Dalla tela ai pixel: cosa resta dell’arte nel mondo virtuale?

Mauro Ferrante
The Shelter
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10 min readFeb 1, 2014

Esiste una branca di ricerca specializzata denominata visual studies il cui scopo è interrogarsi sullo statuto dell’immagine al giorno d’oggi in luce della sua estrema diffusione e varietà di forme, quella digitale su tutte. Un percorso derivato da un lunga tradizione che solo negli anni Trenta cerca di sanare la scissione sempre esistita fra immagine artistica e immagine comune. Il passo più significativo è probabilmente quello compiuto da Aby Warburg negli anni Trenta con il suo Atlante Mnemosyne dove, tramite un vero e proprio montaggio visivo, lo storico dell’arte (o storico delle immagini come amava definirsi) accosta dipinti, locandine, foto di giornale e altre immagini di ogni tipo. La ricerca di Warbug porta a vari risultati destinati a cambiare per sempre il mondo della critica artistica.

Uno di questi, che emerge poi chiaramente grazie a molti autori che affronteranno l’argomento nel corso del tempo, è che tra immagini e media non esiste un rapporto automatico. La storia delle immagini non è la storia dei suoi media, che sono qui riportati ad un suo senso etimologico forte, quello di mezzo tramite il quale viene trasmesso “qualcos’altro”. Questo “qualcos’altro” è l’essenza stessa dell’immagine, vero obiettivo di ricerca nell’ambito dei visual studies. L’immagine non è il medium ma non c’è altro modo di esperirla se non nel suo medium.

Eterno paradosso tornato in primo piano nel mondo moderno per il semplice fatto che viviamo in una società governata dalle immagini. Queste fanno parte ormai di una convergenza di media che si intersecano fra loro provocando confusione da un lato e permettendo, dall’altro, di cercare nello scarto fra i mezzi qualcosa che possa riattivarle. Non ci sono mai state così tante immagini come oggi ed esse non hanno mai avuto un ruolo così importante nella nostra vita. Eppure, paradossalmente, ne siamo così circondati che abbiamo smesso di prestare loro la dovuta attenzione. Basti pensare a come fino a non molti anni fa la maggior parte delle informazioni erano veicolate per lo più in modo testuale. Dalla lunga tradizione orale al testo scritto, e poi fuori dal circuito televisivo o cinematografico, ogni immagine poteva essere in qualche modo riportata ad una sua dimensione conoscitiva. Lo schermo di un cinema, il poster di un amaro nel bar, le foto delle vacanze estive.

Possiamo dire che ancora oggi sia così? Pensiamo solo a quanto forte è diventato il ruolo delle infografiche rispetto ai vecchi e pesanti “verbali” nelle aziende o negli uffici. Pensiamo a come le fotografie che prima vivevano la maggior parte della loro vita in polverosi album-raccoglitori, oggi vivano in forme e formati differenti tra vari social-network. Pensiamo a come l’immagine virtuale si sia sempre più mischiata a quella reale, portando a una vera e propria inconoscibilità originaria. Il problema è complesso e tocca questioni anche molto variegate. Il punto da tenere a mente e che ormai dovrebbe essere chiaro a tutti è che l’immagine è un’entità con la sua forza autonoma e le sue proprietà ben definite. Inseparabile dal suo mezzo trasmissivo, ma ben separata dal Logos e non riducibile a un livello prettamente linguistico.

L’analisi delle opere d’arte sotto quest’ottica non diventa allora un pretenzioso esercizio intellettuale. Il dipinto e la scultura (ci riferiamo qui chiaramente alle arti visive) erano solo due dei tanti mezzi in cui le immagini si davano al pubblico. Senza qualcosa di fisico che la veicola l’immagine non può esistere, ma la sua natura non è prodotta dal mezzo stesso. È solo tramite un lavoro che comprende anche il fruitore, con la sua cooperazione intesa come interazione con l’opera (e non interattività, attenzione a non confondersi), che il procedimento permette di giungere ad un’esperienza. Che tipo di esperienza? Estetica, chiaramente, ma intesa come qualcosa che ha a che vedere con i nostri sensi, con la vista in primis ma non solo. Qualcosa che mette in moto alcuni processi capaci di andare ben oltre il semplice “guardare” la figura.

L’opera d’arte si guarda. Ma in quel guardare c’è ben altro oltre la mera passività della stimolazione retinica. Si instaura un complesso lavoro che riguarda non solo la nostra percezione, ma altre facoltà umane, intelletto e immaginazione su tutte. È dai sensi che bisogna partire per arrivare a capire che uno studio dell’opera d’arte è per prima cosa uno studio di come “facciamo esperienza” del mondo e soprattutto di cosa questo provoca in noi. Allora, piuttosto che petulare sul mondo digitale che ci rende più sterili e distanti, possiamo invece cominciare a capire come oggi è cambiato il nostro modo di comunicare, di guardare e di fare esperienza là dove la tecnologia ha profondamente modificato ogni nostra usanza.

