“Io ci credo, ma di brutto”: intervista a Vanni Santoni

In giro per Firenze con l’autore de “La stanza profonda”

The Catcher
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19 min readSep 24, 2018

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Elaborazione grafica The Catcher

di Virginia Giustetto, dottoranda in letteratura italiana contemporanea a Ginevra e critica letteraria, e Matteo Fontanone, consulente editoriale e critico letterario.
Tutte le foto sono degli autori.

Raggiungere in macchina il centro di Firenze, specie se abituati alla pianta ortogonale di Torino, specie se è giugno e la città diventa un cono d’afa già a metà mattina, ha in sé il carattere di una piccola impresa. Il nostro punto d’arrivo è un alberghetto anni Settanta che si trova ai margini del centro storico; la proprietaria ci ha gridato al telefono la strada che dobbiamo seguire, con tanto di cartelli segnaletici. La verità, però, è che dai Viali non riusciamo a uscire, e come se non bastasse questa scena ci sembra di averla già vissuta.

Guardalo, sta venendo a Firenze. […] Si è imbucato nel traffico cittadino, segue cartelli a caso, «Stadio», «Parterre» (Parterre?), «Viali — Circonvallazione», finalmente scorge uno di quelli che indicano il centro, crede di seguirlo ma in realtà sta percorrendo in tondo i Viali, ne incontra e ne segue altri ma nessuno lo porta più in centro di quanto già non sia.

Ci succede pressappoco così, come nell’incipit di Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza), ma con l’aggiunta della ZTL, dello spettro delle multe e dei cento occhi delle telecamere. Alla fine all’alberghetto ci arriviamo: a Firenze, per queste cose, basta lasciar fare ai parcheggiatori dei garage privati. Nonostante sia poco più di una pensioncina, l’Hotel Genesio si è messo al passo coi tempi e dà il benvenuto consegnando ai suoi ospiti la password del WiFi. È una coppia di parole semplice, prevedibile e in un certo modo anche svilente: LoveFlorence. Ancora non lo sappiamo, ma intorno a queste due parole si giocheranno molte delle nostre riflessioni con Vanni Santoni.
L’incontro è fissato per le quattro di pomeriggio a Palazzo Strozzi, nell’attesa decidiamo di mangiare qualcosa e fare un giro veloce per le vie del centro. Fa caldo, caldissimo: ripeterlo restituisce il pensiero invasivo che permea le nostre teste per la prima mezz’ora. E poi in questa città sempre affollata, gravida di gambe e braccia e frammenti diversi di lingue che intercetti per un attimo, l’unica emozione che proviamo è un senso concreto di spaesamento.

Incrociamo più volte ragazzi che sembrano aver scambiato il centro della città per una passerella, e lo spaesamento cresce. Poi capiamo: un manifesto appeso a un portone recita «Fiera Pitti Uomo Immagine 12–15 giugno». Siamo stanchi. Se raggiungessimo Palazzo Strozzi con un po’ di anticipo?

Vanni Santoni (che d’ora in poi sarà solo Vanni) arriva e ci propone subito una passeggiata. Così torniamo in strada e rompiamo il ghiaccio chiacchierando del Premio; all’improvviso, seguendo una di quelle associazioni libere che non si saprebbe dire da dove arrivino, la discussione vira sul calcio storico. Passiamo dalla baronessa Beatrice Monti della Corte, fondatrice del Festival, al gerarca fascista Alessandro Pavolini, che in pieno regime decise di restaurare una tradizione medievale morta e sepolta. Lungo il percorso facciamo lo slalom tra la gente costeggiando i negozietti di souvenir e di borse in finta pelle, e allora torniamo a Se fossi fuoco arderei Firenze e ci domandiamo dove sia quella città lì, che pur affidandosi alla stessa toponomastica pulsava di vita e noia, nella luce opaca di una provincia senza tempo. E poi a un certo punto lo scollamento avviene: niente più putti Pitti che osservano il mondo da dietro le lenti scure dei loro Italia Independent, niente più comitive di cinesi che si fanno ritrarre davanti alla copia del David: le due città prendono direzioni diverse, noi attraversiamo l’Arno e ci ritroviamo in una Firenze più bassa, a misura d’uomo. Siamo ancora lì, eppure da un’altra parte. Domani Vanni ci lascerà con un’immagine che traduce in modo più efficace tutto questo.

