Scacco alla regina degli scacchi

Tutte le narrazioni di empowerment, sono narrazioni di empowerment?

Simone Aragona
The News Train
7 min readFeb 5, 2021

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A noi piace scrivere storie, e lo facciamo perché ancora più che scrivere, ci piace ricevere storie scritte bene.

Per questo motivo, la mia prima recensione qui è prima di tutto una critica. Una critica urgente, a come certi oggetti sono scritti e concepiti, prima ancora che una critica della miniserie Netflix La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit).

Narrare l’empowerment

Che cos’è per me una storia di empowerment?

Prima di guardare La regina degli scacchi, la mia definizione sarebbe stata pressappoco questa: una narrazione di empowerment è quella che mostra la presa di coscienza delle proprie capacità e la conseguente ascesa nella società, da parte di una persona non appartenente al gruppo dominante.

Se la vostra definizione è simile a questa, potrebbe interessarvi ciò quello che stro scrivendo.

Il contesto

Basata su un romanzo di Walter Tavis, sceneggiata e diretta da Scott Frank, La regina degli scacchi è la storia di Beth Harmon, una scacchista che scala la vetta delle competizioni scacchistiche mondiali a partire dal 1966.

Tra le serie più viste di sempre di Netflix, è stata accolta in maniera generalmente favorevole sia dal pubblico maschile che da quello femminile. È stata inoltre rilanciata da blog considerati femministi per alcune scelte giudicate coraggiose, come quella di mostrare in video un assorbente interno.

Personalmente, ho capito che avevo un problema con le storie di empowerment, quando ho scoperto che davo una valutazione istintivamente positiva a tutte quelle narrazioni generaliste, in cui la protagonista è una donna, per il semplice fatto che la protagonista è una donna.

Ma forse è tempo di crescere.

Il problema della fiction con ambientazione storica

Saper maneggiare il concetto di “sospensione dell’incredulità” non è secondario se si desidera raccontare storie di fantasia. Diventa però fondamentale quando, come in questo caso, si desidera ambientare le nostre storie di fantasia in una precisa epoca storica.

Se per esempio, desiderassimo narrare la storia di un presidente USA afrodiscendente ambientata nel 1966, dovremmo necessariamente affrontare la realtà dei fatti: nessuna persona afrodiscendente è stata eletta per quella carica prima del 2008. Sarà quindi necessario identificare la ragione di questo fatto storico, per stabilire in cosa il nostro mondo immaginario è diverso da quello reale. Difficile farlo bene e ancora più difficile farlo con il necessario grado di rispetto per le persone che tutt’ora sono vittima di discriminazione razziale.

Perché se è vero che dovremmo modificare alcuni fatti e fenomeni storici per rendere una simile storia credibile, è anche vero che non potremmo limitarci ad aggirare il problema.

Uno dei primi suggerimenti di ricerca di Google per la voce “La regina degli scacchi” è “storia vera”.

Non è un caso: moltissime persone (me compreso) guardando la serie, hanno avuto l’impressione che si trattasse di una ricostruzione storica troppo accurata per non essere in qualche misura basata su fatti reali. In fin dei conti, quello che vediamo rappresentato è in tutto e per tutto il vero 1966. Dalla moda, all’arredamento, passando dal trucco usato dalla protagonista, per arrivare fino alle lattine di birra che bevono i personaggi: tutto è sovrapponibile a come ci immaginiamo la fine degli anni ’60.

In questo 1966 però manca una cosa del vero 1966: il sessismo del 1966.

Realtà vs. finzione: il sessismo edulcorato

Come ha giustamente osservato Jane Hu su Volture l’unico crimine di Gabrielle Binder e Uli Anisch (rispettivamente costumista e scenografo della serie) è stato quello di aver fatto il proprio lavoro molto meglio degli scrittori.

Perché in effetti, quello che stride con l’ambientazione per il resto storicamente accurata, è proprio il fatto che il sessismo che non sia del tutto assente, ma edulcorato.

Nella Regina degli scacchi, il sessismo non costituisce un fattore insormontabile.

Nei rari casi in cui lo vediamo, sempre cucito addosso a personaggi secondari, esso si presenta nella forma di una burbera ma sincera incredulità o in battutine da terza elementare.

Beth, riesce invece dove tutte le donne reali hanno fallito: sconfiggere il sessismo dell’ambiente scacchistico pre sessantottino. Lo fa grazie al suo genio, e soprattutto grazie all’aiuto, generoso e disinteressato, dei suoi beneducatissimi avversari sconfitti. Queste creature mitologiche in particolare, sono tutt’altro che risentite dopo le numerose e in alcuni casi, umilianti, sconfitte. Al contrario (allerta spoiler): diventeranno i mentori e gli aiutanti grazie ai quali Beth potrà superare la crisi finale e battere il campione russo.

Fake news credibili e real stories incredibili

Immaginiamo di voler progettare una fake news. Una di quelle credibili, che per essere sfatate necessitano ben più che una fragorosa risata da parte dei nostri amici. Se toccasse a me, farei come con mia madre quando mi chiese se avessi rotto io il televisore: prenderei dei fatti reali e li distorcerei per dare la colpa a mio fratello.

Ci sono due dati di fatto che dovrei prendere in considerazione se volessi adattare la storia di una donna che ce la fa nel mondo degli scacchi del 1966:

1. Nessuna scacchista reale ha mai nemmeno eguagliato fino ad oggi, il rispetto unanime di cui gode, nel 1967, la mia protagonista.

