Da Emile Cioran a Friedrich Nietzsche: Linguaggio, corpo e relativismo in The Phantom Pain

Mauro Ferrante
The Shelter
Published in
20 min readJan 12, 2016

L’ultima creatura di Kojima è sicuramente un titolo controverso, destinato a restare nella storia dei videogiochi per vari motivi, non tutti legati al gioco in sé. L’ennesima prova autoriale di un designer eclettico la cui cura dei dettagli è qui portata all'estremo. Lungi dall'essere un prodotto perfetto, non si può comunque che restare storditi di fronte alla mole di tematiche chiamate in causa. Una grande regola che riguarda il cinema, ma non solo, recita all’incirca così: “Un buon film non deve dare risposte ma far sorgere domande”. Generalizzando potremmo dire che un buon prodotto è tale perché deve dare da pensare. Questa regola può, e deve, applicarsi anche ai videogiochi. E The Phantom Pain ne rappresenta un fulgido esempio.

L’articolo che segue è ovviamente pieno di spoiler.

UN ESERCITO SENZA NAZIONE

The Phantom Pain si apre e chiude con due citazioni emblematiche, frasi che portano su di loro un peso teorico inestimabile e che sorprende vedere all’interno di un titolo dall’ampia portata commerciale come quello Konami. La prima, quella che segna i punti radicali toccati dal gioco, è quella del filosofo famoso per i suoi aforismi nichilisti e crudeli Emile Cioran.

“Noi non abitiamo una nazione ma una lingua […] La nostra lingua è la nostra madre patria.”

È facile notare che la parola chiave tanto cara ai fan di vecchia data è quella della patria. La connotazione è chiaramente quella politica, anzi militarista. La figura di Big Boss è sempre stata legata in modo indissolubile allo scontro con un sistema di controllo prima ancora che con un singolo nemico (Zero prima, i Patriots dopo). La sua crescita come personaggio passa attraverso una perdita di umanità dovuta alla morte di The Boss, mentore, amante e pedina sacrificabile posta sopra una scacchiera dove si giocano gli interessi delle grandi potenze mondiali. Si capisce meglio questo passaggio, questa caduta all’inferno che trasformerà Big Boss in un demone, se ci si riferisce a lei col suo nome da battaglia, quello usato nella Cobra Unit: The Joy.

La perdita della gioia, del sentimento, dell’umanità, segna la morte dell’uomo, John, e la nascita del soldato perfetto, della leggenda: Big Boss. Un uomo il cui nome risuona su tutti i campi di battaglia con un fervore divino. Boss abbandona la FoxHound, non vuole più essere uno strumento in mano ai governi del mondo, non vuole più lottare per gli interessi di un “greater good”. Il suo sogno, il suo unico desiderio, non è la fine del conflitto, il vero cardine che mette in moto qualsiasi dinamica sociale e politica. Il suo sogno porta il nome di Militaires sans frontieres. Un esercito mercenario indipendente nel “regno autonomo” di Mother Base che presto si tramuta nell’obiettivo finale: Outer Heaven, una vera e propria nazione.

Una patria per i soldati disillusi, una nazione dai confini ideologici più che geografici, fuori dal giogo delle potenze mondiali per il controllo delle guerre, delle economie, della politica e dei singoli individui. Un regno teocratico su cui si erge la figura semidivina di Big Boss. Un sogno che si infrange e che viene compiuto appieno solo in seguito da quel figlio non voluto che inconsciamente o meno corona il lavoro del padre spegnendo l’IA dei Patriots nel quarto episodio e sottraendo il mondo al loro controllo. I temi sono ricorrenti, quasi ossessivi mentre si aggrovigliano ad ogni episodio espandendosi sempre di più. Le vecchie idee prendono nuove forme, aggiungendo strati di lettura sempre più complessi. Ma Kojima è famoso per saper capovolgere la situazione, e qui alza tremendamente la posta in gioco con l’introduzione del concetto di linguaggio.