San Frediano

La prima tappa non prevede una sosta, è soprattutto uno snodo di suggestioni e ricordi di un passato recentissimo che a noi forestieri suona estremamente lontano.

Caffè Notte

Il Caffè Notte si trova all’incrocio tra via della Chiesa e via delle Caldaie: oggi si confonde tra i locali di San Frediano, quelli con gli interni curati e la grana da bistrot, ma nel 2012 aveva tutto un altro aspetto. Fu in quegli anni che raccolse i primi spontanei fremiti di Torino una sega, una kermesse di letture e interventi liberi che si fondava su una sola regola: non andare oltre i dieci minuti.
La gente pensa che il nome fosse una presa in giro al Salone del Libro, ma no, non era così. È che a un certo punto tutti coloro che gravitavano nell’editoria avevano preso a salutarti dicendo «ci vediamo a Torino», come fosse una sorta di status symbol. Così ci siamo detti: Sai cosa? Torino una sega.
Ci ritrovavamo qui, prima in pochi, poi di anno in anno sempre di più, pensate che una volta alle quattro del mattino è arrivato pure Moresco. È un’esperienza nata dal basso, che a sua volta trae origine dal fatto che molti di noi venivano da riviste letterarie autoprodotte nate in ambienti militanti. Per me, ad esempio,
è stata fondamentale l’esperienza di «Mostro».

«Mostro» nacque a Firenze all’affacciarsi del nuovo millennio, durò quattro anni per un totale di diciassette numeri (tra i fondatori c’è Francesco D’Isa, che ha pubblicato La stanza di Therese per Tunué proprio per la collana diretta da Vanni). La diffusione era in primo luogo cartacea, ma esisteva, ed esiste tutt’ora, la versione digitale. Fu un’esperienza che fece da incubatrice a molte altre iniziative, tanto da far parlare per la prima volta dopo decenni di una giovane scena letteraria toscana.
In quegli anni Vanni si mise in testa di diventare uno scrittore, e lavorò contemporaneamente a quattro libri: alcuni non li finì mai, altri li scartò poi, senza rimpianti. In fondo, ci dice, “se un libro è veramente buono, esce”. Nel frattempo raggiungiamo piazza Torquato Tasso e svoltiamo a destra: la facciata di una delle prime case è totalmente coperta da un murales.

Qui c’è l’occupazione di via del Leone 60, una delle poche in centro a resistere. È nata nel 2013 e risponde alle esigenze di un quartiere, questo, che resta ancora il più autentico d’Oltrarno.

Non è un caso che, come a premiare la resistenza di questa sorta di riserva, la Lonely Planet abbia collocato San Frediano tra i dieci quartieri più cool del mondo. In autunno, nel pieno dell’ondata d’interesse, Vanni l’ha raccontato in un articolo per «Rivista Studio».

La differenza con molte altre zone di Firenze, si legge, è che qui “ci vivono addirittura dei fiorentini, e vi sopravvivono, pensa un po’, botteghe volte a farli campare, invece che a campare sopra al turista”.

Se è vero che è possibile raccontare un luogo a partire da due o tre posti che ne rispecchiano l’anima, anche San Frediano ha i suoi “poli del vero” che lo definiscono. E per Vanni questi poli sono tre.

La Cité

Proprio dalle radici politiche del quartiere ha origine questo locale, aperto nel 2007 con l’intento di consegnare alla gente della zona un nuovo spazio culturale. Vanni qui è di casa, tanto che usufruiamo anche noi del “prezzo scrittori” con cui da queste parti lo concupiscono. Ordiniamo birre e pastis, raggiungiamo il soppalco in legno e finalmente cominciamo a parlare di libri, idee e montaggi letterari. Proviamo a contenere Vanni entro uno schema temporale che segua un ordine cronologico, così cominciamo dai Personaggi precari (Voland), ma presto diventa impossibile arginare gli sconfinamenti e allora ci lasciamo trasportare dal suo flusso, che a mettere a posto ci penseremo poi.

La Cité

Siamo nel 2004, tutto comincia con un blog e un’idea di fondo: selezionare una frase da un libro e dirigerla da un’altra parte, aprendo squarci di vite senza andare oltre la forma fulminea del frammento. Inizialmente si tratta di prendere in prestito la letteratura degli altri per costruire dei bozzetti; quando poi, dopo qualche anno, il campionario è ormai vastissimo, diventa necessario un lavoro di sfrondatura e ordine. All’accumulo cronologico si sostituisce così una composizione per analogie, che tenga conto della dimensione esistenziale e dell’alternanza delle forme, in funzione dell’armonia del macrotesto. E adesso, dopo più di dieci anni?

