Se si compra più di consumare, c’è moda.

Mattia Tresoldi
The News Train
Published in
5 min readNov 11, 2020
Shot dalla campagna della collezione sostenibile Off the Grid di Gucci

Leggere questo postulato di Roland Barthes nel 2020 non è confortante, dall’alto della montagna di rifiuti tessili su cui siamo seduti. Il sistema moda si basa sulla continua sostituzione dei beni: per essere sostenibili al 100% bisognerebbe smettere di produrre nuovi vestiti. Un’ insanabile contraddizione — nessun brand sarà quindi mai sostenibile, per davvero.

Condizione necessaria affinché ci sia moda è che si compri più di consumare. Se si comprasse il giusto, “solo ciò di cui si ha bisogno”, che è diventato un mantra della società pandemica, allora non ci sarebbe moda. Ma non è così semplice.

Dalla moda, non si può prescindere. Perché svolge una funzione sociale troppo importante: è una forma di linguaggio.

Ogni volta che indossiamo un vestito, connotiamo la nostra immagine, decidiamo come vogliamo apparire, se vogliamo distinguerci o se vogliamo mimetizzarci tra la folla. Vestendoci, comunichiamo agli altri con chi abbiamo cose in comune, e da chi ci differenziamo: è un atto identitario e individuale a cui non ci si sottrae, a meno che non stiamo indossando una divisa.

Magliette a €9,90

Se un qualsiasi rivenditore di fast-fashion presenta una collezione etica — o se invita al riciclo — sta facendo greenwashing. Professa l’importanza di ridurre l’impatto ambientale nonostante il suo stesso modello di business sia da quel punto di vista insostenibile. Zara produce tantissime, troppe, collezioni l’anno, perciò il cliente troverà qualcosa di nuovo a ogni sua visita in negozio. Troverà un capo che verrà utilizzato poco e gettato presto; dal prezzo basso, perché le fasi di produzione sono delocalizzate.

Ma la storia della fast-fashion, e dello sfruttamento nell’intera produzione dell’abbigliamento, ha radici lontane: già nell’Ottocento vestiti economici venivano realizzati in serie dietro basso compenso, per la classe media che non poteva permettersi di andare in sartoria.

Nel corso della seconda metà del secolo scorso vengono fondate le principali aziende di fast-fashion che conosciamo oggi. Il tempo che trascorre tra l’ideazione di un capo e la sua produzione si è accorciato per rispondere alla domanda di un pubblico ampio e globalizzato, andando a influenzare le logiche commerciali di tutti gli altri brand che hanno presentato sempre più collezioni all’anno. Così siamo arrivati alla situazione attuale, un mercato saturo, in cui l’ecosostenibilità è entrata a far parte del sistema di valori del cliente e i brand tentano di allinearsi senza avere ancora chiaro cosa sia a renderli sostenibili.

Lo show nel 2020

L’ecosostenibilità è stata tematizzata anche nel momento più atteso, quello in cui la visione del direttore creativo, l’identità di un brand e lo spirito dei tempi entrano in collisione ed esplodono in uno spettacolo: la sfilata.

Il setting dell’ultimo show Autunno Inverno di Balenciaga è stato un palazzetto dello sport, inondato, in cui gli schienali delle sedute in prima fila spuntano dall’acqua, che sulla superficie riflette immagini di catastrofi naturali.

Una distopia ambientale, dalla forte valenza profetica, già presente nella campagna: l’edizione speciale di un telegiornale sul dissesto idrogeologico e sui pedoni che si riappropriano delle strade. Questa visione nichilista, e di rassegnazione verso la questione ambientale è una declinazione ben diversa, ad esempio, dell’idea di sostenibilità spesso intesa come ritorno alla natura o come progettualità positiva per un pianeta migliore.

Digitalizzazione diffusa

Si sono susseguiti numerosi sforzi per trovare un’alternativa alle sfilate in presenza — Loewe è riuscito a portare una soluzione che conserva un’esperienza sensoriale: lo show in a box, una scatola che contiene l’intera sfilata: le immagini di ispirazione, un giradischi in cartone per ascoltare la colonna sonora e il cartamodello di un top della collezione. La maggior parte dei brand ha però optato per degli show phygital: sfilate pre-registrate, sfilate a porte chiuse in live-streaming, fashion film o dei lookbook in formato video. Un territorio inesplorato, che quest’anno ha trovato applicazioni come la videoart di Prada o la sfilata realizzata interamente in Computer Graphics da GCDS.

A giugno sembrava che l’onda del rinnovamento green avrebbe travolto e costretto a ripensare l’intero sistema, ora il sentiment è cambiato in favore della vecchia normalità. L’ultima settimana milanese è stata un’edizione “ibrida”, fortemente digitalizzata. L’intervista a Miuccia Prada e Raf Simons era in live anche su TikTok. Instagram è la piattaforma su cui si registrano le maggiori interazioni. Il digitale è il luogo dove i brand possono instaurare una conversazione con i diretti interessati in fatto di sostenibilità: la Gen Z.

Loewe via GQItalia

Sostenibilità e Gen Z

La generazione Z si rivela l’unica disponibile a pagare un prezzo più alto per un prodotto rispettoso dell’ambiente. È anche la generazione che compra più vestiti di seconda mano, online: il 90% degli utenti di Depop ha meno di 26 anni. Per questo motivo molti brand, tra cui Levi’s, si sono avventurati nel resell. Gucci, in una partnership con TheRealReal, ha creato un’esperienza d’acquisto volta a “soddisfare il desiderio di un modello sostenibile”. Pianta un albero per ogni capo usato che vende sulla piattaforma, fornendo al cliente un calcolo delle emissioni di CO2 e dei litri d’acqua risparmiati con l’acquisto. Ma alla fine, che cos’è a rendere un capo sostenibile?

via Business of Fashion

C’è chi per cui “sostenibile” significa durevole. Per altri significa prodotto da materiali di scarto, per altri ancora è sostenibile se è di seconda mano. Non c’è una definizione univoca e quindi, voilà, ecco che la sostenibilità si incarna in una borsa di pelle vegana di Stella McCartney piuttosto che in un cardigan vintage di Missoni. Purtroppo, nessuno vende vestiti che salveranno il pianeta, si vende un’idea di sostenibilità, declinata nei prodotti e nella comunicazione in maniera coerente al racconto della marca.

C’è qualcosa di ipocrita nel fare questo? Significa veicolare messaggi relativi al contemporaneo — significa fare moda.

Ispirato alla prima tesi del Newtrain Manifesto
Mattia Tresoldi

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Mattia Tresoldi
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