WOLBACHIA

La lingua, strano sinonimo di nazione, diventa il fulcro intorno a cui è costruito questo nuovo Metal Gear. Una scelta che ad un primo sguardo sembra inconsistente ma che risulta invece coerente con la mitologia del gioco. Se la saga post-Solid Snake si muove nel territorio dell’informazione, analizzando il suo ruolo nel mondo e le conseguenze sugli individui, non suona così assurdo fare un passo a ritroso per dedicarsi al punto di origine dove l’informazione nasce, ovvero il suo strumento di comunicazione. Il legame è famoso, non c’è mezzo senza messaggio, non c’è messaggio senza mezzo. C’è qui McLuhan con le sue famosi tesi, ma anche Belting che ha dedicato molti dei suoi studi sul concetto di medium. Passiamo allora dal messaggio, dai Patriots, dall’orwelliano sistema di controllo e divulgazione che ha in mano l’intero sistema bellico e politico mondiale, alla sua forma più primitiva, la comunicazione vocale: dal messaggio al mezzo. La lingua, anzi le lingue che rappresentano uno spaccato affascinante della situazione geo-politica di aree calde come Africa e Afghanistan. È una foto che sceglie una particolare prospettiva per essere scattata e che, come approccio, non ha precedenti nel mondo dei videogiochi.

Skull Face, una spia ungherese al servizio della XOF, crea un virus basato sul funzionamento biologico di alcuni parassiti realmente esistenti, i wolbachia, in grado di colpire gli abitanti di una nazione in base alla lingua parlata. Parassiti che attaccano le corde vocali e vengono innescati dal linguaggio. Facile bollare l’idea come l’ennesima variante dell’arma di distruzione di massa: il grande tropo di minaccia mondiale immancabile in ogni storia con sfondo militarista. Eppure questa scelta particolare crea un panorama narrativo diverso, nuovo, e decisamente coraggioso.

Skull Face vuole quello che vuole ogni buon cattivo che si rispetti. La distruzione del mondo, il rovesciamento dell’equilibrio. Cambia la dimensione effettiva in cui questo si attualizza ma il canone non può essere evitato. Quello che lo rende subdolo è la scelta di distruggere una lingua, o meglio di distruggere una razza colpendo la loro lingua. Skull Face è stato portato via con la forza dal suo paese di origine, gli è stata tolta identità e linguaggio, quindi decide di ripagare il mondo con la stessa moneta. Perché questo è così importante? Perché il linguaggio non rappresenta semplicemente uno dei modi che gli esseri usano per la comunicazione, al pari dei gesti linguistici o delle espressioni del volto. Il linguaggio, quello umano, rappresenta una dei grandi argomenti filosofici e scientifici. Il linguaggio porta con sé un legame imprescindibile col pensiero che lo eleva ad un piano più alto di quello meramente comunicativo. Non è un caso se basta l’uso del linguaggio ad attivare il virus. Non importa quello che si dice, è il solo fatto di dirlo che assume importanza capitale.

Penso dunque sono, diceva Cartesio che ben presto si trasforma in parlo dunque sono. Senza linguaggio non c’è pensiero. Senza pensiero non c’è reale esistenza. Estirpato dalla sua funzione meramente comunicativa il linguaggio diventa una caratteristica complessa, collegata alle attività biologiche e mentali. L’unione sotto il vessillo di una lingua comune è ciò che accomuna i soldati di Mother Base, il nuovo esercito libero e indipendente. Non un mero sistema di comunicazione ma un vero e proprio alfabeto culturale e umanistico. Questa è la nazione che Snake mira a creare, una nazione che superi le barriere costrittive della verbalità, dello schieramento, o della semplice alterità. Un esercito multi-etnico, creato sul campo di battaglia, con valori comuni che superino gli scontri razziali e i conflitti interni che Kojima dipinge scegliendo, non a caso, un particolare territorio e una particolare ambientazione temporale.

Questa è la vera Outer Heaven ed è così che la citazione di Cioran non diventa solo una colta ouverture al gioco ma il punto di interesse maggiore dell’intera opera. Una nazione che parla la stessa lingua, una vera e propria polis. Uno spazio pubblico a tutti gli effetti come inteso da Hannah Arendt che recupera la peculiarità del linguaggio come unico fautore di una reale sfera sociale. Il linguaggio è pericoloso, il linguaggio può uccidere, il linguaggio è fondante. Tutto The Phantom Pain sembra una gigantesca metafora, un’opera metafisica che per esprimersi usa una forma allegorica e tangibile di questo raffinato argomento.

