Come sono diventata un’influencer (dell’IKEA)

Alice Serrone
The News Train
Published in
9 min readJun 25, 2020

Sono stata una coworker IKEA per quasi un anno.

Avevo appena concluso l’università e volevo prendermi una pausa dallo studio per cercare un lavoretto che mi permettesse di mettere qualcosa da parte. Sognavo da tempo un’auto tutta mia.

L’annuncio su Infojobs parlava di una posizione aperta come operatrice del reparto Food in un’azienda leader del settore arredamento. Pensai subito all’IKEA, ma non avevo idea di che cosa mi attendesse, se non le lunghe code della domenica al ristorante self-service.

Non potevo immaginare che quell'esperienza mi avrebbe trasformata in una vera e propria influencer del brand.

Ero così felice di quel lavoro e dell’atmosfera che si respirava in azienda, che ne parlavo costantemente ovunque e con chiunque, coinvolgendo chi mi ascoltava con quell'entusiasmo puro e genuino che solo i bambini — o gli influencer, appunto — sanno trasmettere quando raccontano qualcosa di cui vanno estremamente fieri.

Ancora adesso, quando penso all’IKEA e quell'avventura da coworker, non riesco a trattenere un sorriso sincero. Lo stesso che oggi mi spinge a scrivere questo testo per condividere le mie impressioni e raccontare quella che vorrei fosse la normalità in tutti i contesti lavorativi.

Il mio primissimo impatto con l’azienda avvenne un martedì di ottobre 2018. Dopo ben due chiacchierate preliminari con l’agenzia interinale, mi trovai finalmente nell'area dipendenti della filiale 456, a Collegno, in attesa di incontrare il mio futuro capo. La recruiter dell’agenzia mi aveva avvisata: “Non sarai da sola. È un posto di lavoro molto ambito, perciò verrà inserita all'interno di un gruppone di candidati e dovrai sostenere almeno altri due colloqui. Ti metteranno alla prova e molto probabilmente, prima del confronto individuale, dovrai partecipare a un gioco di ruolo con una ventina di estranei. È il loro modo di testare le tue soft-skill e il modo in cui interagisci con gli altri in situazioni stressanti e ricche di imprevisti”.

“Molto ambito”. Quattro colloqui e una mattinata di “giochi” per poter diventare una preparatrice seriale di piattini al salmone marinato e salsa Gravlax.

Mentre aspettavo nell'ansia il mio turno insieme ad altri ragazzi, passò una signora, una dipendente, che rispose al nostro saluto formale con una frase che non scorderò mai:

Ma quale salve. In questo posto ci si dice solo ciao e ci si dà sempre del tu. Perciò, ciao a tutti ragazzi e benvenuti!

Qualche giorno dopo ricevetti la chiamata: ce l’avevo fatta, mi avrebbero assunta! Inizialmente per tre mesi, con un CCNL di quinto livello e possibilità di proroga. Una proposta che non potevo rifiutare, viste le condizioni di lavoro a cui mi ero abituata operando in contesti analoghi.

Nella mia ingenuità, non immaginavo neanche che fosse possibile essere pagati per imparare. Le prime settimane furono una vera pacchia: non dovevo far altro che starmene comodamente seduta in Sala Balloon per seguire i vari corsi di formazione insieme agli altri neoassunti. Ci accolsero con un bellissimo documentario sull’azienda, da cui trasparivano i core values del brand la visione di Ingvard Kamprad, il fondatore. Le ragazze delle HR si premurarono di raccontarci la sua storia e lo spirito imprenditoriale con cui era riuscito a costruire il suo impero.

Capii subito che, indipendentemente dal ruolo che ognuno di noi avrebbe ricoperto, era indispensabile per l’azienda trasmetterci la stessa passione e ambizione di Ingvard, partito a soli 5 anni da un paesino della Svezia del Sud come venditore di fiammiferi ambulante.

Ingvard Kamprad

Ci diedero poi la possibilità di esplorare lo store insieme al responsabile della sicurezza interna, che ci mostrò i vari punti di fuga e le procedure da seguire in caso di emergenza. Ci volle un’intera mattinata per completare il tour, in quanto il punto vendita di Collegno è tra i più grandi d’Italia ed è gestito da quasi quattrocento coworker.

Al secondo piano, dedicato per metà all'area dipendenti, scoprimmo il Big Office, un gigantesco open space che ospita le postazioni dei reparti impiegatizi. Mi colpì soprattutto l’assenza di pareti divisorie e di distinzioni gerarchiche.

