Oltre le sabbie mobili, di Veronica Raimo

“Facevo le capriole sul letto di mia madre, le lenzuola si appiccicavano alle gambe, il suo sudore sembrava ancora tiepido e vivo, ma erano passate settimane”

The Catcher
The Catcher
9 min readJul 6, 2018

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(Illustrazione di Giovanni Gastaldi)

Leggenda vuole che Frankenstein venisse concepito in una villa svizzera, due anni prima della pubblicazione effettiva, durante una notte in cui George Byron, John Polidori, Percy Bysshe Shelley e Mary Wollstonecraft si sfidarono a raccontarsi storie di fantasmi. E se avvenisse oggi? È avvenuto. Durante il Salone Internazionale del Libro, alla Casa del Pingone, quattro giovani scrittori (Danilo Soscia, Veronica Raimo, Sacha Naspini e Vincenzo Latronico) hanno ripetuto la stessa sfida.

“Che vuoi fare da grande?” Mi chiedeva spesso mia madre.
Avevo nove anni e non mi piaceva niente. Alzavo le spalle. Lei si stufava di aspettare una risposta e tornava a letto. O dimenticava proprio di avermi chiesto qualcosa, mi lasciava lì a riflettere e spariva in giardino. Le piaceva uscire quando pioveva: si innaffiava per ore e tornava ricoperta di fango fino ai capelli, una statua di argilla e lumache. Quando era così sporca, voleva sempre abbracciarmi. Io scappavo, lei mi rincorreva per casa. “Mamma, attenta agli spigoli” le dicevo. Sbatteva dappertutto. Poi si stufava e tornava a letto.

“Voglio fare l’astronauta” dissi una volta per farla contenta. Però non era contenta.
“Non hai paura dello spazio infinito?” mi chiese. “Non hai paura di restare per sempre a vagare nel vuoto, nella solitudine cosmica, abbandonato a te stesso e così lontano da tutto?”
Fissai il vuoto tra noi due, il vuoto tra i mobili, era tutto lo spazio che avevo a disposizione per immaginarne uno più grande. Alzai le spalle.
Lei si fece una gran risata e tornò a letto.

Quando rideva sembrava ancora più triste, i denti ancora più neri: le pulsavano nella bocca come dovessero staccarsi e schizzare via.

“Perché vuoi fare l’astronauta?” mi chiese qualche giorno dopo.
“Non lo so, era tanto per dire una cosa…” risposi sincero.
Pescò un mozzicone dal posacenere e gli diede fuoco, fece una boccata pestilenziale. “Non sarebbe bello, però?” farfugliò sognante, avvolta nel fumo di ciglia bruciate. “Partire, lasciare tutti, la casa, la scuola, gli amici, la mamma, il gatto…”
“Non ce l’abbiamo il gatto” commentai.
“È vero, e però non sarebbe bello abbandonare pure il gatto?”

Qualche giorno dopo mi regalò un gatto. Credo l’avesse raccattato per strada, era già vecchio, con l’aria ottusa e indolente. Non gli andava di giocare, e neppure a me. Lo avevo chiamato “Collo” perché ne sembrava sprovvisto.

“Basta!” sbottò mia madre a una settimana dall’arrivo di Collo. “Non ce la faccio più con questo gatto!”
Sprofondata nel letto, gridò attraverso i muri, l’eco di estenuazione che penetrava il cartongesso.
Poi si trascinò fuori dalla stanza e mi raggiunse in cucina.
“Ci ho provato con tutta me stessa” mi disse. “Ma devo abbandonare il gatto”.
“Okay” dissi io.
Si avvicinò e mi fece una carezza sulla testa, quasi fossi io il gatto.
“Tesorino…” mi blandì con la voce zuccherosa, come avesse ingollato un flacone di sciroppo per la tosse. “Hai capito cosa ti sto dicendo?”
Provai a guardare Collo in cerca di un appiglio, ma quello era imperscrutabile nella sua ottusità felina.
“Non posso più restare qui” disse. Ravanò tra i mozziconi, erano diventati troppo piccoli, non c’era più niente che potesse afferrare tra due dita.
“Me ne vado” dichiarò.

“Parti per lo spazio?” le chiesi per sembrare arguto.

Allora scoppiò di nuovo nella sua risata. Aveva esagerato stavolta, la testa buttata all’indietro, i polmoni che respingevano l’aria. Crollò a terra dalle risate. Si mise a battere i pugni sul pavimento. Andai a prenderle un bicchiere d’acqua, ma le sue mani si erano fatte d’aria e il bicchiere andò in frantumi.
“Sono così stanca” gemé, “mi sono riposata per troppo tempo”. Collo si mise a leccare l’acqua sparsa a terra.
“Mamma, dove vai?” provai di nuovo.
“Dove sono sempre stata” disse, “oltre le sabbie mobili”.