L’informazione, un’entità tanto importante nel nostro mondo e così poco afferrabile materialmente aveva le sembianze di un sistema di controllo gestito da un’intelligenza artificiale. Il linguaggio, il suo vettore, qui diventa un virus pericoloso e mortale. I due punti si uniscono, per assonanza. Per gli intrinseci legami che condividono nell’evoluzione temporale della saga e nel loro senso di coappartenza più vasto. Una variazione sul tema che diventa un ulteriore spettro di analisi dei temi cari a Kojima. Allora la ricerca degli interpreti sparsi in giro per il mondo, la ricerca della verità che stavolta viene dipanata attraverso delle audiocassette, le stesse parole messe in bocca a Miller e Ocelot, cariche di vendetta e odio verso Zero, non sono solo uno strumento di comodo per la narrazione ma tante sfumature di un unico, sfaccettato concetto.

Kojima lo sa, gira intorno a queste questioni, suggerisce più che spiegare, lavora per metafore piegando queste nozioni a un’utilità pratica. Eppure anche solo per suggestione, anche se relegata a una mera forma materiale, questo scottante tema inserisce un ulteriore, prezioso, pezzo al suo grande mosaico, un ulteriore strato di lettura da aggiungere nella lunga costruzione della sua mitologia personale. E per affrontare questa ennesima sfida Kojima sceglie giustamente di concentrarsi sul suo opposto: il silenzio.

IL CORPO E IL FANTASMA

Quiet rappresenta la figura chiave dell’intero gioco, acquisendo per i temi trattati un’importanza che oscura di gran lunga anche la figura di Big Boss e il suo scambio identitario. La cecchina silenziosa è un’altra pedina nei piani di Cipher. Ha il compito di eliminare Big Boss dopo il risveglio dal coma. Il piano fallisce, Quiet viene bruciata e Skull Face la infetta con i parassiti trasformandola in un’arma finale. La portatrice del ceppo inglese, il virus più pericoloso capace di attaccare la lingua franca del mondo. Quiet cambia presto idea, affascinata dalla figura leggendaria di Big Boss, e sceglie la via del silenzio. Un personaggio complesso e sfaccettato, l’unico segnato da una reale profondità e crescita durante lo sviluppo della trama. Ciò solo se la si prende sul serio e si guarda oltre la sua carica erotica.

È facile, ovvio, e neanche del tutto sbagliato, trovare nella sua figura dei motivi extra-diegetici che ne dettano l’aspetto erotico quasi caricaturale. La vediamo girare per tutto il gioco seminuda grazie a una giustificazione coerente con l’impianto narrativo ma che mette a dura prova la sospensione dell’incredulità. La pelle di Quiet viene ricostruita dai parassiti dopo i danni da ustione che le hanno distrutto gli organi interni compresi i polmoni, per respirare Quiet quindi usa la pelle e l’umidità dell’aria grazie a un sistema che ricorda quello della fotosintesi. Indossare dei vestiti per lei equivale a soffocare. C’è dietro l’aspetto di Quiet l’ennesima provocazione alle critiche femministe? Difficile dirlo, eppure coincidenza o meno, il “personaggio da cosplay” risulta essere alla fine quello più riuscito all’interno del cast del gioco.

Silence is sexy, come affermava una famosa canzone degli Einsturzende Neubauten, e parte del fascino di Quiet in fondo viene proprio dal suo totale silenzio. La sua espressione corporea diventa l’unico vettore di espressione. Come abbiamo detto la lingua è sicuramente il più importante e sofisticato ma di certo non l’unico sistema di comunicazione. Il corpo è uno di questi. Il corpo che qui assume i connotati di apertura estetica al mondo, come esposto nelle tesi di Merleau Ponty. Il corpo che sente e si sente, che scambia continuamente stimoli con l’ambiente esterno. Il corpo diventa il mezzo di comunicazione essenziale. Il corpo che possiede un suo linguaggio e una sua grammatica e che la regia di Kojima non smette mai di valorizzare.

Kaz Miller è un altro caso esemplare. Privato di gamba e braccio, prossimo alla cecità, nel suo rapporto con Snake appare ovvio come la corporeità venga messa in risalto. In quasi ogni scena che lo riguarda Kaz cerca costantemente un contatto col corpo di Snake. Ogni rallenty sembra concentrarsi su questi dettagli. Braccia che si stringono per non cadere, l’andamento zoppicante con cui scende dall’elicottero sorreggendosi a Snake, le continue strette di mano, lo sguardo perso che cerca il contatto visivo. Kaz appare nervoso, consumato da una sete di vendetta e rivalsa molto più degli altri personaggi e mostrata con i suoi gesti, i suoi sguardi, il suo portamento nevrotico ma mai impacciato. Ogni gesto carico di una forza drammatica capace di descrivere il suo stato d’animo meglio di mille parole. Un dolore fantasma che anima una forza eroica e tragica.