In realtà coi personaggi precari potrei andare avanti all’infinito. Mi basta incontrare un volto particolare per strada o sentire un’espressione caratterizzante: quello stimolo si sedimenta e mi ronza intorno per giorni, da lì all’idea di farne un altro il passo è breve, ormai è quasi un riflesso pavloviano.

La forza straordinaria di questo esperimento è data dalla varietà delle voci e dal tipo di precarietà che Vanni vuole portare in superficie: come ha scritto Raoul Bruni nella bella postfazione all’ultima edizione (pubblicata da Voland nel 2017), si tratta della precarietà come “categoria esistenziale e psicologica, una forma, molto più che un contenuto”. Da qui il travaso che restituisce una fisica del precariato attraverso il frammento come genere letterario: dialoghi, appunti, pagine di diario, identikit, flash. Ma non è solo una questione di generi, a variare sono anche il punto di vista e il tono: in prima o in terza persona, introspettivo o esterno, descrittivo o lirico. Il risultato, leggendo, è all’incirca questo:

Per il loro tratto ricorsivo, i personaggi precari accompagnano tutta la produzione letteraria di Vanni; per chi lo legge segnano il punto d’inizio della sua carriera da scrittore, anche se a sentir lui l’anno di svolta arriva nel 2008, quando dà alle stampe Gli interessi in comune (Feltrinelli).

Prima del 2008 mi ero formato prevalentemente sui grandi romanzi francesi e russi dell’Ottocento, sulla poesia inglese e francese dello stesso secolo e sui romanzieri americani del secondo Novecento. Per noi i primi volevano dire formazione, i secondi invece erano il modello da seguire. Alcuni italiani li avevo anche letti bene, Moravia, Calvino, Manganelli, ma i modelli stavano altrove. Sono sincero, fino al 2008 non sapevo neanche cosa ci fosse di contemporaneo in Italia: credevo fosse tutta robaccia. Poi vengo invitato a Cuneo per leggere un testo, lì c’è un festival che si chiama Scrittorincittà. Compro tre libri dal bookshop dell’evento, due editi quell’anno, l’altro appena ripubblicato in economica: Il tempo materiale di Giorgio Vasta, Ultimo parallelo di Filippo Tuena e Puerto Plata Market di Aldo Nove. Li ho letti e mi sono detto «Guarda, ero proprio un coglione!». Da quel momento la mia prospettiva sulla narrativa italiana contemporanea è cambiata del tutto.

Trattoria Sabatino

È presto per mangiare, ma seguiamo il “bioritmo dello scrittore”. Ci aspetta una cena in uno degli ultimi avamposti ancora incontaminati della città. A qualche centinaio di metri dalla Cité, la Trattoria Sabatino si nasconde agli occhi del passante poco attento. Ancora una volta ci bastano pochi secondi per capire che per Vanni questi luoghi sono routine: proprietaria gioviale, menu battuto a macchina, arredamento da tipica trattoria anni Settanta. Aggiungeteci l’esclamazione “I’ Santoni!”, con tutte le aspirazioni fiorentine del caso, e avrete completato il quadro.

Vino, radio e ritratti

Ci facciamo conquistare dalla pappa al pomodoro, dal pollo ripieno con patate al forno e dallo steccato di vitello. A bocca piena riprendiamo le fila del discorso letterario e, saltata ormai ogni pretesa di linearità temporale, ci concentriamo sul binomio di narrazioni ibride uscite per la collana Solaris di Laterza: Muro di casse (2015) e La stanza profonda (2017). Non può non balzare all’occhio, ripercorrendo per intero la sua produzione, il fatto che Vanni sia tutto il contrario rispetto al classico autore da catalogo: prima di radicarsi sul doppio canale Laterza — Mondadori, tra il 2007 e oggi ha pubblicato con sette case editrici diverse. Non si tratta tanto di nomadismo; questo dato, piuttosto, mette in luce una cifra singolare: è un autore di romanzi e di racconti, ma anche di saggi, libri fantasy e forme ibride.

