Blade Runner 2049: il futuro (e il sequel) che ci meritiamo

M.G.
The Shelter
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12 min readOct 25, 2017

La prima volta che vidi Blade Runner (1982) ero un bambino. Ricordo che il primigenio potere contenuto nel nastro di quella VHS, che avevo trovato in casa, mi sconvolse. La seconda volta, da quattordicenne, fu il turno della cupa versione Director’s Cut del 1992. Allora mi trovavo nell'auditorium del mio liceo, nel contesto di una peculiare lezione di Italiano. Il carismatico professore responsabile del corso, uno dei migliori che io abbia mai frequentato, era convinto che l’approfondita analisi dei complessi meccanismi del testo narrativo e delle sue derivazioni filmiche e letterarie fosse uno degli strumenti più potenti a disposizione di un insegnante, al fine di stimolare l’apprendimento e il pensiero critico di una giovane mente.

Questo in un clima scolastico nazionale in cui erano i concetti di crossmedialità e transmedialità a essere considerati pura fantascienza

Rimasi talmente colpito da quella seconda proiezione del cult movie di Ridley Scott, che iniziai presto a esplorare i dettagli e i simbolismi delle due versioni disponibili in DVD (prima dell’uscita della definitiva Final Cut del 2007), integrando le frequenti visioni con l’avida lettura del corpus letterario di Philip K. Dick e del suo romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? da cui la pellicola è stata tratta. Inutile aggiungere che nel giro di poche settimane memorizzai, in diverse lingue, il leggendario monologo che accompagna il sacrificio messianico di Roy Batty, il replicante impersonato da Rutger Hauer. Pause incluse. Ancora oggi riesco ad avvertire l’antica breccia che aprirono in me quelle parole, sopravvissute all'assimilazione di svariate migliaia di opere audiovisive, negli anni a venire. Il saggio che poco tempo dopo scrissi su Blade Runner si tradusse anche nel primo 10 che presi nella mia vita. E nel mio liceo, in quegli anni, se ne vedevano pochi. Quel riconoscimento personale e istituzionale, che allo stesso tempo aveva il sapore di una stimolante sfida, è stato il primo atto di fiducia attraverso il quale un giovanissimo punk – che voleva solo vedere il mondo divorato dalle fiamme – riuscì a raggiungere la consapevolezza di saper fare qualcosa, oltre al nichilista. E che questo qualcosa sapeva farlo molto bene, senza l’ausilio di combustibili fossili raffinati. Un tale innalzamento di gradi Celsius per dire che Denis Villeneuve e il suo attesissimo sequel, oltre al soverchiante peso di un’eredità pluridecennale e di un budget stimato di 185 milioni di dollari, avevano davvero un brutto cliente in sala, il giorno dell’uscita del film.

Denis Villeneuve sul set dell’inafferrabile “Enemy”, 2013.

Seconda incursione science fiction del talentuoso regista canadese, avvenuta dopo un Arrival (2016) che tuttavia non è mai riuscito a convincermi, Blade Runner 2049 gioca magistralmente le sue carte sin dal primo frame, con quell'iconico particolare dell’occhio che ancora una volta ricambia il nostro sguardo dallo schermo. L’occhio, particolare anatomico in grado di rivelare agli agenti blade runner se un sospetto è un androide o un umano. Ma anche l’occhio onnisciente del Dio creatore, l’occhio orwelliano del Big Brother, l’occhio di Ahura Mazdā, strumento della verità e simbolo rivelatore dell’ancestrale qualità demiurgica del divino. E iride (im)mortale di un replicante alla ricerca del padre e di un anima, che ci osserva dal 1982.