Quella sera mi fece provare i suoi tranquillanti. La mattina venne a svegliarmi Collo. Aveva fame e mia madre non c’era più. Sul tavolo in cucina aveva lasciato la colazione pronta e una scatola di croccantini. Le formiche si erano svegliate prima di me, penetrate sotto la stagnola che avvolgeva una fetta già imburrata.
Arrivai a scuola in ritardo e illanguidito dai tranquillanti. Per punizione la maestra mi spedì all’ultimo banco. Era il mio banco preferito, potevo fissare le nuche delle bambine, la loro coda di cavallo che oscillava ipnotica, anche se loro stavano ferme.
Era il giorno del tema in classe. “Che cosa vuoi fare da grande?” recitava la traccia. “Voglio diventare un palombaro delle sabbie mobili” scrissi.

Alla maestra il mio tema piacque molto, era una di quelle fissate con la fantasia, come solo gli adulti sanno essere.

“Quanta immaginazione ha questo bambino!” esclamò entusiasta di fronte alla classe. Noi però eravamo bambini, e la fantasia era una cosa da scemi. La maestra cominciò a leggere il tema ad alta voce, i miei compagni si girarono verso di me guardandomi come fossi un ritardato.

Tornai a casa, e mia madre non era tornata. Seguitai a tornare a casa per giorni e mia madre seguitò a non tornare. Collo mi aspettava per i suoi croccantini, poi si trascinava fiacco fuori dalla porta-finestra e spariva in giardino. Io mangiavo scatolette di tonno e succhiavo dadi da cucina. Facevo le capriole sul letto di mia madre, le lenzuola si appiccicavano alle gambe, il suo sudore sembrava ancora tiepido e vivo, ma erano passate settimane. I muri, silenziosi senza la sua risata, rilassavano il tempo.

Si formavano pensieri e si squassavano, non restava niente dentro la testa, solo girini in uno stagno vuoto: era quello lo spazio infinito? Una pozza d’acqua torbida e muta. Mi sentivo ancora più solo di quei pensieri.

“Potrei organizzare una festa” meditai un pomeriggio. Com’è che si dice: quando il gatto non c’è, i topi ballano… In realtà il gatto c’era, ma era troppo pigro. La festa si rivelò un fallimento. I topi non ballarono. Non c’erano bibite, non c’erano nemmeno le patatine. Solo conserve di olive, alici, sottaceti e fagioli. Agli altri bambini non piaceva succhiare i dadi. Mi aggiravo dentro la casa piena, inciampavo tra gli zainetti, tra le facce smorfiose, seguivo il dondolio dei capelli. Mi acquattai dietro una ragazzina che mi piaceva, lei si voltò schiaffeggiandomi con la sua coda bionda: “Questa casa puzza” mi disse. Non potevo darle torto. Era l’odore di mia madre e ora era diventato l’odore della sua assenza.
I miei compagni di classe passarono metà della festa ad aspettare in giardino che i loro genitori venissero a portarli via di lì. Un esercito di giacche a vento e bomberini, le mani in tasca, lo sguardo e la visiera puntati oltre il cancello, le scarpe da ginnastica che rimestavano nel fango. Collo si insinuava tra le loro gambe senza strusciarsi, si sentiva invaso, mirava a disperdere l’esercito.

“Non c’era nemmeno la Fanta” sibilarono velenosi i bambini rivolti alle prime macchine oltre il cancello, felici di allungare la mano verso quegli uomini e quelle donne che li avevano generati.

“Ma dove sono i tuoi genitori?” mi chiese una delle madri, una donna di nuovo gravida con un grosso ovale che le premeva sotto il pastrano viola. Aveva i capelli tinti male, un solco bianco che le divideva la testa a metà.
“Papà mi ha abbandonato quando sono nato” dissi per mostrarmi all’altezza dei suoi crucci, “mamma è andata via”.
“E dove è andata?”
“Oltre le sabbie mobili” risposi.

Fu così che il giorno dopo fui convocato dalla preside. Era la stanza della deportazione. Sapevo che i miei compagni erano assiepati là fuori a origliare, fintamente dissuasi dalla bidella, ancora più curiosa di loro. Nella stanza c’era anche la maestra.
“Ci è stato riferito un fatto peculiare” disse la preside.
“Che significa peculiare?” chiesi.
La maestra guardò la preside imbarazzata: “Non ci siamo ancora arrivati col programma” tentò di giustificarsi.
“Ci hanno riferito che tua madre se n’è andata” continuò la preside senza spiegarmi cosa volesse dire peculiare.
“Sì” confermai.
“E dove è andata?” chiese.
“Oltre le sabbie mobili” risposi.
La maestra deglutì. “Non esistono le sabbie mobili” disse sfoderando il lume della ragione come un paio di orecchini scintillanti. Le era bastata l’ombra della preside per farla ritrattare sulla fantasia. Non era mai stata una guerriera.