Muro di casse e La stanza profonda mettono al centro fenomeni entrambi rizomatici: la sottocultura rave da una parte e i giochi di ruolo dall’altra. Sono realtà che ho vissuto in prima persona e che non è possibile sistematizzare in categorie fisse. L’approccio è simile, poiché ogni singola manifestazione del fenomeno traccia una linea potenzialmente storicizzabile: così come nei rave è impossibile ridurre il tutto alla sola qualità della musica (mentre è chiaro che se parliamo di rock possiamo dire, che so, che i Rolling Stones sono più rilevanti della Bandabardò), allo stesso tempo in Dungeons & Dragons non si può sapere chi è il miglior master o il miglior gruppo di giocatori, anzi sarebbe una domanda priva di senso.

In tutti e due i casi, ci pare di capire, ciò che conta è restituire l’idea di un’esperienza collettiva in un territorio rimappato dalla letteratura. L’evento, che sia un rave o una campagna di D&D, è raccontato in modo orizzontale e in tempo reale, lontano da tentativi di storicizzazione gerarchica.

In un periodo di forte accelerazione dei tempi, di cambi di direzione e di significato estremamente veloci, la coralità è l’unico punto di vista che mi sembra efficace.

Gli facciamo notare che l’aggettivo “condiviso” ritorna ricorsivamente ne La stanza profonda (mondo condiviso, segreto condiviso, realtà condivisa, mente condivisa) e che il carattere corale non investe solo il contenuto ma anche la forma: Personaggi precari ne rappresenta l’esempio più esibito, ma pure un testo come Se fossi fuoco arderei Firenze si fonda sulla pluralità delle voci narranti.
Allora arriva il momento di parlare di quel magnifico librino pubblicato nel 2011 nei Contromano di Laterza.
Se fossi fuoco arderei Firenze si inserisce in un progetto editoriale a cavallo tra autofiction, letteratura di viaggio e memoir. L’intento è quello di far raccontare a ciascuno scrittore la propria città di riferimento. Tra quelli in catalogo, il libro di Vanni è il più romanzo di tutti.

La storia di Se fossi fuoco arderei Firenze è piuttosto rocambolesca. Quando mi è stato proposto, in un primo momento ho pensato di adeguarmi al trend della collana. Dopo una prima stesura poco fortunata (a Laterza erano tornati a darmi del lei!) ho capito che quella modalità di scrittura non era la mia e ho deciso di prendere un’altra strada, quella che conosco e pratico, ovvero il romanzo. Di tutti i miei libri è il meno pianificato, proprio perché avevo poco tempo prima della consegna. Ma anche qui, in realtà, la struttura ha un ruolo centrale.

Sì, perché la chiave di volta è il passaggio di testimone: Firenze è raccontata attraverso le storie di ventitré personaggi, ognuno dei quali è introdotto dal precedente e introduce quello che segue. Come se non bastasse, in quello che Vanni definisce un “sistema parabolico molto equilibrato”, il protagonista di una storia già esaurita può ritornare anche come comparsa.

Nel disegno complessivo, l’inizio temporale del libro non esiste: l’ultimo episodio è l’innesco del primo, come in un anello. La città che volevo mostrare è tonda, si guarda l’ombelico in uno stato di eterno non tempo dal tramonto del Rinascimento. È questo il vero dramma di Firenze.

Ripensiamo all’alberghetto, a LoveFlorence e alla sua laconicità. E anche le fiumane fragorose che a migliaia, ogni giorno, schiacciano il basolato del centro adesso ci sembrano più a fuoco, destinate, consapevoli o meno, a reiterare un meccanismo consunto e logorante che viene da molto lontano. La carta dei dolci ci riporta alla realtà: scegliamo la torta alla ricotta, quella al limone e, immancabili, dei cantuccini col vin santo, che da certi schemi in fondo non riusciamo a smarcarci neppure noi.

Il Torrino di Santa Rosa

Paghiamo il conto, vergognosamente basso, e pochi passi dopo ci affacciamo sull’Arno. Non siamo perfettamente in grado di spiegare cosa sia il Torrino. Nella classifica dei poli del vero, però, vince a mani basse. Circolo culturale all’aperto e in riva al fiume, in estate sembra che l’intero quartiere ci si riversi dentro. Sporgersi al bancone è una mezza impresa, ma in compenso di turisti neanche l’ombra. Nella routine di Vanni, questo è il posto deputato alla scrittura serale, lo stomaco già acquietato dal trattamento Sabatino. C’è un clima da Festa dell’Unità, con le bandiere rosse della Fiom CGIL Toscana appese alla bell’e meglio che si specchiano nelle acque sporche dell’Arno. L’altoparlante che scandisce gli arrivi delle ordinazioni, il vino rosso o la birra nei bicchieri rigorosamente di plastica, il vociare chiassoso che copre le conversazioni dei tavoli vicini e rende più intima la nostra.