L’occhio è solo una delle isotopie originali riportate in scena nel sequel, insieme alle implicazioni di natura etica e filosofica, alla dicotomia esistente tra umano e sintetico, al significato allegorico degli animali (ormai esistenti come solo animoidi), ma soprattutto dell’acqua

È proprio quell'acqua primordiale ad abbattersi incessantemente su una civiltà sull'orlo del collasso, in un diluvio universale che cerca di annegare i miasmi prodotti da un capitalismo estremo, con le sue masse brulicanti di carne esangue consumata dal desiderio, abbaglianti ologrammi-titani e piramidi di cemento, erette da quel consumismo bulimico di cui il nostro tempo è progenitore. Un nero inferno di sola luce artificiale, in cui la vegetazione è completamente scomparsa e ogni cosa, anche la vita –potendo essere replicata perfettamente e schiavizzata – ha un’esclusiva valenza monetaria. Così come la felicità.

Già oggi insegniamo ai bambini che quando la felicità è un prodotto che si può acquistare, il rispetto per la Terra e per chi la popola diventano cosa accessoria. Moltiplicate questo per sette miliardi e il futuro di “Blade Runner 2049” non sembrerà poi così lontano

Ai margini di questa realtà senza natura, minacciata da un drammatico innalzamento del livello degli oceani, si espande a perdita d’occhio una landa sommersa da imponenti sedimentazioni di rifiuti. Oltre questo spazio sterminato si estende solamente una wasteland di rovine e deserti contaminati dalle radiazioni, provocate dall'olocausto nucleare di quella “War World Terminus” immaginata da Philip K. Dick, che ha decimato la quasi totalità del pianeta. In un tale Ade avveniristico, senza alcuna speranza per il genere umano, una statuetta di autentico legno con le sembianze di un cavallo, per quanto deteriorata dal tempo, è caratterizzata da un valore inestimabile. L’uomo di quel mondo prossimo e verosimile – illuso di avere il controllo totale sulla tecnologia, sulla natura e sugli elementi – ha bisogno di una sola e unica cosa per evitare l’estinzione: l’avvento di un miracolo di portata rivoluzionaria.

Le rovine di una surreale Las Vegas, in cui si celano gli spettrali simulacri di un’epoca scomparsa.

Los Angeles, nel 2049, è un decadente crogiolo di lingue e culture diverse, racchiuse in una Torre di Babele cyberpunk dalle forti tinte neo-noir, la cui parlata cittadina è un misto di spagnolo, giapponese, tedesco, ungherese, cinese e francese. La megalopoli, fotografata dal DOP Roger Deakins (un signore con sole 13 nomination all’Oscar), mantiene intatta quell'aura che lo stesso Ridley Scott, durante la produzione della sua opera, definì come quella di “un film vecchio di 40 anni collocato 40 anni nel futuro”. Un’affermazione che potrebbe essere pronunciata quasi letteralmente anche dallo stesso Villeneuve, innescando un curioso cortocircuito, dal momento che il cineasta si è trovato a realizzare il sequel di una pellicola risalente a 35 anni fa, ambientandolo negli stessi luoghi, ma tre decenni dopo gli accadimenti in esso raccontati.

Tra le strade del gargantuesco ziqqurat californiano, in questo universo retro-futuristico, si muovono una serie di personaggi umbratili, tutti in qualche modo eredi degli iconici protagonisti della prima istallazione del dittico

La struttura chiasmica, sulle cui fondamenta è stato edificato il loro arco narrativo, si intreccia in modo evidente, ma non sempre prevedibile, con quello delle rispettive controparti del 1982, grazie alla scrittura combinata di Michael Green e Hampton Fancher, ancora una volta presente in veste di sceneggiatore, nel mondo da lui stesso creato tanti anni prima. Lo iato tra le due pellicole è stato colmato da tre brevi prequel, resi disponibili online dalla Warner Bros. Picture a breve distanza l’uno dall'altro, ovvero Black Out 2022 (un anime diretto dal regista nipponico Shinichiro Watanabe) e due short film in live action, 2036: Nexus Dawn e 2048: Nowhere to Run, entrambi diretti da Luke Scott, secondogenito di Sir Ridley Scott.

K e Joi all’interno di uno “spinner”, veicolo di ordinanza del Los Angeles Police Department.