QUIET

Quiet non fa differenza, anzi qui il discorso letteralmente esplode facendo leva sulla sua estrema sensualità. Il suo silenzio è la sua forma di fascinazione maggiore, i suoi gesti non sono solo un rinforzo alla sua psicologia ma l’unico modo indiretto di espressione. Un animale selvatico, indomabile, che sfugge continuamente ad ogni forma di approccio ma che lentamente si adegua alla realtà che la circonda, affascinata forse ma mai realmente integrata. A Quiet viene legato l’aspetto più umano e tenero della vicenda. In un mondo dove perfino i bambini sono feroci combattenti incapaci di empatia, lei è l’unica che rischia la vita per recuperare il medaglione perso di uno dei baby-soldato e mostra il suo lato più umano, infantile, giocando nella pioggia durante una delle tante cut-scene che la vede protagonista. Quiet rappresenta a modo suo il fantasma di The Joy, recupera in quei brevi momenti un’umanità perduta e affronta, come lei, un sacrificio finale, quello dell’esilio, per evitare un disastro mondiale.

“Non ho scelto di essere <Quiet>.”

Il gioco di parole è ovvio ma efficace. Così si apre l’ultimo, e unico, dialogo della ragazza nel finale della missione 45 che chiude non solo il suo arco narrativo ma l’intera vicenda del gioco. Il silenzio è il prezzo da pagare per la salvezza del mondo. “Noi non parliamo la stessa lingua” dice a Venom Snake, eppure entrambi condividono lo stesso peso esistenziale. Questo accomuna i due personaggi: Il silenzio di Boss che nasconde un grande gioco di specchi, il silenzio di Quiet che è un’arma, come la donna stessa. Un’arma che sceglie di non sparare. Privandosi del linguaggio Quiet si priva di una nazione, di una reale identità e soprattutto di un legame che non può svilupparsi. Il silenzio di Venom Snake rappresenta una copertura, ma di nuovo, una scelta obbligata, il silenzio salvifico contro il verbo che distrugge invece di creare.

Il linguaggio, in entrambi i casi, è l’unico modo esistenziale per vivere oltre che comunicare. The Phantom Pain itera questo concetto continuamente, affrontando ogni sua sfumatura. Le parole ostili di Kaz sembrano muoversi a vuoto, nella sua fermezza che contrasta il suo corpo martoriato. Le stesse parole di Huey offrono una prospettiva diversa, quella della menzogna, della parola che afferma ma non svela la verità. Gli costerà l’esilio dai Diamond Dogs. Quiet è l’ancora intorno a cui ruotano gli intrecci narrativi, quelli più semplicemente legati alla fabula, come ruolo di terzo vettore di infezione che sparisce affermando la vittoria della missione, sia di quelle tematici, come negativo di tutto ciò che il linguaggio rappresenta nella sua sfera di creazione della socialità e dei limiti che la sua assenza impone. Invalicabili, inenarrabili, destinati a sparire insieme a lei in un deserto silenzioso.

Viene in mente il “sentirsi a casa solo quando si è fuori casa” caro a Holderlin, lo stesso della “lingua” che diventa un tratto di riconoscimento della nazione germanica. Kojima recupera questa unione tra lingua e patria e lo fa in una dimensione pratica, dipanata attraverso il gameplay stesso. Il posto di Snake non è Mother Base, governata tramite delle sterili schermate del menu, ma nel territorio nemico, vera e propria “casa“. È vero infatti che la missione principale di The Phantom Pain, quella che giustifica i continui viaggi in elicottero e il sistema di Fulton, è la ricostruzione di un esercito prima ancora delle vicende che riguardano Zero, i wolbachia e il Sahelanthropus. È l’esempio tangibile di una nazione di soldati in cerca di un corpo, di una carne. Lo spazio amico, in-sicuro di Mother Base, che offre protezione ma che non è esente dai pericoli dell’infezione, e lo spazio nomade, lo spazio nemico, quello dell’open world, che qui assume stavolta un connotato filosofico dirompente: dove il giocatore ambienta le sue avventure, il suo spazio vitale, quello dove gli eventi accadono. I due spazi non sono autonomi, ma si intrecciano irrimediabilmente. Mai il gameplay esprime così tanto il concetto, mai un legame così forte era stato assistito da una pulizia di gioco così curata. Kojima adatta tutti questi diversi impianti teorici ad un contesto bellico, qualcosa di impensabile e quasi offensivo, e li usa come veicolo per raccontare la sua storia, per colmare gli ultimi vuoti in un affresco surreale e gigantesco di cui lui per primo sembra aver perso il controllo ma che non riesce a smettere di esercitare un fascino irresistibile nella sua folle costruzione.

