5. Tlön

Federico Ruysch
Planetarium
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2 min readDec 4, 2015

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Un tempo era meraviglioso osservare con quale euritmica precisione ogni processo nascesse, sul pianeta Tlön, per poi evolvere secondo uno stato armonioso e spontaneo sino a giungere, infine, ad un naturale declino e ad un inevitabile quanto fondamentale conclusione.

Su Tlön, di fatti, ogni processo legato all’esistenza — dal più superficiale al più profondo — pareva essere intrinsecamente legato alla forma del cerchio… alla condizione dell’eterna rinascita… alla ricorsiva natura del ricorso stesso.

Così era possibile osservare l’inarrestabile e fluido fluire del flusso dei flutti dell’acqua, sempre intenta nel suo inarrestabile evaporare, piovere, ghiacciarsi e, dunque, evaporare nuovamente, piovere nuovamente, e ghiacciarsi nuovamente, per poi ripetere il tutto, incessabilmente.

Si poteva poi fare da silenti spettatori al lentissimo erodersi dei monti in pietre… rocce… sassi… pietrisco… ghiaietto… e sabbia che — scivolando sino al rovente centro del pianeta — si faceva magma, e lapillo, ed eruzione e, alfine, nuovamente monte.

Per questo motivo, a Tlön, ogni mortale autunno — col suo esercito di foglie cadute in una vana quanto inevitabile resistenza — era anche preludio alla nascita dell’humus che, a primavera, avrebbe alimentato nuovi steli, nuovi rametti, nuovi tronchi, e — ancora — nuovissimi eserciti di foglie smeraldine.

Tuttavia accadde che, sul pianeta Tlön, nacque un essere in grado di plasmare e di mescidare tra loro gli ingredienti della natura, al fine di creare materiali e sostanze prima inesistenti. Su tali sostanze — talvolta dette “vetro”, talaltra volta chiamata “plastica” — gli abitanti di Tlön apposero un’etichetta. Una sorta di ammonimento, o di consiglio, che avvertiva il possessore di tali sostanze di non abbandonarle nell’ambiente, perché esse — a differenza di tutte le altre cose che erano a Tlön — non si inserivano in alcun processo ricorsivo ma, al contrario, una volta nate erano destinate a rimanere così com’erano, in eterno, senza potersi mai più tramutare in ciò che erano state. Senza poter nemmeno sperare di divenire ciò che non sarebbero mai divenute…

E così, negli anni e nei secoli, dalle montagne fu munto l’incandescente metallo, mentre dalle miniere fu estratto l’uranio tumorale, e dalle spiagge fuse fu ricavato l’adamantino cristallo.

E di fusione in fusione, di trasformazione in trasformazione, Tlön divenne ciò ch’è oggi: un pianeta sul quale, essendo tutto eterno, nulla più è vivo.

Un pianeta sul quale, tra fiumi di petrolio e fontane di metano, in parchi di polistirolo, sorge un museo nel quale è conservata l’ultima foglia.

Quella foglia accanto alla quale è scritto: “non disperdere nella spazzatura”.

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