Ryan Gosling è il solitario K, un agente blade runner ammantato nel canonico trench coat che indossano tutti gli archetipici e tormentati antieroi del cinema noir. Il suo lavoro consiste nella ricerca e nel “ritiro” dei prodotti di vecchia generazione, dispregiativamente definiti “skin job”, lavori in pelle. Una serie di termini raffinati per definire l’eliminazione fisica degli androidi che sono sfuggiti alle maglie dell’apparato schiavista, quasi esclusivamente vecchi modelli. Un lavoro sporco di cui sono incaricati i replicanti di nuova generazione come K: senza questi schiavi moderni privi di nome, l’egemonia della specie umana sulla Terra e nelle colonie Extra-Mondo non sarebbe concepibile.

Nel corso di una di queste vere e proprie esecuzioni, l’agente rinviene un segreto che potrebbe sovvertire l’equilibrio (artificiale) dello status quo, ponendosi di conseguenza sulle tracce del latitante Rick Deckard, il celeberrimo blade runner del primo film, impersonato da Harrison Ford

K è un personaggio alla ricerca di un passato e di una vocazione spirituale, in un domani in cui ogni forma di spiritualità è morta, insieme all'idea di Dio e dell’infanzia, stadio dell’esistenza innestato nei replicanti da ingegneri-storyteller, che ne creano ricordi simulati. Nelle sue indagini all'interno dei meandri di un sistema impenetrabile – in cui un terroristico ordigno EMP ha cancellato permanentemente parte di una memoria collettiva che non si trasmette più tramite l’ausilio di supporti fisici – K è affiancato dall'inseparabile compagna olografica Joi (Ana de Armas), un prodotto industriale portatile (ma dotato della capacità di sensazione?) generato da un futuro in cui la mercificazione della donna ha raggiunto il suo degradante apice. Joi è un surrogato dell’intimità relazionale, destinata al consumo massificato di una società emotivamente inaridita e artefatta, come gli alimenti che la sostentano nell'ecosistema irreversibilmente compromesso.

Ciononostante, il più consistente elemento di novità in “Blade Runner 2049” rispetto al predecessore, l’ideale amoroso sintetico (e illusorio?) ricercato nella domotica, corrisponde forse all'aspetto meno riuscito dell’ambiziosa operazione.

In quanto – esclusa la potente scena in cui carne, simulacro e incorporeo si unificano in una triplice entità – questa relazione poco aggiunge al sapere di uno spettatore già familiare con la lezione magistrale di Her (2013) di Spike Jonze, la recentissima serie tv di Westworld targata HBO e quel gioiellino indie di Ex Machina (2014), esordio di un Alex Garland ora alla sua seconda incursione sci-fi con Annihilation (2018). Opere che, occorre precisarlo, a loro volta devono molto alla penna di Philip K. Dick. Eppure Joi e K (in origine Kard) sembrano fin dalla prima inquadratura creature molto più umane degli umani, per cui la domanda sorge subito spontanea: ma questi androidi sognano realmente pecore elettriche?

K e una delle infinite emanazioni ectoplasmiche urbane (e pubblicitarie) di Joi.

A ostacolare il protagonista nel suo viaggio alla scoperta della propria identità, un’oscura forza avversa: quella di Niander Wallace, un Jared Leto in uno dei suoi ruoli più carismatici. Il magnate non vedente è un demiurgo della biomeccanica, che castra le sue creature soggiogandole con le catene dell’obbedienza. Un semidio capitalista privo della luce della ragione, che si lascia guidare dalla cieca venerazione di una scienza senza più alcuna etica. Wallace è idealmente figlio dell’accecamento edipico del suo progenitore Eldon Tyrell, la cui corporazione ora è stata acquisita da Wallace, che produce una nuova serie di replicanti, i Nexus-9, i suoi “angeli”, a cui appartiene anche K: una famiglia di androidi perfezionati, geneticamente predisposti alla sottomissione e in apparenza privi dell’istinto di conservazione. Nove sono stati, inoltre, i pianeti colonizzati grazie al contributo di questa manodopera artificiale.

