Dunkirk non racconta la guerra, te la fa sentire

Alessandro Di Romolo
The Shelter
Published in
5 min readSep 4, 2017

Nell’era dei giudizi affrettati e degli entusiasmi costruiti da mesi e mesi di campagna pubblicitaria, l’abuso ha svuotato la parola capolavoro di ogni significato. Parafrasando uno sketch di Louis C.K. tratto dallo show Hilarious, se hai definito, ad esempio, Wonder Woman “un capolavoro”, cosa farai quando ti capiterà tra le mani un vero capolavoro? Passiamo, senza rendercene conto, gran parte della nostra esistenza a limitarci verbalmente, a spendere parole di elogio e aggettivi altisonanti per cose assolutamente ordinarie, senza darci il tempo necessario a esaminare, a bocce ferme, quello che abbiamo visto e a dargli una valutazione obiettiva, consapevole. Non so se lo facciamo per pigrizia, o per fretta, o per entrambe le cose.

Sta di fatto che il tempo, per quanto mi riguarda, è un ingrediente fondamentale: siccome il vero significato di capolavoro mi sfugge, ho deciso non solo di smettere di utilizzarlo (chi segue con costanza The Shelter, probabilmente si sarà reso conto che ho scritto più volte “capolavoro” in questa introduzione che in quattro anni), ma anche di dargli un’accezione tutta mia, in un certo senso limitandomi verbalmente al ribasso. Per me, capolavoro è la pietra miliare, è quel film che, nel tempo, si è imposto come standard, ha ispirato le opere successive degli altri cineasti e influenzato l’immaginario collettivo. Un concetto, da un certo punto di vista, completamente slegato dal giudizio a caldo dell’opera: insomma, la storia del cinema è piena di film bastonati da pubblico e critica alla loro uscita che si sono presi una rivincita diversi anni dopo.

Il tempo è fondamentale, ma questo non esclude la possibilità che, a volte, ci si possa azzeccare a parlare subito, senza aspettare, di capolavoro. L’ultima volta che è successo si trattava di Mad Max: Fury Road, e chi ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un capolavoro e si sbilanciò (mi ci metto anche io), dimostrò una buona dose di lungimiranza. Due anni e mezzo circa dopo la sua uscita nelle sale, stiamo ancora parlando del film di George Miller: c’è stato un rifiorire del post-apocalittico, alcune espressioni sono entrate nel linguaggio comune, cineasti fanno a gara a chi riesce a mettere in piedi la sequenza più “mad maxy” e una parte di Hollywood ha riscoperto il gusto per l’azione girata in una certa maniera, senza abusare della CGI, e per la narrazione attraverso le immagini in movimento.

Oggi, Dunkirk di Christopher Nolan, un film che nell'approccio alla narrazione cinematografica ricorda molto Fury Road, restituisce più o meno le stesse sensazioni: quella di trovarsi di fronte al cinema al massimo della sua potenza espressiva, quella di aver visto un’opera della quale si parlerà per anni, quella di non aver mai visto un film di guerra come questo. Che poi sia anche l’ennesima riflessione sul tempo di Nolan, è solo una felice coincidenza.

La trama è ridotta all’osso: durante la Seconda Guerra Mondiale, nel maggio 1940, l’avanzata tedesca costrinse le armate anglo-francesi a ripiegare verso le coste della Manica, intrappolando circa 400.000 soldati nel territorio trincerato di Dunkerque. Sperando di recuperarne almeno 45.000, l’ammiragliato inglese organizzò in tempo record l’operazione Dynamo, un’operazione di evacuazione via mare che ebbe successo, e fu consegnata alla storia come “il miracolo delle piccole barche”, grazie anche al contributo dei civili che misero a disposizione le proprie imbarcazioni da pesca e da diporto. Furono salvati 338.226 soldati.
Per quanto la storia vera sia ricca di sfumature, di luci e ombre sui perché della riuscita dell’operazione, Dunkirk preferisce un approccio intimista, concentrandosi su due elementi: il dualismo, tra la vergogna dei soldati per aver preso parte al più colossale disastro militare britannico e la loro volontà di sopravvivere, e la notevole impresa di una nazione, incarnata da un civile a bordo della sua barca e da un pilota della RAF, che decide di attraversare la Manica per andarli a salvare.

