Game of Thrones è cambiato

Attenzione, l’articolo contiene spoiler sulla settima stagione

Alessandro Di Romolo
The Shelter
11 min readAug 29, 2017

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La mutazione è la chiave della nostra evoluzione: da organismi monocellulari, ci ha consentito di diventare la specie dominante sul pianeta. Questo processo è lento e normalmente richiede migliaia e migliaia di anni. Per le serie TV, il processo non è poi così raro, specie per quelle che tirano la corda oltre un certo numero di episodi: quando si verifica, spesso e volentieri, il cambiamento si concretizza con un salto dello squalo, che ridesta gli spettatori con una brusca presa di coscienza, scoraggiandone alcuni dal proseguire con la visione. Eppure per quanto, come appena detto, sia cosa comune vedere uno show televisivo mutare, deviare dal solco tracciato dalle precedenti stagioni perché le cose da dire sono finite (o perché non si sa come concludere una storia, vedi Lost), è raro assistere a un cambiamento così repentino, così spudoratamente esplicito e spericolato come quello a cui hanno assistito gli spettatori della settima stagione di Game of Thrones.

Nel caso qualcuno si fosse distratto, la daga che affonda nella gola di Ditocorto, chiudendo un cerchio aperto proprio con la stessa daga nella prima stagione, è un messaggio scolpito a caratteri cubitali sul ghiaccio della Barriera: è finito il tempo degli intrighi di corte, chi doveva ottenere il potere attraverso congiure e tradimenti l’ha già fatto, resta solo da incrociare le spade. Il tentativo di riprendere per i capelli quella componente lì, con l’ultimo colpo di coda di Cersei — che pochi istanti dopo aver giurato a Daenerys di aiutarla dichiara a un attonito Jaime che non intende supportare il conflitto contro il Re della Notte — è goffo, poco raffinato, telefonato e sin troppo repentino. Sicuramente meno convinto della dipartita di Lord Baelish.

Il personaggio che meglio incarnava lo spirito originario dello show, ovvero che non esistono buoni o cattivi ma solo personaggi stupidi e personaggi astuti che li manovrano su una scacchiera che solo loro vedono, ha cessato di esistere. Con il suo ultimo piano ha ottenuto un nuovo sorriso che zampilla sangue invece che parole che seminano zizzania: la volontà di mettere contro le due sorelle Stark si è infranta contro i valori della casata di Grande Inverno. Diversamente da quando una serie di circostanze portarono alla decapitazione di Eddard, il cui nome riecheggia spesso in questa stagione nei comportamenti dei figli (naturali e adottivi, come sottolineato da Jon nel dialogo con Theon), quei valori sono stati forgiati da violenze e soprusi e ora poggiano su fondamenta troppo solide, troppo forti perché il gioco del trono, quello originario, sia equilibrato. Arya e (soprattutto) Bran sono deus ex machina ambulanti, scudi che difendono Jon e Sansa, due personaggi già di per sé intoccabili di natura.

È finito il tempo degli intrighi di corte

Game of Thrones non è più quello che conoscevamo e che avevamo imparato ad amare, e forse dovevamo aspettarcelo. Sapevamo che lo show di ambientazione medievale post-fantasy, senza magia e creature soprannaturali, sarebbe diventato uno show in cui le persone resuscitano, draghi enormi volano e sputano fuoco e i morti camminano. Sapevamo che, prima o poi, sarebbe giunta una guerra tra bene e male, che è un terreno poco fertile perché attecchiscano sotterfugi e tradimenti inaspettati. Sapevamo anche sin dalle prime pagine de Le Cronache del ghiaccio e del fuoco che questa è innanzitutto la storia di Jon e di Dany, e sospettavamo che prima o poi i due si sarebbero innamorati (sospetto corroborato dalle origini di Snow, che non sono mai state un reale segreto).

