Ricucire con 3 R

Ridurre, riusare, riciclare: un fil rouge per storie di moda virtuose.

Luisa Zhou
The News Train
5 min readDec 28, 2020

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Ago, fili e forbici: basta poco per iniziare © Photo by Kelly Sikkema on Unsplash

Senza saperlo, i miei genitori sono stati i primi a insegnarmi i rudimenti dell’upcycling, il riutilizzo creativo di materiali di scarto. A furia di sentirmi dire “non lo buttare! Può ancora servire!”, ho imparato che tutto può avere una seconda vita, soprattutto nel mondo della moda. E allora gli abiti scuciti diventano tende, le magliette bucate grembiuli, i jeans vecchi strane borse alla Picasso, progettate da una bambina di dieci anni.

Purtroppo la mia carriera da sarta non è mai decollata, ma ho capito che le 3 R dell’economia circolare non sono poi così impraticabili: ridurre, riusare, riciclare.

C’è del genio

Moda circolare is the way

Se vogliamo parlare di sostenibilità e ricucire alcuni strappi, un buon punto di partenza potrebbe essere proprio questo.

Secondo il Report 2020 sulla moda consapevole di Lyst, la più grande piattaforma mondiale di fashion intelligence, si è registrato un aumento del 42% della query di ricerca “upcycled fashion” nei primi mesi dell’anno. Così come un crescente interesse per il concetto di slow fashion e abbigliamento second-hand.

Sono percentuali che fanno riflettere e portano l’attenzione sul nostro impatto ambientale, nelle scelte di tutti i giorni. E se da una parte si parla di tendenza, di grafici che mostrano un picco di vendite grazie a una nuova collezione green, dall’altra vi è una riflessione diversa.

La volontà di introdurre una dimensione del consumo inedita, dove per “consumo” si indica il riutilizzo dello stesso capo d’abbigliamento o di una sua versione upcycled, in modo da allungare la vita del proprio guardaroba e ridurre gli sprechi.

L’iniziativa Wear me 30 times, promossa dal brand italiano Maakola e dall’azienda tecnologica Genuine Way, ne è un esempio. La campagna, infatti, non solo permette ai marchi aderenti di dialogare con il proprio pubblico, spingendolo a indossare almeno trenta volte lo stesso capo per ottenere un premio finale, ma promuove anche un consumo consapevole.

Su misura per tutti

A volte, capita anche che questa filosofia incontri una vocazione sociale: è la combo perfetta.

Molte realtà, infatti, stanno prendendo atto del cambiamento e, tra una cucitura e l’altra, cercano di tessere una realtà su misura per tutti.

Obiettivo ultimo della produzione non è più la vendita di un capo d’abbigliamento, ma il suo reinserimento in un circolo virtuoso.

Atelier Riforma: upcycling e creatività sartoriale

Lo sanno bene le fondatrici di Atelier Riforma, una startup torinese che fa della moda circolare il suo credo. Elena Ferrero e Sara Secondo, infatti, hanno dato vita a un progetto che mira a contrastare la cultura dell’“usa e getta”, per abbracciare un modello alternativo: produco, uso, riformo.

Atelier Riforma trasforma l’ordinario e restituisce la possibilità di un acquisto etico. Nel concreto, riceve in dono abiti usati da privati ed enti, li cataloga e li affida a una rete di realtà sartoriali costruita ad hoc: sarti, brand sostenibili, designer, studenti di moda e sartorie sociali. Risultato? Prodotti creativi e pezzi unici che, nell’orizzonte comune, acquistano un valore ancora più grande. Quando si dice che l’unione fa la forza.

Gli abiti riformati vengono poi venduti sullo shop online, per continuare a sostenere il progetto.

Pezzo unico che mi sono persa: si chiamava Riccardo © Photo by Atelier Riforma

L’abito usato, dunque, da scarto diventa opportunità per creare, per esprimere sé stessi, per attivarsi nella tutela dell’ambiente e per lavorare.

Clothest*: vestiti superlativi per un bene comune

Come riporta l’Osservatorio Second Hand Economy, in Italia stiamo assistendo a un nuovo rinascimento dell’usato. Acquistare e riutilizzare abiti “pre-owned” può fare la differenza per uno sviluppo sostenibile.

In un panorama simile, nasce Clothest*, una piattaforma e-commerce non profit che coniuga il second-hand con l’alta moda.

Creato all’interno delle mura della Casa Famiglia Caritas di Montevarchi, il progetto si consolida negli anni, grazie a giovani talenti e partner professionali che condividono una visione:

trasformare i vestiti da semplici oggetti a patrimonio sociale.

Clothest* è una scelta solidale, che non solo consente di ridurre l’impronta ecologica della moda, ma garantisce dignità e sostegno a più di 200 persone all’anno, finanziando i progetti della Casa Famiglia.

Più superlativo di così.

HUMANA: abbigliamento second-hand per la solidarietà

Last but not least, tra le realtà che coniugano sociale e sostenibilità, un posto d’onore è riservato a HUMANA, organizzazione umanitaria di cooperazione internazionale.

Il suo logo, così come i contenitori gialli che raccolgono abiti usati sono ormai riconoscibili in 1200 comuni della penisola.

Arrivata in Italia nel 1998, HUMANA si occupa da sempre di promuovere una cultura della solidarietà. Attraverso il recupero, il riciclaggio o l’upcycling, si cerca di dare una nuova vita ai capi d’abbigliamento che non si indossano più, per poi rivenderli a prezzi accessibili negli store. Chi non ha mai provato l’ebbrezza di acquistare una camicia vintage in questo modo?

Ma il bello non finisce qui: parte dei ricavati va a sostenere comunità più fragili in Africa, Asia e America Latina, con progetti a medio-lungo termine nei settori dell’agricoltura, della salute e dell’educazione.

Alla luce di tutto ciò, comprare un vestito non è più solo una scelta di colore, prezzo o brand: c’è molto di più in gioco. C’è una collettività che ha preso coscienza dei ritmi sfrenati della produzione e della necessità di recuperare valore.

Ridurre, riusare, riciclare — ci guadagniamo tutti.

Luisa Zhou

Ispirato alla tesi n. 8 del Newtrain Manifesto

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Luisa Zhou
The News Train

Story designer con una seria ossessione per i lupi cecoslovacchi