Chiacchiere con Vanni Santoni

E il tu di Muro di Casse e de La stanza profonda da dove viene?, domandiamo a Vanni. L’uso della seconda persona è piuttosto insolito. Ci risponde che, nel caso de La stanza profonda, è un esito naturale, dal momento che il dungeon master si rivolge ai giocatori con il voi, e anche il librogame — a suo dire la trasposizione letteraria (e un filo masturbatoria) dei giochi di ruolo — usa il tu. Ma la chiave di lettura è duplice:

Siccome questo è un libro basato sullo scavo della memoria (un meccanismo iniziale proustiano in cui il protagonista scende nella stanza e vede le vecchie vestigia del gioco che lo riportano indietro nel tempo) è inevitabile che abbia pensato al me stesso di una volta, quello che giocava a Dungeons & Dragons. Quando ti confronti con il tuo io di vent’anni prima, però, trovi un’altra persona. C’è uno scollamento, e se gli parli devi usare il tu. Ad esempio, quando ho scritto Gli Interessi in Comune, Iacopo Gori era nato proprio come un mio alter ego, un mio Zuckerman. Poi l’ho ripreso in mano per Muro di casse immaginandolo invecchiato di dieci anni ed era a tutti gli effetti qualcun altro. In Muro di casse, poi, entrano in gioco anche altri fattori. Il motto dei rave è “You are the party”, che non è solo un monito al rispetto e alla “presabbene”, ma anche e soprattutto un reminder della totale orizzontalità del fenomeno, della parità e interscambiabilità tra dj, organizzatori, pubblico: si torna al discorso sulla collettività come dovere morale.

Schemini come il sistema solare

A questo punto la discussione si sposta sul tema dell’io autoriale e della progettualità, sul macro-disegno che, ora ci è chiaro, abbraccia tutta la sua produzione. Vanni in testa ha uno schema: prende il nostro quaderno degli appunti e inizia a disegnarci sopra. Il risultato è complesso, una costellazione con un sole, dei pianeti e persino qualche satellite. È la riproduzione grafica della prima fase della sua carriera e, soprattutto, dei fili che connettono ogni suo libro. Il corpo irradiante è Gli interessi in comune, che Vanni definisce la sua “opera-nucleo-sole” e che, paradossalmente, ha assunto le proporzioni di un piccolo culto — ci sono stati casi di furti del volume nelle biblioteche pubbliche e casi di “samizdat”, ossia edizioni pirata realizzate direttamente dai lettori in tipografia — perché introvabile, l’unico tra i suoi romanzi a non essere più stampato.
A Vanni insomma interessa la continuità, l’idea di macronarrazione ( la stessa che è alla base dei fumetti Marvel, per esempio) senza che però se ne percepisca la forzatura. Il suo progetto è costruire forme autonome che compongono un quadro generale. I legami tra le opere possono essere principalmente di tre tipi: la presenza di un personaggio, per esempio il Mella de Gli interessi in comune che ritorna ne L’impero del sogno; la ricorsività tematica, come la dinamica città-provincia che fa da sfondo a Se fossi fuoco e a Gli interessi in comune; infine il dialogo tra due strutture narrative, che in alcuni casi è davvero raffinato:

In territorio nemico, l’esperimento di Scrittura Industriale Collettiva che è uscito nel 2013, può essere collegato ai Personaggi Precari con un’inversione: nel primo caso i personaggi si moltiplicano negli autori, nel secondo è l’autore a moltiplicarsi in una miriade di personaggi.

Per Vanni l’aspetto macrostrutturale è così fondante che per approfondirlo ci trasporta nell’America della beat generation — sebbene l’altoparlante, con il suo ripetuto “Consuelo tavolo 3, tavolo 3 Consuelo”, ce la metta tutta per tenerci ancorati al qui ed ora:

A me le cose troppo disorganiche non piacciono. Prendi Burroughs, Pasto nudo. Confrontalo con gli altri libri in cut-up dello stesso periodo: La macchina morbida, Il biglietto che esplose, Nova Express. Sono libri simili, spesso con un materiale di partenza comune. Ci ritrovi dei motivi presenti in Pasto nudo e risviluppati in altre direzioni, come dei moduli che ritornano. Come mai però Pasto nudo è il migliore? Perché l’hanno rimesso in ordine Ginsberg e Kerouac, incartonati quanto Burroughs ma molto più organici, che su quella materia grezza hanno applicato dei principi di ritmo e simmetria.