Ed è forse questo il problema più grande di questa settima stagione: la prevedibilità. Lo show che più di tutti ci aveva abituato a sfilarci il tappeto sotto i piedi ogni volta che pensavamo di aver trovato una postura stabile è diventato calcolabile, ipotizzabile. Il che non significa necessariamente che sia diventato brutto.

Uno spettro, quello della bruttezza, che fortunatamente Game of Thrones continua a eludere giocando su valori produttivi impensabili per un prodotto televisivo, su personaggi indimenticabili e su un ritmo che, ora più che mai, non lascia spazio a momenti morti. È divertente, è bello da vedere e dà assuefazione. Tuttavia, non solo resta l’amaro in bocca per aver perso quella componente di incertezza che aveva reso accattivanti le precedenti stagioni (specie la sesta, la prima a non fare affidamento sull'opera letteraria), ma l’ultimo tratto del percorso attraverso il quale si è giunti a quello che tutti sapevano sarebbe accaduto non è stato impeccabile come si poteva sperare.

La fretta, si sa, è cattiva consigliera. Quando David Benioff e D.B. Weiss annunciarono che lo show si sarebbe concluso con due stagioni da sette e sei episodi, la cosa non mi dispiacque affatto. Di serie di successo che allungano il brodo oltre il sopportabile ne ho viste abbastanza, viva Dio che ne esista una capace di andare dritta al punto senza troppi fronzoli o tentennamenti.

Apprezzavo, e apprezzo tuttora, il coraggio di dire “basta” a uno show che infrange record d’ascolti a ogni puntata e che genera un enorme indotto in termini di merchandise. Però, a conti fatti, la fretta non ha fatto benissimo alla serie: la sensazione di assistere a una corsa contro il tempo si è tradotta in un accumulo di eventi ai quali, a causa dell’urgenza di raccontare tutto nei tredici episodi rimasti, non è stato dato il giusto respiro.

La fretta non ha fatto benissimo allo show

Pensate a quante cose sono successe in questa stagione: tre casate (Frey, Martell/Sand e Tyrell) sono state depennate dalla lista, un Targaryen ha messo di nuovo piede nel continente occidentale dopo quasi due decenni, due importanti roccaforti (Castel Granito e Alto Giardino) sono state conquistate, tutti gli Stark ancora in vita sono tornati a Grande Inverno, è stata compiuta una missione suicida oltre la Barriera, un drago è morto (e risorto), la Barriera è crollata e i morti sono entrati nel Westeros. E perché tutte queste cose accadessero, un gran numero di personaggi che non si erano mai incontrati prima si sono ritrovati nello stesso posto, attraverso una moltitudine di spostamenti che sfidano la coerenza spaziotemporale della narrazione.

Tutto compresso, tutto schiacciato con la pretesa di chiudere archi narrativi nello spazio di un episodio. In alcuni frangenti ho avuto l’impressione di guardare riassunti, che non rendevano giustizia a quanto stava accadendo. In tal senso, il terzo episodio è quanto di peggio abbia mai offerto Game of Thrones: se i riassunti delle scorribande di Robb Stark erano tollerabili nella seconda stagione, quando non c’era il budget per inscenare una battaglia come si deve, dopo la Battaglia dei bastardi non si può più tornare indietro. Non mi basta più sapere che i Lannister hanno conquistato Alto Giardino; voglio vederlo, voglio viverlo.

Lo voglio perché Game of Thrones, pur in una stagione in cui abbondano i riassunti e i viaggi si esauriscono nello spazio di pochi stacchi di ripresa, è ancora capace di dimostrare che, quando mostra qualcosa piuttosto che raccontartelo a voce, non fa prigionieri. Non parlo solo del favoloso attacco alla carovana del quarto episodio, ma anche della battaglia navale tra i Greyjoy in coda al secondo, del primo contatto tra Jon e Drogon, della battaglia contro i morti sul lago ghiacciato, di ogni volta che i draghi fanno una comparsata, lasciando tutti col fiato in sospeso a stropicciarsi gli occhi. Persino i momenti più verbosi — come il concilio alla Fossa del Drago del settimo episodio e i tanti momenti in cui Varys e Tyrion cercano di arginare la veemenza di una Daenerys sempre più rigida, permalosa, dittatoriale e insopportabilmente impulsiva — riescono a strappare applausi quando gli si dà il giusto spazio per esprimere anche il non detto.
Game of Thrones, come il buon vino, ha bisogno di respirare; non si possono e non si devono soffocare le immagini con le parole.