Allora furono aperte le danze. Arrivarono gli investigatori. Fu vagliato ogni ramo di quercia alla ricerca di un cappio, fu dragato il fiume alla ricerca di un masso. Furono sollevate le buste dai mendicanti per strada, le coperte dalle brandine degli ospedali. Tutti i polsi erano integri, tutti i volti non erano quello di mia madre. La maestra mi portò a casa con sé. Anche lei aveva un figlio.

Non diventammo grandi amici: era pur sempre il figlio della maestra.

Il pomeriggio, però, tornavo a casa mia per dare i croccantini a Collo e aspettare mia madre. “È giusto così” spiegò la psicologa alla maestra. Collo, già vecchio, sembrava una creatura millenaria, ruminava il cibo e si trascinava in giardino come una grossa blatta canuta. Lo vedevo a rimestare il terreno, scavare una buca e accovacciarsi là dentro per ore. Un pomeriggio lo seguii fino alla buca, dal fango spuntava fuori solo la sua coda smagrita, un filo di pelo grigio che sbatacchiava contro il nulla. Il resto del corpo era interrato, mi chinai per aiutarlo e di fronte a me vidi un mulinello limaccioso vorticare nella terra. Aveva un colore più chiaro, come di zabaione rimescolato nel cestello del gelataio. Provai a tirare Collo per la coda, udii il suo dolente miagolio emergere dalle viscere, e poi fu la mia mano a essere risucchiata dal mulinello, trascinata nella terra cremosa. Affondai, come un chicco in quella massa verminosa di uovo. Precipitai. Nella terra piena e molle, il corpo a piombo inghiottito verso il basso. Il fango mi entrava nel naso, in bocca, scolpiva il mio corpo, poi sfarinava in una polvere sottile, una sabbia che trasudava un odore familiare, l’odore del letto di mia madre. Arrivai fino in fondo, a peso morto, attraverso il buco.

Fu un altro letto che mi accolse. Mia madre distesa tra lenzuola fresche di mughetto, poco più che adolescente, avvinghiata al corpo di un ragazzo.

Li spaventai a morte.
“E questo chi è?” gridò il ragazzo. Un bambino gli era appena caduto addosso dal soffitto.
Mia madre balzò dal letto, mi prese per mano e mi trascinò fuori dalla stanza. Seguii la sua coda di cavallo che mi imponeva il passo. Il suo collo lunghissimo, fiero. Mi portò in una cucina sconosciuta, aveva il sorriso di un’estasi appena interrotta, tutti i denti al loro posto, luminosi e bianchi.
“Che ci fai qui?” mi chiese piena di amore e distanza.
“Mamma…” bisbigliai.
Lei fluttuava per la stanza, gli spigoli si smussavano al passaggio.
“Tesorino” mi disse languida. “Perché sei venuto a cercarmi?”
“Mi mancavi” risposi.
Mi guardò con gli occhi dolci, tersi, il cuore aperto.
Di nuovo mi prese per mano portandomi verso la camera da letto. Restammo sull’uscio. Di fronte a noi c’era il ragazzo disteso di fianco che accarezzava il vuoto lasciato tra le lenzuola. Aveva il mio stesso naso, aveva il mio mento bucato. La mano di madre, morbida come cera, lasciò sgusciare le mie dita dalla stretta.
“Amo quel ragazzo” mi disse. “Lo amo con tutta me stessa, mi capisci?”

Annuii, sorrisi persino. Mia madre non sorrise: “Non posso permettere che diventi ancora tuo padre”.

Guardai mio padre, guardai il ragazzo che non lo sarebbe mai diventato.
“Sono felice, ti prego non rovinare questa felicità” mi disse mia madre, la ragazza che non lo sarebbe mai diventata.

Quando tornai in superficie, il giardino era circondato da uomini vestiti di bianco. Avevano i guanti e una mascherina sulla bocca. “Auto-tumulazione” diceva il referto. “Una donna si è sepolta viva nel giardino di casa” diceva il giornale. Io lessi tutto, ero così bravo a leggere, ero diventato il figlio della maestra.

Nel 2018, Veronica Raimo ha pubblicato il terzo romanzo, Miden (Mondadori), e coordinato la traduzione dell’antologia Le Visionarie (Nero Editions). I primi due erano Il dolore secondo Matteo (minimum fax, 2007) e Tutte le feste di domani (Rizzoli, 2013). Nel 2012 ha co-sceneggiato il film Bella addormentata, di Marco Bellocchio. In generale, si occupa di libri, cinema e musica per diverse testate e traduce romanzi e racconti dall’inglese.

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