A colpo d’occhio era impossibile distinguere la scrivania dello store manager da quella dell’ultimo stagista arrivato: assoluta parità e trasparenza regnavano tra le poltrone girevoli.

Il giorno del mio ingresso al Food fu segnato dalla consegna della divisa di reparto, costituita da grembiule, cuffietta, polo, pantaloni ignifughi e un paio di calzature antinfortunistiche. Queste ultime, oltre a essere dotate di un particolare rivestimento impermeabile, avevano un elastico interno al posto dei lacci, per impedire alla sporcizia di infilarsi tra i fori. Quando le indossai però, mi accorsi subito che per il mio piede, estremamente magro e sottile, non andavano bene perché, per quanto provassi a stringerle, continuavano a sfilarsi via con fin troppa facilità. All'ufficio del personale mi dissero che, purtroppo, non era possibile utilizzare un modello diverso, ma che avrei potuto portarle da un calzolaio e farle modificare. L’azienda mi avrebbe naturalmente rimborsato la spesa.

Quella risposta mi rincuorò tantissimo: ero terrorizzata all'idea di dover trascorrere quei mesi trascinando il passo e rischiando costantemente di scivolare.

La mia piccola necessità era stata presa in considerazione: fin da subito mi sono sentita ascoltata, compresa e supportata.

Fra le cucine del self-service, trovai un team di colleghi gentili e disponibili, che mi spiegarono con pazienza le infinite mansioni di un’operatrice del Food. Una squadra collaudata e imbattibile, composta da persone con esperienze, religioni e culture molto diverse, ma che condividevano però lo stesso fortissimo spirito di appartenenza a quella divisa.

Anche i responsabili mi accolsero con il sorriso e con l’informalità tipica dei leader giovani. Mi aspettavo infatti di trovare un manipolo di manager vecchi e polverosi, riusciti a raggiungere quella posizione soltanto dopo una lunga carriera. Invece a capo del reparto c’erano solo under quaranta, freschi, dinamici e incredibilmente proattivi. Non appena dissi loro che, essendo senza macchina, avrei potuto avere qualche difficoltà con alcuni turni, si dimostrarono anche molto comprensivi. Mi vennero incontro nella pianificazione degli orari permettendomi, il più delle volte, di usufruire della navetta privata che l’azienda mette a disposizione dei clienti durante gli orari di apertura del negozio. Diventai presto amica degli autisti, ai quali mi bastava mostrare il badge per salire a bordo gratuitamente e arrivare a lavoro in pochi minuti.

Il reparto Food dell’IKEA comprende il bar, il ristorante self-service, il Bistrot e la Bottega Svedese. Ogni punto ristoro ha la sua squadra, ma a tutti viene sempre richiesta una grande flessibilità e la disponibilità a spostarsi altrove se serve.

Io fui inserita da subito al ristorante, dove ebbi la possibilità di mettermi in gioco sperimentando diversi ruoli. Era davvero impossibile annoiarsi: ogni giorno mi aspettavano un’attività e un orario diversi, a seconda del turno in cui ero stata inserita. Una volta mi occupavo del rifornimento delle vetrine, un’altra del servizio in linea, un’altra ancora della cassa.

La mansione che amavo di meno era sicuramente la preparazione dei panini per il bar: significava una sveglia all'alba per poter essere a lavoro già dalle sei. Però, anche quel turno aveva le sue chicche, come il rito della colazione coi cornetti caldi insieme ai colleghi della logistica e l’annuncio musicale dell’RDT alle nove e mezza. Già: ogni mattina, poco prima dell’apertura al pubblico, il Responsabile di Turno inaugurava la giornata scegliendo una canzone da trasmettere in filodiffusione per tutto il negozio, a cui seguivano poi i consigli, le nuove promozioni e il report dell’andamento delle vendite nei giorni precedenti.

Tutti i dipendenti venivano coinvolti e motivati con un ascolto collettivo delle percentuali di fatturato raggiunto rispetto al goal fissato. Un dato trasparente e sempre disponibile anche sulla rete interna dell’azienda.

Ero stata assunta con un part time misto, perciò i miei orari potevano variare in base alle esigenze del reparto. Alcuni giorni dovevo restare in negozio per l’intera giornata, altri solamente per quattro ore. Scoprii con piacere di avere diritto a una pausa pagata anche in quest’ultimo caso: un quarto d’ora di relax in cui potevo rifocillarmi con un buon caffè oppure un frutto offerti dall'azienda. Un trattamento di lusso, lontanissimo dalle sigarette aspirate in meno di un minuto quando facevo la cameriera in pizzeria.