OUTER HEAVEN E IL CREPUSCOLO DEGLI DEI

La citazione conclusiva, quella che si occupa di mettere il punto finale e cambiare nuovamente le carte in tavola, è affidata a Friedrich Nietzsche:

“Non esistono fatti, solo interpretazioni.”

Il relativismo qui assume una valenza ontologica, non solo culturale. È la realtà stessa messa in scacco nella sua conoscibilità parziale affidata ai sensi, ancora il tema del corpo, che possono ingannare. Un esempio importante a riguardo è rintracciabile in un dettaglio che a volte è difficile cogliere nel gioco. Quello del disturbo alla vista di Snake per cui non riesce a distinguere il bianco e il rosso. I due colori si mischiano durante alcune cutscenes dando vita ad un orpello visivo che è facile non notare ma che assume senso quando per un errore Snake spara a Eli scambiandolo per un soldato nemico (la scena è presente nel fantomatico capitolo 51, mai realmente completato e presente solo come filmato incompleto all’interno degli speciali di gioco). Il momento più eclatante in cui la realtà va in frantumi però va ricercato in una scena che si trova all’interno della missione 46, l’ultima del gioco, dove riviviamo gli eventi del lungo e bellissimo prologo aggiungendo due dettagli che cambiano completamente la prospettiva degli eventi.

Il primo dettaglio è un colpo di genio registico, un movimento marginale che gioca con il linguaggio cinematografico più che videoludico e che dimostra la capacità raggiunta da Kojima nel saper padroneggiare un mezzo comunque “accessorio” al mondo del videogioco. In un frammento iniziale vediamo Miller e Big Boss stesi su un letto con un gruppo di dottori che cercano di rianimare quest’ultimo. Big Boss sembra in coma e Miller preoccupato cerca di carpire delle informazioni sul suo stato di salute. La camera è nervosa, oscilla continuamente passando da continui zoom sul volto di Miller alla faccia di Big Boss. Il senso di angoscia è papabile fino a quando Miller, rompendo la quarta parte, guarda direttamente in camera.

“E di lui che mi dite?”

Il cambio è netto. Quello che sembrava un normale campo medio diventa immediatamente una prospettiva. Un punto di vista che mette in discussione ogni evento accaduto nel gioco e cambia la cifra linguistica di tutte le riprese eseguite in The Phantom Pain. Kojima è famoso per le sue lunghe sequenze, qui decisamente contenute come durata, ma quello che fin da subito (ovvero nel prologo di Ground Zeroes) appare chiaro è la volontà di dirigere ogni cut-scene come un piccolo piano sequenza. È facile notare come in ogni filmato non ci sono mai stacchi di camera. I tempi vengono dilatati per permettere alla camera di indugiare e ruotare intorno ai vari personaggi. La maggior parte dei dialoghi avviene con uno dei due interlocutori fuori dall’inquadratura. Non ci sono mai usi di campo e controcampo ma la telecamera assume l’aspetto dello sguardo di uno spettatore esterno. Kojima è l’ulteriore fantasma che si aggira indisturbato per Mother Base, che segue le vicende con un taglio quasi documentaristico. Così anche la presenza fantasmatica dell’immagine filmica, analizzata in tantissime teorie cinematografiche, trova il suo spazio all’interno di The Phantom Pain diventando parte integrante e organica dell’esperienza stessa.

