Ho visto La Torre Nera e sono uscito dalla sala deluso e arrabbiato

Fabio Di Felice
The Shelter
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5 min readAug 12, 2017

Quale nefasto presagio quando, qualche anno fa, si concretizzò l’idea di realizzare un film sulla saga della Torre Nera. Il Vettore che tiene in piedi gli universi tremò. L’opera magna di Stephen King, una delle più complesse, amate e impossibili da portare su un altro medium stava per essere trasportata su pellicola. Era l’evento più pericoloso che potesse capitare alla Torre da… be’, almeno una decina d’anni, ovvero da quanto nel 2004 King mise il punto a questa saga che l’aveva tenuto impegnato per 7 libri e ben 22 anni. Un percorso che si era intrecciato non solo con gli altri suoi lavori, diventando il centro degli universi che aveva creato per tutta la sua carriera, ma perfino con la sua vita personale. Dopo l’incidente che quasi gli costò la vita nel 1999 (episodio che diventò parte della narrazione della Torre nera) l’autore decise di darsi una mossa scrivendo gli ultimi tre capitoli della saga nell'arco di un paio di anni per paura di morire e lasciarla a metà.

C’è, insomma, nella Torre Nera più di quanto non sia semplicemente contenuto nelle pagine degli splendidi libri. Un po’ come, se volessimo fare il paragone con un’altra sua opera immortale, IT non è semplicemente la storia di un pagliaccio che spaventa dei bambini. Ma è difficile andare a pescare sotto la superficie per trarne la reale complessità e l’equilibrio che King riesce a far emergere. Perché quello è il suo universo, lì è in grado di muoversi come meglio vuole. La pellicola è tutto un altro paio di maniche. E devono averlo capito anche quelli che, prima di Nicolaj Arcel, vittima sacrificale alla regia dell’opera compiuta, hanno deciso di abbandonare il timone del progetto: prima J.J. Abrams e Damon Lindelof nel 2007, poi Ron Howard nel 2010 (rimasto in veste di produttore). Tutti, tra un problema e l’altro, hanno fatto un agile passo indietro di fronte alla possibilità tangibile di sbagliare il tiro. Probabilmente l’occhio lungo di chi vede la brutta possibilità di sbagliare il rigore della carriera e di doverselo portare addosso per tutto il resto della vita.

Roland Deschain, il pistolero in una delle inspiegabili scene d’azione del film.

Fatto sta che il caso, o meglio, il Ka, ha voluto che questa estate il film vedesse davvero la luce dopo una serie di travagliati problemi produttivi: cambi di mano della sceneggiatura, riadattamenti, Stephen King stesso che ci ha ficcato più volte il naso e un casting che, fino all'ultimo è sembrato una raccolta di figurine. Il ruolo di Roland Deschain, il protagonista della saga, ha cambiato tantissimi volti.

Difficile andare a pescare sotto la superficie per trarre la reale complessità e l’equilibrio che King riesce a far emergere dai romanzi.

La scelta è poi ricaduta su Idris Elba. Una decisione quantomeno singolare, visto che Roland è tratteggiato sull’archetipo eastwoodiano del “Biondo” di Sergio Leone, ma di poco conto visto il talento dell’attore. E soprattutto di poco conto davanti al fatto che nell’opera filmica Roland non è nemmeno il protagonista del film. Si è scelto piuttosto di passare l’onere a Jake Chambers, il ragazzino che proviene dal nostro mondo per cui Roland, nei romanzi, ricopre il ruolo di padre putativo. Sicuramente un personaggio chiave del racconto di King, ma vedere la storia dal suo punto di vista pone il tutto in un’ottica completamente diversa. Jake è in possesso del “tocco” un potere psichico che gli permette di sbirciare tra gli universi, e viene in contatto con questa strana dimensione dove vivono Roland e l’Uomo in Nero. Quest’ultimo è un perfido stregone che vuole distruggere la Torre Nera: il centro dell’universo. Il suo scopo è far cadere i mondi nel caos per permettere al Re Rosso, il signore del male, di regnare sul creato. Roland, asservito all’ordine, vuole impedirlo. Io ve l’ho messa giù facile in tre righe, sappiate che il film non ce la fa in un’ora e mezza. Se non avete letto i romanzi cercare di capire qualcosa nella supercazzola della sceneggiatura è quasi impossibile.

Roland e Jake ripetono per l’ennesima volta il mantra del pistolero.

Comunque sia, la scelta di cambiare punto di vista smonta decisamente l’epica del racconto, che in forma originale è una commistione riuscita tra lo spaghetti western e il fantasy, e qui diventa semplicemente il contorno per un filmetto da ragazzi, confuso e involontariamente ridicolo. Il problema prescinde dai personaggi, ai quali gli attori riescono a regalare un certo carisma, ma tutto il resto, dal contesto alla storia, è semplice facciata. Superficie, una patina di poco conto che nessuno può apprezzare: non chi guarda il film senza aver letto i libri, che poco riuscirà ad afferrare dell’ambientazione invece ricca di dettagli, né chi li ha letti, che inorridirà davanti alla pochezza del tutto. Dialoghi citati blandamente (l’incipit del romanzo “L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì” è ripetuto una mezza dozzina di volte, per non parlare del mantra del pistolero), citazioncine di poco conto che fanno sorridere per l’ipocrisia (il trenino Thomas, i palloncini di IT, i bimboli) e la promessa di offrire un indegno sequel alla saga letteraria.

Superficie, una patina di poco conto che nessuno può apprezzare: né chi ha letto i libri, né chi non ha avuto modo di leggerli.

Non basta, perché dall'altra parte c’è un film mediocre. Un filmetto per ragazzi che in novanta minuti (che sembrano il doppio per quanto tutto è raffazzonato) è capace di toccare punte di profondo imbarazzo, come la base simil-power ranger di Walter O’ Dim, o gli errori di coerenza tra una scena e l’altra col giorno e la notte che si alternano senza una vera progressione temporale, e non dà mai l’impressione di tirare fuori qualcosa di interessante. Anzi, più il film prosegue, più risulta evidente lo stato di lavorazione frettoloso a cui è stato sottoposto. L’apice viene raggiunto nella scena finale, che è talmente insipida e buttata via da fare rabbia.

Il ruolo dell’Uomo in Nero: camminare con le mani dietro la schiena.

Abbiate pietà, è un minuscolo spoiler ma ve la devo raccontare: il film inizia con una serie di bambini che sono stati rapiti dall’Uomo in Nero. Nel finale il padre di uno di questi lo riabbraccia, sullo sfondo, dopo chissà quanto tempo, e non riesce a dirgli niente di più convincente di: “Sono felice che stai bene”. Che garbo, che cortesia. Dio mio, che imbarazzo.

Sette libri, ventidue anni di avventura editoriale per questo? Per un’ora e mezza di Matthew McConaughey che cammina con le mani dietro la schiena? Per Roland che fa battute sugli hot dog? A questo film io do cinque, il più infame dei voti. Quello per il quale non sei né carne, né pesce e non ti meriti nemmeno una stroncatura decisa. Solo il limbo di coloro che non hanno voce. Perché questo film ha letteralmente dimenticato il volto di suo padre.

5

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Fabio Di Felice
The Shelter

Qualche giorno fa ho pensato “dovrei proprio cambiare la bio del profilo” e poi eccoci qua: non avevo idea di cosa scriverci.