Se la nostra sensibilità è l’unica via di accesso che abbiamo al mondo cosa succede quando questi sensi vengono supportati o filtrati da dispositivi elettronici? Non è niente che non sia in qualche modo già stato visto da ognuno di noi. Quanti portano gli occhiali? Uno strumento che, in questo caso, sopperisce a una mancanza fisica tecnicamente. Proviamo a pensare invece a quei dispositivi che potenziano vista o udito portando a un aumento delle prestazioni della nostra sensibilità. Gli occhiali della realtà aumentata non curano nessun difetto fisico ma ci danno qualcosa di più che i nostri sensi non possono darci. Lo stesso telefonino diventa in fondo un’estensione spaziale della nostra voce; la macchina che guidiamo un’estensione delle nostre gambe. La tecnologia è sempre stata un’estensione delle capacità umane.

Il visore virtuale rappresenta lo strumento che più ci incuriosisce sotto quest’ottica. Apice dell’illusionismo percettivo ma anche una tecnologia in grado di scardinare il modo comune con cui ci interfacciamo a mondi illusori. È notizia recente di un visore che invece di avere uno schermo proietta un fascio di luce direttamente sulla retina di chi guarda annullando completamente la distanza dal medium. L’inganno perfetto.

Indeterminatezza che non passa più nemmeno nella consapevolezza di due realtà ancora delineabili in qualche modo. È con questa premessa alle spalle che vorrei analizzare un caso particolare, quello dei visori come l’Oculus Rift usati per visitare dei musei virtuali. Molta enfasi è stata posta sulla possibilità di poter finalmente avere accesso a opere lontane comodamente seduti a casa. Senza contare che il mondo virtuale permette un’interazione con l’opera in cui è possibile avere accesso alle più disparate informazioni in modo veloce, intuitivo ed esaustivo sostituendo così del tutto la barbara usanza dell’audioguida. Sulla carta sembra tutto fantastico, ma è davvero così?

Quello del museo virtuale è un concetto che non è così nuovo come si crede. Nel suo saggio La realtà nell’epoca del virtuale del 1997, Ingrid Stoppa-Sehlbach parla di un museo digitalizzato visitabile dall’utente tramite un apposito visore che permette la visione di qualsiasi opera d’arte. L’esperienza contemplativa diventa interattiva quando, in qualche modo, è possibile finalmente toccare quel dipinto per saggiarne meglio i dettagli o sapere qualcosa di più sulla vita dell’artista. Qualcuno ha parlato di “resurrezione dell’arte” nel riportare in auge un tipo di esperienza (quella museale in questo caso) che per problemi logistici, politici e sociali sta lentamente morendo. Qui si aprono diramazioni che esulano dal nostro discorso specifico. Da un lato c’è la critica a chi ha trasformato l’arte in un contest monetario relegando il museo a un attività di profitto più che di divulgazione culturale. Dall’altra c’è chi insiste che il cittadino, dal canto suo, non venga più educato adeguatamente ad apprezzare il patrimonio artistico. Non ci interessa in questa sede discutere sul ruolo del museo fisico quanto più invece pensare alle possibili implicazioni di quello virtuale.

La prima e la più ovvia è chiaramente se la visualizzazione di un dipinto digitalizzato tramite l’Oculus Rift possa fornirci la stessa esperienza del vedere l’opera dal vivo. Riformulata in modo più prosaico, c’è da chiedersi se un’immagine del Rembrandt vista attraverso un visore tridimensionale sia ancora un Rembrandt. Certo, una parte della risposta è facile, almeno per il Rembrandt nessuno ha dubbi che l’originale sia ben diverso da quello digitalizzato. Se queste due esperienze possano in qualche modo essere paragonate, già diventa un altro bel problema. In verità questa domanda è già stata posta altre volte durante la storia. La pittura si è già trovata in condizione di fronteggiare acerrimi nemici che rischiavano di usurparne il posto con l’invenzione della fotografia. La fotografia, sia come mezzo artistico autonomo che come semplice mezzo di riproduzione del reale, rivoluzionò completamente sia la fruizione sia lo studio delle opere d’arte.