Il secondo dettaglio toglie di mezzo ogni ragionevole dubbio. È il gioco di specchi in cui “noi” giocatori assistiamo stavolta linearmente al cambio di identità. È di nuovo un dettaglio a darci la conferma. Le due fotografie sovrapposte che una volta spostate ci mostrano affianco a Big Boss offrendo la prova incontrovertibile di una presenza fisica, ontologica, del nostro esserci nel gioco. La foto e lo specchio. Ancora due oggetti dall’incontroverbile portata filosofica che si fanno carico di attestare l’esistenza del giocatore nel mondo di gioco. L’ulteriore scarto è ormai chiaro, girata la foto vediamo una dedica di Boss dove appare il nome del giocatore. Noi siamo Big Boss, presi come singole entità fantasmatiche all’interno del mondo di gioco in un ruolo che prevarica la semplice bipartizione tra avatar e giocatore. The Phantom Pain rompe questa distanza. Abbiamo plasmato gli eventi, abbiano scelto di essere carnefici sanguinari o agenti silenziosi e nascosti nell’ombra. L’ultimo passo è allora il pugno nello specchio che rompe ogni legame con la contingenza, con il passato. Il simbolo di Outer Heaven appare per un attimo sul braccio di Boss. La Storia è conclusa, il cerchio è chiuso.

Lo specchio che si rompe, per citare ancora Nietzsche, segna non solo la vittoria del relativismo, ma la morte del mondo apparente. Il velo di maya è caduto. È il trionfo del nichilismo, della perdita dei valori assoluti, e il rovesciamento del dualismo che non viene scardinato ma solo ribaltato. La monade, il mondo unico platonico è rappresentato dall’eredità dei filosofi, il piano in cui Boss e Zero credevano e che subisce una frattura. L’uno diventa due, Zero e Boss prima, i due Big Boss ora, David ed Eli dopo, costretti da un destino già scritto a continuare un conflitto inevitabile. Lo sanno Miller e Ocelot che nell’ultima discussione mettono in chiaro con una certa rassegnazione le loro posizioni che li vedranno nemici sul campo di battaglia. Il crepuscolo degli dei è arrivato. L’unica presenza divina all’interno di Metal Gear è sempre e solo stata quella di Big Boss, vero demiurgo leggendario, con la sua ingombrante ombra che ora si staglia sul fuoricampo di tutto il gioco mentre ci osserva vittorioso col sigaro acceso a bordo della sua motocicletta. Svuotato da ogni valore inizia così la perdita della morale. Eli può essere sacrificato, i soldati infetti uccisi. La violenza del campo di battaglia perde il suo lato romantico, resta solo la tragedia. La nascita di un cattivo d’antologia e di un male necessario. L’uomo che ha venduto il mondo.

“Col mondo apparente […] abbiamo perso anche quello vero.” F. Nietzsche

Il mirabolante spostamento dell’attenzione iniziato con Metal Gear Solid arriva a compimento. Solid Snake, che sembrava il vero protagonista della saga, diventa un evento marginale, necessario certo, importante, ma è solo un astro in una costellazione eliocentrica dove il vero sole è la figura di Big Boss. Kojima aveva già provato qualcosa di simile nel secondo Metal Gear Solid, mettendo il giocatore nei panni di Raiden e narrando le avventure legate a Snake di riflesso, esterno al controllo del giocatore e in parte alla sua comprensione. Il trucco è lo stesso ma stavolta eseguito con una maggiore maestria.

SINS OF THE FATHERS

L’ultimo punto, il più chiaro e il meno problematico, è quello del lascito. Anche stavolta nulla di nuovo sotto il sole. Metal Gear ha sempre giocato sul rapporto tra Big Boss e i suoi cloni, ma stavolta viene il momento di affrontarlo direttamente. Eli diventa l’unico elemento di raccordo con gli episodi successivi, più di quanto non lo sia David, “stranamente” tenuto fuori.

Stranamente? Forse nemmeno tanto, perché in fondo David è ignaro della sua eredità genetica, la scopre in uno dei colpi di scena maggiori di Metal Gear Solid. È Liquid che invece affronta il suo percorso con la consapevolezza di una figura paterna ingombrante. L’irruenza adolescenziale, anche qui, vive con una pulsione di morte legata all'ambientazione bellica. Eli sa di essere figlio della leggenda, il suo ruolo freudiano è oggettivato come motivo di vita da Cipher stesso: Eli è nato per essere come suo padre, se non migliore di suo padre. Il suo ruolo esistenziale è quello di ucciderlo. Il bambino non si integra tra i fratelli di Mother Base, non semplici soldati ma “figli” di Boss, generale e figura paterna dell’ordalia militare.