Apparente salvatore dell’umanità (e dei suoi vizi), il faustiano CEO appare sovente come un profeta reazionario in giacca e cravatta, varcando ogni soglia sulla scena come farebbe Gesù al suo ingresso nel tempio, nel Nuovo Testamento. Peccato che Wallace sia l’Anticristo

Lenti a contatto offuscanti hanno obbligato il leader dei Thirty Seconds to Mars a privarsi dell’ausilio della vista durante le riprese, un espediente fedele al Metodo Stanislavskij sicuramente meno sensazionalistico di quelli precedentemente adottati dall'attore per immedesimarsi nel ruolo di Joker, in quel caotico e trascurabile Suicide Squad (2016), sul cui set soleva conferire grotteschi doni al resto del cast, tra cui ratti morti, preservativi usati, anal beads e proiettili. Inizialmente immaginato per David Bowie, il visionario personaggio di Wallace non ha bisogno di nessuna eco pubblicitaria, per potenziare la calibrata sinfonia di onnipotenza che la performance di Leto restituisce con glaciale accuratezza su grande schermo. Una recitazione da assaporare in lingua originale, per coglierne appieno i molteplici livelli di profondità. L’esecutrice materiale di ogni ordine del deviante CEO è la figlia prediletta Luv (Sylvia Hoeks), spietata Nexus-9 che incorpora ed estremizza alcune delle caratteristiche di Rachel (Sean Young), femme fatale del film precedente, ovvero una replicante Nexus-7 in grado di invecchiare naturalmente (in un’epoca in cui il loro temine massimo di vita si aggirava intorno ai quattro anni). Luv è un Icaro muliebre, in attesa di ascendere alle colonie Extra-Mondo, per elevarsi oltre il firmamento insieme all'esercito di androidi Übermensch della Wallace Corporation, tra i cosiddetti “nati e non creati”.

Il luciferino e imperturbabile Niander Wallace, immerso nei mutevoli riflessi della sua chiesa nera sospesa sull'acqua.

Le musiche che scortano extra-diegedicamente i personaggi sono state composte da un inedito Hans Zimmer, fuori dalla sua consueta comfort zone orchestrale. Ciononostante il compositore tedesco, attraverso uno sforzo congiunto con Benjamin Wallfisch, riesce a produrre un notevole e poderoso muro sonoro dalle marcate venature industrial, in cui un’impenetrabilità sintetica lascia emergere, sporadicamente, una disarmante fragilità umana, che si insinua gradualmente sotto la pelle dell’astante minuto dopo minuto.

Difatti è proprio l’avvolgente atmosfera, determinata da una sapiente abilità artigianale e una perfetta sinergia tra suono e immagine, a imporsi come elemento predominante nella diegesi

Collocati in punti nevralgici della narrazione, non mancano inoltre i familiari synth anni ’80 di Vangelis, compositore della pellicola originale. Una scelta molto tormentata, quella di Villeneuve, che in questa occasione decide di non avvalersi della presenza del suo fedele collaboratore islandese Jóhann Jóhannsson, in un primo momento coinvolto nel progetto e ora contrattualmente obbligato ad astenersi dal commentare la sua esclusione.

Il pantheon dei replicanti di nuova generazione, nel cuore del piramidale tempio pagano della Wallace Corporation.

Il sequel interiorizza eucaristicamente la lezione dell’originale, complici una CGI e un production design di altissimo livello. Tra alcune esplicite citazioni, easter egg e cameo, dal nuovo test Voight-Kampff robotizzato alla breve apparizione di Gaff (Edward James Olmos) e dei suoi iconici origami, il testamento spirituale racchiuso nelle parole messianiche di Roy Batty si sente respirare distintamente in ogni frame, tra lunghe inquadrature e cesure profetiche dal retrogusto biblico. Doverosi, inoltre, i richiami ad altre opere fantascientifiche, dall'immancabile magnum opus di Stanley Kubrick, 2001: A Space Odyssey, in qualche misura sempre presente in ogni narrazione sci-fi dal 1968, fino a quello meno scontato di Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij, con cui il film di Villeneuve condivide, in alcuni momenti, un ritmo mistico e contemplativo (oltre a una scena madre).