Arrivati qui Vanni mette in piedi una similitudine di quelle da tenersi forte.

Nel ’66, quando a Firenze c’è stata l’alluvione, tra tutte le opere danneggiate c’era anche il Cristo di Cimabue. Cosa fai in quel caso, con un’opera del genere? Invece di ridipingerlo com’era, di fatto creando un falso, l’equipe di restauro decide di applicare un mélange, un pattern pixelato, una campionatura di tratti finissimi che servono solo a collegare le zone superstiti. Il risultato qual è? Che il mezzo volto non è stato riprodotto grossolanamente, e tu che lo osservi cogli l’impressione di ciò che c’era. Ma è chiaro che non hai più il Cristo di Cimabue. Ecco, rispetto a Pasto nudo, gli altri testi di Burroughs di quel periodo sembrano un po’ questo: dei dipinti che stanno insieme con un pattern, troppo cut-upizzati, e alla fine non vogliono dire più niente.

È sera inoltrata, il circolo va gradualmente svuotandosi. Sbaracchiamo tutto e torniamo verso il centro. Sarà che camminando continuiamo a parlare di letteratura, sarà che quel nocciolo di autenticità del Torrino ci resta un po’ nelle ossa, ma anche la Firenze più centrale sembra essersi ridimensionata — le fila di auto, i locali, le mille luci, sì, ma senza il fasto ostentato del pomeriggio. Vanni recupera la sua bici e ci dà appuntamento al giorno dopo, noi invece bighelloniamo ancora un po’, in uno stato di sospensione. E poi, per un caso fortuito che forse fortuito non è, incontriamo qualche amico torinese in città per un concerto, e finiamo per ritrovarci seduti ai piedi di Santa Maria del Fiore. Ora è davvero tutto fermo, la fiumana di turisti è scomparsa, per assurdo ricreiamo in Piazza del Duomo la stessa atmosfera della nostra ben più umile piazza Santa Giulia. D’un tratto, poi, ci sfilano davanti alcune figure fantasmatiche in abito religioso, che si disperdono nella notte fiorentina. Lì per lì raggiungiamo il massimo dello straniamento, ma a posteriori scopriremo che si trattava soltanto della celebrazione eucaristica per la solennità del Corpus Domini. Altro che Sorrentino, era un semplice gruppo di fedeli che se ne tornava a casa.

Brunelleschi e dintorni

La mattina dopo incontriamo Vanni sul tardi, nel chiostro della Biblioteca di Studi Umanistici in piazza Brunelleschi. Quando arriviamo capiamo che è lì da un po’ e che sta scrivendo. Per chiudere in pace il paragrafo, ci suggerisce un’esplorazione dell’omonimo corridoio e del chiostro di Levante.

Scrivere

Al lettore più attento non sarà passato inosservato un dettaglio. Nello schema che Vanni ci ha disegnato al Torrino c’è un titolo ancora sconosciuto: I fratelli Michelangelo. Questo è il nome provvisorio della sua prossima uscita, una storia che parla di ritorni a casa e dinamiche familiari messe a reagire col suo immaginario straripante. Nelle intenzioni di Vanni, e lo si capisce bene anche dalla mappa, I fratelli Michelangelo non sarà un libro qualsiasi, ma darà il la a una nuova fase della sua carriera, una costellazione che, nel riferimento grafico, si sviluppa a destra di quella precedente.
Quando Vanni ci raggiunge nel chiostro battiamo subito sul nuovo libro. I fratelli Michelangelo come I fratelli Karamazov?

Ma figuratevi, altrimenti qui si inizia a ruzzare. Ruzzare, sì, cioè scherzare, fare teatro: tecnicamente è il gioco dei cuccioli di gatto, una sorta di simulazione del combattimento. Solo i cialtroni sono davvero convinti di potersi paragonare ai grandi del passato. Anche uno che poi si è rivelato a sua volta un gigante, come Roberto Bolaño, aveva una sconfinata reverenza per autori che a posteriori non riteniamo grandi quanto lui. Se è un meccanismo malato? No, al contrario, mi sembra una cosa sana: chi lavora seriamente deve sempre pensarsi al ribasso.