Ad esempio.

La fretta non solo soffoca, ma appiattisce. La settima stagione è, forse, quella meno interessante sul piano dei contenuti. Al di là della conclusione di alcuni argomenti iniziati in passato (con la morte di Walder Frey, Olenna Tyrell e Randyll Tarly se ne vanno gli ultimi esponenti della vecchia generazione, uscita perdente dal confronto con i “giovani”), i personaggi nell'arco di sette episodi sono rimasti più o meno uguali a quelli che erano al termine della sesta stagione. Solo Jaimie e Cersei — sostenuti da prove attoriali, specie quella di Lena Headey, tra le migliori del lotto — hanno subito piccole evoluzioni, il che conferma la mia teoria secondo cui i Lannister siano i veri protagonisti della storia, o quantomeno i più interessanti da seguire.

Sotto questo punto di vista, la settima stagione ribadisce con forza un concetto, facendo un ulteriore passo in avanti nel mettere a nudo le ipocrisie degli abitanti del Westeros e, di riflesso, del pubblico dello show. Poco importa che lo faccia in maniera volontaria o meno: il gioco di specchi tra i Lannister e gli Stark/Daenerys Targaryen è la questione più interessante ancora in sospeso.

Se Jon tradisce un giuramento è cosa di poco conto, perché l’ha fatto per amore, mentre Jaime è bollato a vita come Sterminatore di Re, pur avendo infranto il suo per salvare la popolazione di Approdo del Re da una fine orribile. Se Daenerys sfrutta il sotterfugio per eliminare in maniera violenta i propri avversari politici (i Khal Dothraki) è tutto un tripudio di fan che gioiscono per la magnificenza della loro Khaleesi; se lo fa Cersei è una puttana traditrice che merita di morire. Se Jon (che ormai possiamo chiamare Aegon Targaryen) e Dany si innamorano e fanno sesso, è il coronamento del sogno bagnato degli autori di fanfiction e dei loro seguaci; se lo fanno Jaimie e Cersei è incesto e i frutti del loro amore andrebbero gettati fra le fiamme.
I Lannister, contro tutto e contro tutti, sono il sale della terra del Westeros; gli altri personaggi rimasti, salvo rare eccezioni (Varys, Euron, Ditocorto), solo pupazzi di passaggio che la calpestano.

Ma Game of Thrones ha fatto il salto dello squalo?
Forse. Si potrebbero fare molti esempi di scrittura fiacca e poco ispirata, ma la missione suicida compiuta da Jon e il suo gruppo di outsider nel sesto episodio ha fatto quello che i riassuntoni, per quanto brutti da vedere, ci avevano risparmiato: ha messo a dura prova la coerenza interna del serial, in molti modi diversi. Una cosa sulla quale normalmente sono disposto a soprassedere, specie se mi si dà in cambio qualcosa di bello e appassionante da vedere, con i tempi giusti per godermela al meglio. Beyond the Wall è sicuramente un episodio bello da vedere ed emozionante, ma la fretta di chiudere tutto nello spazio di 70 minuti ha messo a nudo tutte le ingenuità e le incongruenze della vicenda narrata.