Dunkirk è il frutto dell’immenso talento visivo di Nolan, lasciato libero di scorrazzare a briglia sciolta per spiagge desolate, mari oleosi e cieli sterminati. Appoggiandosi, per la prima volta nella sua carriera, a un fatto realmente accaduto, il regista britannico si è svincolato dal peso di sceneggiature che nel tempo si sono fatte sempre più cervellotiche e meno spontanee, raggiungendo il culmine con Interstellar. Esonerando se stesso dal dover cercare il colpo di scena a effetto a tutti i costi e dal dover imbastire artificiose situazioni senza via d’uscita (la Storia, con la s maiuscola, gliene ha apparecchiata una incredibile), Nolan si è trovato libero dalla dittatura della trama. Libero di poter comunicare la potenza e la miseria della guerra senza dover raccontare una storia convenzionale, o quantomeno di non doverlo fare a parole bensì attraverso l’azione, le immagini in movimento, le angoscianti musiche fatte di ticchettii e i suoni assordanti. Dunkirk tratteggia i personaggi attraverso i gesti; dipinge situazioni, stati d’animo ed emozioni attraverso le espressioni facciali e gli sguardi, ricorrendo spesso a un espediente cinematografico tanto caro a Spielberg, ma declinato a volte in chiave spaventosa, a volte disperata, solo in un’occasione nella sua forma originaria, liberatoria, che trasuda gioia e stupore.

If you know what I mean.

È praticamente un film muto: è scarno, scorrevole, rapido. Il più corto tra quelli di Nolan, subito dopo il suo debutto alla regia (Following), eppure non è meno ambizioso degli altri. Le tre storyline si svolgono, senza didascalie (tranne quella, necessaria, iniziale che chiarisce le tempistiche), su piani temporali differenti: una settimana a terra col nemico alle calcagna, un giorno via mare, un’ora a bordo di un Supermarine Spitfire della Royal Air Force. Le tre sottotrame si intrecciano, si aggrovigliano in maniera asincrona e spesso viene ripetuta la stessa sequenza da punti di vista diversi, generando loop e (volute) incongruenze rispetto alla narrazione filmica lineare che costringono lo spettatore a mantenere una soglia dell’attenzione superiore al blockbuster medio.

Dunkirk, nell’approccio alla narrazione cinematografica, ricorda molto Fury Road

Senza mai spettacolarizzare o esagerare, senza trasformare in un trionfo quella che è innanzitutto una storia di sopravvivenza nel contesto di una sonora sconfitta, Nolan regala immagini autentiche che parlano da sole, mantenendo per tutta la durata un regime di ansia che lascia esausti, svuotati. Pensate alla scena dei battelli ne Il cavaliere oscuro: ricorrendo ossessivamente a un escamotage sonoro tipico di Hans Zimmer, qui Nolan mantiene quel livello di tensione per 106 minuti; dilata l’inquietudine e il senso di precarietà senza mai sfilacciarli, ed è un risultato incredibile considerato il fatto che va a rompere regole consolidate sul ritmo della narrazione, sulla divisione in tre atti e sulla rappresentazione dei personaggi.
È cinema puro, che ripudia la parola (o meglio, la didascalia) per ribadire la centralità dell’immagine, e che rivendica l’importanza della sala cinematografica per restituire allo spettatore un’esperienza genuina, viscerale e sconvolgente, che va apprezzata sullo schermo più grande a vostra disposizione. Dunkirk la guerra non te la racconta, te la fa sentire. Un capolavoro, probabilmente.

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