È Freud a porre l’attenzione sulla figura patriarcale e sulla necessità di superarla, di cannibalizzarla, per prenderne il posto in un circolo psichico inviolabile. Kojima perde il lato teorico ma ne pone una forma tangibile ineccepibile. Eli ruba il Sahelanthropus, simbolo di vittoria delle gesta di Big Boss per dimostrarsi all’altezza della situazione, la protesi tecnica diventa l’estensione in grado di colmare il gap tra lui e Snake. Di offrire uno scontro ad armi pari. Il fallimento va pagato a caro prezzo: lo vediamo mentre Snake si allontana prima che l’isola contaminata venga nuclearizzata e il bambino porta la canna della pistola alla testa prima che il ragazzo psichico lo salvi. Sarà questo trauma che ritroveremo in un Liquid ossessionato dalla figura del padre e da Outer Heaven nel primo Metal Gear Solid.

La rimozione ha inizio. Un ulteriore dettaglio che aggiunge complessità psicologica alla sua figura. Sono state molte le lamentele del “poco spazio” dato alla chiusura della storia di Eli ma a pensarci bene la cosa sarebbe solo che superflua visto che Eli/Liquid vede la sua chiusura in tutti gli eventi che si dipanano in Metal Gear Solid. Non serviva un vero finale perché c’era già un finale a riguardo. L’altro spettro, il negativo, è invece nella figura contorta di Huey. Meschino e codardo, il relativismo per Huey diventa uno strumento di salvezza per sopravvivere alle situazioni ostili che deve continuamente affrontare.

“Inventi così tante bugie per fare contento chi ti parla che poi finisci anche tu per non ricordare più quale è la realtà.” K. Miller

I peccati di Huey cadono su Hal, che a differenza del padre prenderà la sua responsabilità per la creazione del Metal Gear Rex. La somiglianza estrema tra i due personaggi non è solo un collegamento stilistico, sembra quasi l’evoluzione carnale dell’eterno ritorno. Padre e figlio, come incarnazione di una figura unica, sembrano destinati a ripercorrere lo stesso circolo peccaminoso da cui non c’è via di fuga.

DIAMOND DOGS

Questo articolo nasce con l’idea di elaborare, sommariamente, alcuni spunti presenti in Metal Gear Solid V. Non ha il compito di essere esaustivo sui singoli temi, troppe cose sono state tralasciate (la figura di Ishmael e i suoi riferimenti letterari e biblici ad esempio) e molte avrebbero necessitato più spazio (sul concetto di linguaggio, corpo e fantasma ci sono dozzine di testi che ben potrebbero collegarsi a quanto The Phantom Pain mette in scena) ma sarebbe stato troppo specialistico per un articolo di questo genere. Il punto resta quello di mostrare come, aldilà delle facili critiche, Kojima resti ancora oggi un autore formidabile, con il coraggio di inserire e contestualizzare nei suoi videogiochi tematiche profonde, anche a costo di semplificare e di non rendere giustizia alla loro portata. Questo lo rende, nell’ambito mainstream ma non solo, uno dei pochi pionieri a cui va riconosciuto il merito di legittimare il mezzo videoludico, di prenderlo sul serio nonostante le sue idiosincrasie, le sue ossessioni e le sue debolezze. Di calare il giocatore in un contesto fertile, che lo spinge a interrogarsi, a interpretare, ad avere un ruolo sempre attivo senza dimenticare la sua presenza ambivalente (anche questo è un punto su cui Metal Gear è sempre stato intransigente) senza mai prenderlo in giro, senza mai delegittimarlo dal suo ruolo.

Il suo linguaggio, la sua madre patria, è il gameplay. E Kojima ne prende atto dando vita a un gioco che sa parlare, che parla il linguaggio del giocatore. Perché The Phantom Pain non è solo l’addio a una saga storica, amata incondizionatamente dai suoi fan e che ha scritto la storia dei videogiochi con i suoi titoli. È anche un atto di amore verso i giocatori, il titolo con il gameplay più raffinato, più esteso e appagante di tutta la serie che porta la sua visione dell’open-world e iscrive definitivamente il ruolo del giocatore all’interno degli eventi della saga. È un ringraziamento che Snake stesso afferma, in una commovente scena, dove le sue parole si mischiano irrimediabilmente con quelle del suo autore:

“You are all diamonds” V. Snake

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Mauro Ferrante
The Shelter

Prima o poi troverà un lavoro serio, nel frattempo parla di videogiochi, scrive di videogiochi e pare addirittura stia provando a farne uno.