2. È statisticamente impossibile che nel corso della storia non sia mai esistita una scacchista geniale tanto quanto i suoi colleghi maschi.

La domanda quindi non è tanto per quale motivo non sia mai esistita nessuna Beth Harmon, quanto piuttosto: perché non è mai emersa nessuna Beth Harmon dalla competizione scacchistica internazionale?

Judith Polgar è una scacchisita ungherese la cui vittoria contro Garri Kasparov nel 2002, è assai meno citata rispetto a quella di Deep Blue, l’intelligenza artificiale di IBM. Quello che racconta Polgar dell’ambiente scacchistico, è facilmente intuibile a partire dalle parole dello stesso Kasparov, secondo cui il gioco degli scacchi non sarebbe adatto alla “natura femminile”. Peraltro, storie come quella del “club Vera Menchik”, dimostrano che in questo gioco, la sistematica sminuizione delle donne è la norma più che l’eccezione.

In breve: l’unica spiegazione storicamente plausibile del mancato successo femminile in questo gioco è il sessismo, non certo la mancanza di genio, come suggerisce questa serie.

La lettera rubata

La regina degli scacchi non affronta la reale ragione storica che ha impedito alle donne di emergere, al contrario: mettendola sullo sfondo la nasconde.

Come nel racconto Poe, alla fine si scopre il miglior nascondiglio è quello in piena vista.

La soluzione narrativa adottata dagli autori di TQG per rendere credibile questa storia incredibile, è infatti di immergere un sessismo depotenziato ma credibile, nel vero 1966. Un falso storico, nella vera America degli anni ‘60. Un falso storico difficile da individuare, perché non nega il sessismo: lo “reinterpreta” per adattarlo alle esigenze narrative dell’autore.

L’effetto collaterale è quello di una fake news: inquina la nostra percezione della realtà, distorcendo fatti reali.

In questo caso però, la “fake history” inquina la nostra percezione di quella realtà storica, distorcendo fenomeni storici.

Il gladiatore, tra realtà e responsabilità

Nel 1966 esisteva il sessismo. Questo lo sappiamo e sarebbe difficile convincerci del contrario. Quello su cui agisce questa fake history invece, è un aspetto molto più etereo: la portata inabilitante del sessismo (per ricostruire la quale, sarebbe più utile e autorevole avere Judith Polgar, piuttosto che Garri Kasparov e Bruce Pandolfini, consulenti di questa miniserie Netflix).

Gli autori di questa storia sfruttano una opacità storica per inquinare la narrazione del nostro passato con un elemento che non è estraneo ad esso, è solo rimodellato ad arte.

Seppellisce così un falso credibile in una ricostruzione storica maniacalmente minuziosa, fino alle lattine di birra vintage.

Un’operazione pericolosa ed eticamente discutibile. Un prodotto di fantasia percepito come storicamente accurato, può infatti attribuire a un’epoca storica alcune caratteristiche più efficacemente di Wikipedia o di una conferenza di Alessandro Barbero.

Pensate al film di Ridley Scott Il gladiatore (che non linko, assumendo che se vi interessano le narrazioni su pellicola, dovreste già averlo visto da tempo).

Tutti noi abbiamo una cattiva opinione dell’imperatore Commodo, senza sapere che fu uno degli imperatori più amati dai suoi sudditi, anche per aver posto fine alle persecuzioni religiose all’interno dell’impero romano. In quel film, l’esigenza di un antagonista credibile, porta gli autori a creare un falso storico, che però è del tutto innocuo: perché incide sulla reputazione di una singola persona vissuta oltre duemila anni fa, e non sull’idea condivisa di un fenomeno sociale tutt’ora attivo nelle nostre comunità.

Gli autori de La regina degli scacchi, dimostrano di non assumersi alcuna responsabilità in proposito. Una sorta di “liberi tutti”: qualcosa capace di portare a un ridimensionamento ingiustificabile di fenomeni sociali gravi, sui quali sarebbe invece opportuno avere tutte e tutti le idee molto chiare, proprio a partire dagli orrori del passato.

La storia alternativa

Grazie a La regina degli scacchi, ora so che una narrazione di empowerment ha a che fare non tanto con la storia in sé, quanto piuttosto con il meccanismo che scegliamo per farla progredire.

Nel caso di questa miniserie una scelta più interessante e credibile, sarebbe stata quella di adattare il romanzo ai giorni nostri o in un ancor più credibile futuro. Oppure eliminare del tutto il sessismo, assumendo di fatto così di essere in un vero e proprio 1966 parallelo, scelta peraltro adottata da altri prodotti Netflix di successo ambientati nel passato, come Bridgerton.

Chess boxing

La regina degli scacchi non si chiude con delle scritte bianche su sfondo nero, e nemmeno con una dedica alle molte scacchiste che avrebbero potuto essere Beth Harmon.

Netflix sceglie invece di dedicare l’intera miniserie alla memoria di Iepe Rubingh. Un uomo, non uno scacchista, conosciuto soprattutto per aver codificato le regole del Chess boxing, uno sport inventato dallo scrittore Enki Bilal, che consiste in una specie di biathlon di scacchi e boxe.

Un gioco il Chess boxing, che sembra concepito per fare in sordina qualcosa che molti vorrebbero continuare a fare apertamente: impedire alle donne di vincere.

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