se la sono cavata alla grande.
La dedica che ci hanno fatto su Il porto proibito è bellissima, abbiamo già l’acquolina in bocca per il loro prossimo libro.

--

--