Già allora ci si chiedeva se questo mezzo non avesse screditato la sacralità dell’arte pittorica. Qualcuno, come Walter Benjamin, sosteneva che la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte comprometteva irrimediabilmente l’esperienza originaria. Benjamin scrisse le sue tesi contro la riproducibilità tecnica nel 36 ponendosi dalla parte di chi criticava i nuovi mezzi di diffusione. Dalla parte opposta altri personaggi illustri come Panofsky si schierano dalla parte degli entusiasti. Fatto sta che quella rivoluzione cambiò il mondo dell’arte. Da Duchamp in poi, con l’emergere dell’arte concettuale, questa divenne un privilegio elitario se non direttamente autoreferenziale al punto da non volere più nessuno spettatore. L’introduzione del video destabilizzò ancora di più la situazione, dando vita ad una serie di derive che guardavano ormai solamente all’artista come oggetto di interesse e di culto. Piero Manzoni o Marina Abramovic mostravano come l’importanza era nella loro idea e nella loro azione. L’opera, perso il suo valore storico di mimesi o di semplice forma di espressione, era diventata una deiezione. Uno scarto necessario e contingente al gesto, vero protagonista, rilegato solo a testimonianza dell’assenza, fisica e temporale, dell’autore.

Chiedersi se queste opere siano ancora definibili come arte nel Rift è solo un gioco intellettuale che conduce a vicoli ciechi. Se cerchiamo di rispondere negativamente ad una trasposizione fisica rischiamo di confondere l’immagine e il medium, ma se l’accettiamo per buona diamo per scontato che il quadro allora è un supporto superfluo, quando invece nell’opera originale questo ne rappresenta un’esemplificazione fondatrice. Insomma, riportare in auge la pittura tramite una virtualizzazione non pone solo un problema filologico di fruizione. Il lavoro della visione (che meriterebbe purtroppo un discorso specifico per capirne meglio molti aspetti) attraversa in questo caso due media, non uno, creando una distanza che rende l’immagine così estremamente densa da risultare, se non illeggibile, forse completamente asettica.

Siamo tornati al discorso se un’opera d’arte guardata in foto mantiene ancora lo status normativo. Non c’è neanche bisogno del Rift per provare ciò, aprite Google e cercate un quadro di Donatello. Cominciate a guardarlo e ponetevi le stesse domande, troverete probabilmente gli stessi ostacoli. Forse allora è più costruttivo chiedersi come il Rift possa cambiare la nostra percezione. Come possa creare nuove forme piuttosto che riciclarne di vecchie così da riscrivere regole date per assodate e riconfigurare la nostra esperienza in modi ancora inesplorati. Possiamo farlo attraverso un esempio che ci mette davanti a dei dipinti famosi? Per chi vi scrive no e per un motivo ben preciso.

Se si prende la fruizione dell’arte da un punto di vista storiografico sicuramente questo approccio offre grandi opportunità. Se consideriamo la fruizione del quadro come la conoscenza del suo contesto storico e delle informazioni tecniche e stilistiche allora non c’è nulla da eccepire. Ma se consideriamo il paradigma dell’arte come lo abbiamo inteso sino ad ora allora forse il Rift non può fare molto e non per causa sua. Il problema non sta nella nostra reazione davanti a un dipinto reale o uno virtuale. L’esperimento si può fare ed è sicuramente interessante. Il punto forte che dà un senso a questa operazione è però a monte, intrinsecamente legato alla storicità dell’opera d’arte stessa. Forse Hegel e Danto avevano ragione. Forse l’arte è morta e queste opere hanno fatto il loro tempo, adempiendo ai loro presunti compiti, funzionando in un determinato contesto, con un determinato pubblico che semplicemente, oggi, è cambiato. E allora rianimare questi vecchi fantasmi in digitale non può molto se non alimentare il già avviato meccanismo economico museale. Questo luogo tanto sacro nella parola quanto estraneo alla realtà che espone cadaveri di un altro mondo, separato dall’odierno molto più di quanto non lo sia quello virtuale. Incapace ormai di dialogare con un pubblico che magari forse non vuole più udirlo, o ha dimenticato il linguaggio per farlo, oppure (e non possiamo scartare questa tesi a priori) sa già tutto quello che ha da dire.

Se l’opera d’arte, per antonomasia, perde la sua indeterminatezza capace di stimolare lo spettatore, non vuol dire che una semplice ri-mediazione possa improvvisamente cambiare le cose. Ciò non toglie che un software di questo genere possa essere utile per scopi divulgativi ed educativi in modo molto più efficace di un qualsiasi manuale di storia dell’arte, e sotto questo punto di vista è un opportunità con molto potenziale. Ma ci muoviamo nella periferia di una ricerca vacua, che forse può risolversi nel riversamento nelle forme interattive, o forse è destinata a essere soppiantata per sempre da altro. Perdere l’arte non vuol dire perdere l’irrecuperabile ma assistere ad una trasfigurazione di forme, di mezzi e di immagini. Il senso ancestrale e forte di quest’ultime andranno cercate in altri medium, sotto altre spoglie, da un’altra parte. Sul quale sia quest’altra parte, chiaramente, è inutile che insista maggiormente perché credo sia chiaro a tutti…

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Mauro Ferrante
The Shelter

Prima o poi troverà un lavoro serio, nel frattempo parla di videogiochi, scrive di videogiochi e pare addirittura stia provando a farne uno.