Primo problema, la confluenza di personaggi importanti nello stesso luogo: per quanto tutti si aspettavano che prima o poi ci sarebbe stata una convergenza delle tante storyline verso i due luoghi principali (la Barriera e Approdo del Re), farlo così è puro fanservice. Il Mastino, Jorah, Thoros di Myr, Tormund, Gendry, Beric Dondarrion e Jon Snow, tutti insieme appassionatamente al freddo e al gelo, sembra più l’incipit di una barzelletta che altro. Qualcuno potrebbe obiettare che nel contesto narrativo gli unici due personaggi importanti siano Jon Snow, Re del Nord incline a buttarsi in prima linea in maniera avventata, e il capo dei bruti Tormund, e che gli altri siano solo derelitti di poco conto. Ma sappiamo benissimo che una storia non funziona così: ammassare personaggi amati in questa maniera, per il puro godimento del pubblico (il reclutamento di Gendry e di Jorah è emblematico al riguardo) è un gioco banale, buono giusto a produrre meme sui social. Tanto più che in una situazione simile di estremo pericolo i caratteri dei singoli tendono a sfumare, lasciando dietro solo involucri vuoti che muovono una spada nel tentativo di salvarsi.

Beyond the Wall ha messo a dura prova la coerenza interna del serial.

Secondo problema, le motivazioni: un brutto film come Suicide Squad ha comunque una premessa narrativa migliore di quella di Beyond the Wall. La regola è sempre stata che chi muore oltre la Barriera diventa un non-morto al servizio del Re della Notte (ricordate il cadavere del guardiano della notte che aggredì Jeor Mormont al Castello Nero). Bastava uccidere qualcuno a due passi dal Forte Orientale (un prigioniero, ad esempio; sarebbe bello se ogni tanto anche il puro e brillante Jon Snow si sporcasse le mani, ma nel gruppo suicida c’erano comunque soggetti come Il Mastino o Tormund che non si sarebbero fatti problemi), oppure fare il gioco della pagliuzza e mettere in piedi una breve sequenza di sacrificio e di onore (tanto più che hai un personaggio come Dondarrion, stanco di esser vivo e in attesa di trovare il suo posto nel mondo). E invece i nostri si sono impantanati nel peggiore dei vizi della cultura pop americana recente: la situazione senza via d’uscita. Un male che alimenta la (ridicola) critica dei cacciatori di “buchi di sceneggiatura” tanto in voga su YouTube e che conduce quasi sempre a una soluzione banale, che è poi il terzo e ultimo problema.

Gendry è tornato indietro a piedi, percorrendo una distanza notevole in poco tempo; dal Forte Orientale è stato inviato un corvo a Roccia del Drago (le due ambientazioni distano circa 2400 miglia, 3860 km); Daenerys è salita in groppa a Drogon e ha compiuto lo stesso tragitto in senso contrario. In un giorno. Come se non bastasse questo deus ex machina, dal nulla è apparso anche Benjen Stark, che nel momento del bisogno ha salvato Jon Snow sacrificandosi e generando l’ilarità di buona parte degli spettatori. Eppure bastava poco a rendere tutto digeribile: un montaggio migliore, oppure, ad esempio, spalmare la vicenda su più episodi, dando la sensazione che il gruppo fosse rimasto in trappola per più giorni. Il fantasy è pieno di storie così, pensate all'arrivo di Gandalf e Eomer al Fosso di Helm sotto assedio da cinque giorni.

Almeno c’abbiamo Viserion zombie…

Tutte cose su cui si passa sopra, questioni che tutto sommato sbiadiscono di fronte alla magnificenza delle atmosfere, dei valori produttivi e del divertimento che non viene mai meno. Ne voglio ancora, lo vorrei subito e il dovere aspettare fino al 2019 inoltrato (probabilmente) mi distrugge. Solo che, pensare che bastava qualche episodio in più e una migliore gestione dei tempi narrativi, fa venire un po’ il magone. La settima stagione di Game of Thrones non ha reso lo show brutto o insopportabile, ma perde il confronto con le precedenti. Maledetta fretta.

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