Quello dell’autore canadese è un cinema che con la sua vibrante purezza supera quell'impasse postmoderna in cui si trovano ancora impantanati molti dei cineasti contemporanei

Siamo per l’appunto lontani anni luce dall’operazione nostalgica che ha riportato in auge il franchising di Star Wars, grazie all’acume del Re Mida di Hollywood J.J. Abrams, e altrettanto distanti dal disastroso tentativo di rispolverare la saga di Alien (1979), con un Prometheus (2012) e un Alien: Covenant (2017) rei di aver cercato di raccontare (male) qualcosa che invece non avrebbe mai dovuto essere rivelato. Il sobrio sequel di Blade Runner, al contrario, evita sempre di innescare un’analoga e altrettanto inammissibile profanazione, nemmeno quando sembra avvicinarcisi pericolosamente. Nelle sue inquadrature permea il religioso rispetto per quegli stessi segreti e per quelle ambiguità che hanno reso la prima pellicola un capolavoro senza tempo, accompagnando a casa lo spettatore con la certezza che alcuni misteri non solo saranno destinati a rimanere tali, ma si riveleranno perfino più insondabili.

Rick Deckard è davvero un replicante? Inutile insistere, non lo sapremo mai. E va bene così. Perché grazie a questa rispettosa accortezza, si scriverà per altri 35 anni delle implicazioni di un finale che ancora una volta solleva più domande che risposte

Ma c’è un altro antico interrogativo a cui si può ancora cercare di attribuire del senso: un androide senziente può essere considerato umano? Se il responso, nel lontano 1982, sembrava celarsi, sfuggente, in una toccante riflessione sulla caducità dell’esistenza e nella dispersione di quelle celebri lacrime nella pioggia, oggi il quesito esistenziale potrebbe risolversi in un silenzio assoluto, accompagnato dalla nuance scarlatta di alcune artificiali gocce di sangue che, espandendosi, si ritrovano a tingere le candide molecole di alcuni reali fiocchi di neve, dissolvendoli con il loro altrettanto tangibile calore.

Il replicante K alla ricerca della verità e di se stesso, come ognuno di noi.

Nonostante gli incassi attualmente al di sotto delle aspettative, Blade Runner 2049 si rivela, nella quasi totalità dei suoi 163 minuti, una di quelle rarissime occasioni in cui un sequel, tra mainstream e autorialità, riesce non solo a rispettare il primo lungometraggio, ma anche a espanderne significativamente ogni sua caratteristica saliente. A mio parere, non siamo testimoni di assoluta superiorità del materiale nuovo su quello originale, come pontificano alcuni critici sensazionalisti americani, né al cospetto dell’ennesima riproposizione di una mera replica.

Trovo che si sia realizzato, piuttosto, quello che si potrebbe considerare un raffinato processo di unione alchemica tra passato e presente, con la forgiatura di una nuova entità autonoma, che deve essere analizzata per quello che è: un corpus filmico integrale

Questo racchiudendo l’essenza stessa di quell’onirico unicorno nella Final Cut della prima pellicola, una creatura enigmatica che Carl Jung definisce come “una coniunctio oppositorum che lo rende particolarmente idoneo ad esprimere il monstrum hermaphroditum dell’alchimia”, che in questo caso specifico racchiude in sé l’antropico e il sintetico, lo spirito e la materia, il maschile e il femminile, il vecchio e il nuovo. Per questa ragione, contro ogni aspettativa, oggi per me Blade Runner incarna un’esperienza completamente nuova, ancora più potente, stratificata e complessa di quanto non lo sia mai stata per tutti quegli anni in cui ho pensato esistessero solamente l’opera originale e il suo mito. Perché ora, grazie al sequel, nessuno dei due film potrà più esistere senza l’altro. Très bien Monsieur Villeneuve, ma adesso attenzione al remake di Dune (1984). Quello è un film che porta veramente una sfiga terribile.

8,5

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M.G.
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Nobody exists on purpose, nobody belongs anywhere, everybody’s gonna die. Come watch TV.