Oltre alle macchinette del caffè gratuite, nell'area dipendenti c’era anche una grande mensa interna, dove i coworker potevano consumare un pasto completo spendendo solo pochi centesimi. Dopo pranzo, si aprivano poi i tornei di calciobalilla, in cui i top player di ogni squadra si divertivano a sfidarsi per la gloria del proprio reparto. I più scarsi, come me, potevano rilassarsi invece guardando la TV, leggendo un libro oppure chiacchierando fra i cuscini della Stanza Soffice.

Ricordo il periodo natalizio e quello pasquale come i più intensi e faticosi di tutta l’esperienza. Erano i mesi in cui il mio part time si trasformava in un full time, dato che mi veniva richiesto un gran numero di ore extra per poter gestire il maggiore afflusso di clienti.

Trascorsi tutte le feste con la mia nuova famiglia, affrontando con coraggio code infinite e orari di punta immersa nel caldo dei forni. Lavoravamo sodo, ci facevamo in quattro pur di servire tutti nel minor tempo possibile e soddisfare a pieno ogni singolo cliente. Lo spirito di squadra giocò un ruolo fondamentale e i risultati furono immediati. Non dimenticherò mai la soddisfazione che arrivò il giorno in cui lo store manager ci raggiunse in reparto per farci i complimenti di persona: eravamo riusciti a superare qualsiasi previsione e obiettivo di fatturato. Così come ricorderò sempre l’emozione della mattina dopo, quando trovammo ad accoglierci fuori dagli spogliatoi un enorme cartellone preparato dai nostri responsabili, per ringraziarci ancora una volta dello sforzo fatto. Un bel gesto da parte loro, che in quei giorni di difficoltà avevano abbandonato l’ufficio per indossare la cuffietta e darci concretamente una mano sul fronte.

Erano leader davvero in gamba, consapevoli dell’importanza dell’ascolto attivo e del coinvolgimento di tutti i membri del team nel processo decisionale delle novità. Periodicamente infatti, ognuno di noi veniva chiamato per una chiacchierata con la responsabile del personale, che ci dedicava un po’ del suo tempo solo per sottoporci alla domanda più bella del mondo:

Come stai?

In quell’occasione avevamo la possibilità di confidarci ed esprimerci, oltre che di proporre, se ne avevamo, nuove idee. Altre volte invece potevamo partecipare direttamente a veri e propri workshop e brainstorming creativi, come quelli attivati durante la Talent Focus Week, la settimana dell’anno dedicata alla crescita professionale e alle possibilità di carriera.

Il cartellone lasciato per noi dai responsabili

Ascolto, coinvolgimento, benessere, equilibrio, rispetto.

IKEA mi è rimasta davvero nel cuore e se mi avete seguita fin qui, avrete sicuramente capito il perché. Collaborare nella 456 di Collegno è stato come abitare per un po’ nella casa più grande e confortevole del mondo.

Da coworker, ho avuto la possibilità di conoscere il brand a fondo, di sposarne la mission e la vision e di rifletterne spontaneamente lo spirito e i valori. Diventare — e rimanere tuttora — un’influencer della mia azienda è stato un gioco da ragazzi, avvenuto in maniera del tutto naturale.

Ma non sono l’unica a essere così soddisfatta del proprio ambiente di lavoro. Come me ce ne sono tantissimi altri, non solo nelle filiali IKEA, ma in tutte quelle realtà, grandi e piccole, che hanno deciso di mettere al primo posto il sorriso dei propri dipendenti.

“Un lavoro non dovrebbe mai essere solo una fonte di sostentamento. Senza entusiasmo nel lavoro, perdiamo un terzo della nostra vita che niente e nessuno ci potrà mai restituire.”

Ingvard Kamprad — Testamento di un Commerciante di Mobili, 1976

Sembra fosse di Charles Darwin la citazione che dice il lavoro nobilita l’uomo, ma come può essere così se ai lavoratori spesso non viene riconosciuta proprio l’umanità? È vero, IKEA è una multinazionale gigantesca e con ingenti risorse, ma questa non può, e non deve, più essere una scusa.

In fondo, basta davvero poco per fare dei dipendenti gli influencer più credibili del proprio brand.

Alice Serrone

Ispirato alle tesi numero 11 e 12 del NewTrain Manifesto

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Alice Serrone
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"Some people never go crazy. What truly horrible lives they must lead."