E il confronto con i modelli, con la Letteratura, il canone e i classici? Ti fa paura?, gli chiediamo.

No, credo anche di poterci lavorare; quando si scrive, del resto, un rapporto con il canone c’è sempre, che lo si voglia o meno. L’importante è avere il senso delle proporzioni. Ne L’impero del sogno c’è una pagina in cui smonto L’Aleph di Borges riassemblandolo in un secondo momento con dei pezzi miei. Ma si tratta di intertestualità, oltre che ovviamente di un omaggio: utilizzo parti di Borges come fossero «moduli» narrativi; ovviamente per farlo servono un po’ di esperienza e abilità, ma se pensassi di essere, solo per questo, assimilabile in qualche modo a Borges, sarei un coglione.

Fiaschetteria La Mescita

È l’ora di pranzo — si sarà capito, tra i motivi di questa sortita fiorentina quello enogastronomico la fa da padrone — così giriamo l’angolo e ci ritroviamo alla Mescita, uno storico bugigattolo in via degli Alfani. Proviamo la panzanella della casa, per stare leggeri. Nel frattempo, sfogliamo con Vanni la cartellina dedicata alla lavorazione de L’Impero del sogno (uscito nel novembre 2017 per Mondadori). Ne ha una per romanzo, è l’insieme di schemi, appunti, linee narrative, crash test su proporzioni ed equilibrio da cui poi nasce l’ossatura del racconto. L’officina dello scrittore con tanto di attrezzi del mestiere.

Appunti de L’impero del sogno

E poi, quando iniziamo a intravedere il termine di questa nostra avventura, torniamo sempre lì, a parlare di Firenze. Ne Gli interessi in comune i ragazzi del Valdarno guardano alla città come se fosse una grande capitale e avesse in sé i prodromi di una svolta esistenziale. Quando la raggiungono, però, c’è lo scacco: scoprono che Firenze è provincia tanto quanto lo sono i loro paesi, che è tempo sospeso e nostalgia vittimistica per un passato che non c’è più.

Questa è una città in cui si gira a vuoto, tanto che per me e per la mia generazione la frontiera, quella vera, è sempre stata l’estero. Io vengo da Montevarchi, e anche lì incubano gli stessi germi. Ma le sirene arrivavano anzitutto dall’estero, anche in furgone: in Muro di casse racconto, ad esempio, lo storico teknival in Pratomagno del 2004, organizzato sulle montagne tra Firenze e Arezzo.

In questo excursus montevarchino, di cui Vanni parla in termini di archeologia industriale, scopriamo persino l’esistenza di una tramvia che negli anni Trenta collegava Montevarchi, fiore all’occhiello nel mercato delle pelli, ai paesi limitrofi: San Giovanni, Terranuova, Levane.

Oggi tutt’al più è un dormitorio, con dei collegamenti ferroviari sempre più radi, isolata nella sua depressione post-industriale.

Riflessi storici

Ci teniamo il caffè per un’ultima tappa, lo storico Robiglio di via dei Servi. Per la prima volta dall’inizio di questa nostra visita, abbiamo l’impressione di trovarci in un luogo che con Vanni c’entra poco: marmi, specchi, camerieri ossequiosi, signore della Firenze bene che cercano riparo dal caldo. E il significato di questo posto, Vanni?

Uno dei migliori caffè che puoi trovare in centro a Firenze.

Firenze, sempre lei. Firenze di cui solo qualche minuto prima, a pranzo, Vanni ci ha consegnato l’epigramma definitivo:

Firenze è un tumore gigantesco con parti di tessuto sano.

Ecco, per noi che nella letteratura italiana di questi anni riponiamo non poca fiducia, è confortante che in giro ci siano autori ambiziosi che non rifiutano il discorso critico e che badano alla costruzione di una propria poetica: brandelli di tessuto sano, per l’appunto, in un panorama che, pur non essendo proprio un tumore, ha vissuto tempi più gloriosi. Usciamo, convenevoli, saluti.
Vanni, la cosa bella è che tu ci credi davvero.

Io ci credo, ma di brutto. Non vi preoccupate. Ognuno darà i suoi giudizi, ma nessuno potrà dire «lo faceva per scherzo». No no, lo faccio seriamente!.

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