Horizon: Zero Dawn è un viaggio magnifico

Mauro Ferrante
The Shelter
Published in
7 min readMar 21, 2017

Dovendo per ipotesi descrivere Horizon: Zero Dawn a qualcuno che non ne ha mai sentito parlare trovo solo due modi efficaci per farlo: o parlarne come di quel gioco dove si dà la caccia a giganteschi dinosauri robot, o parlarne come di un perfetto specchio rovesciato di The Witcher 3. Così diversi eppure così simili. Polonia e Olanda, tecnologia e fantasia, Geralt e Aloy. I due titoli appaiono complementari, capaci di colmare l’uno i vuoti dell’altro. Una trama densa e sopraffina capace di mettere in secondo piano tutto il resto nel primo; un gameplay solido e appagante che sorregge una scrittura non sempre brillante nel secondo. Da un punto di vista astratto, là dove finisce uno inizia l’altro, e viceversa.

Perché Horizon rappresenta un fulgido esempio di come strutturare un gioco open world senza perdere nulla di ritmo, di regia, di cura dei dettagli e dei particolari? La risposta è semplice quanto banale. Rinunciando sistematicamente a tutti quegli aspetti dell’open world che avrebbero portato a diluire l’esperienza di gioco o a rendere approssimativa. Perché approssimativo è esattamente il termine che Guerrilla sembra aver voluto evitare a tutti i costi. Sia un filmato di presentazione, sia una sessione più platform o un segmento narrativo più lineare, il tutto è costruito con una cura scenografica che lascia di stucco e che ha pochissimi eguali quando si parla di dare vita ad ambienti dal chilometraggio così vasto.

Ecco che le sotto queste vengono raccolte in pochi macro sezioni. Ecco che il crafting e il sistema RPG viene depotenziato fino a rappresentare una nota di accompagno all'esperienza più che una struttura ossea portante. In Horizon non ci si sente mai soverchiati da attività o da icone. Ci si muove mossi da un entusiasmo e una curiosità che ben si sposa con quella della sua giovane protagonista. Ogni azione compiuta, ogni sguardo gettato oltre un panorama sconfinato acquisisce in Horizon una presenza narrativa che si è abituati a vedere in titoli prettamente lineari. Là dove pochi corridoi possono essere arredati e sistemati a piacere per garantire un gioco registico sempre di alto livello, il discorso cambia quando a essere preparato non è solo un piccolo set, ma un mondo intero. Una sfida quasi impossibile, che Guerrilla affronta e vince con raffinata eleganza, dando vita un ambiente di gioco di magnifica potenza espressiva.

Un ambiente la cui importanza prende presto il sopravvento su qualsiasi altro aspetto di gioco. Horizon trascende i rapporti di forza tra i singoli personaggi per mettere in primo piano questo terreno fertile e vivido, dove la natura e la tecnologia in mutua simbiosi hanno conquistato il pianeta lasciando l’umanità a margine.

Il margine, l’emarginato, la stessa etimologia che toglie all'umanità il primato di comando, tanto nel ruolo di razza nel mondo di gioco, tanto narrativamente nella figura di Aloy — perfettamente sovrapposta a quella del giocatore — che, mossa da pura curiosità, si oppone a dei dogmi religiosi che cercano di preservare una precaria normalità. Horizon sorprende nella sua capacità di donare ad una narrazione che non nasconde mai la sua anima blockbuster una serie di sottotesti straordinari, calati perfettamente nel contesto di gioco e capaci di offrire uno spunto diverso nella creazione della mitologia di gioco.

La religione in Horizon ha la forma di un credo ottuso, che preserva la popolazione da una tecnologia così avanzata e pericolosa da cui è meglio stare alla larga. La culla della madre, questo posto paradisiaco dove il ruolo femminile torna ad una dimensione originaria, preserva l’umanità dal pericolo dell’ignoto, dell’ambiente, di ciò che non si può controllare e sfugge alla comprensione. Questa natura selvaggia, mastodontica e dettagliata in modo maniacale non è una mera scenografia posticcia, ma un vero palco teatrale dove il giocatore mette mano con arco e frecce.

Il punto di forza dell’intera produzione è un sistema di combattimento che da solo vale tutto il prezzo del biglietto. Saltare da un dirupo, tirare la freccia con chirurgica precisione e vedere la gigantesca coda del Divoratuoni volare via tra scintille e stridori meccanici non ha prezzo. Il bestiario meccanico, variegato e strutturato, rappresenta il cuore pulsante di gioco. Ogni animale, ogni scontro, ogni comportamento animalesco trova il suo senso in questi duelli di riflessi e agilità che non hanno nulla da invidiare a eccellenti figure di riferimento come quella di Monster Hunter.

Horizon è meraviglioso da guardare, è affascinante da scoprire, è denso da esplorare e sopra ogni cosa, Horizon è sempre e inequivocabilmente divertente da giocare. Ed è questo che costruisce il punto distintivo da qualsiasi altro open world che gli si può accostare. La bellezza di Horizon va cercata nelle sue mandrie che scappano nei paesaggi innevati, nelle sue foreste fitte e maestose dove giganteschi coccodrilli sono sempre in agguato. Nei suoi canyon rocciosi e arsi dal sole dove tenere a bada dei tori scatenati, nelle cime innevate e scosse da tempeste di neve piene di uccelli rapaci e letali. Nella sua capacità di saper dosare armi ed equipaggiamenti per rendere ogni combattimento una esperienza a sé stante, un gioco autonomo e autosufficiente incastrato in una matrice più grande a cui fa da cornice un mondo tecnicamente splendido.

Questa formula vincente permette di far funzionare anche una struttura ludica consolidata, di certo non rivoluzionaria ma oliata e perfettamente organica. I suoi punti di forza sono tali perché avulsi dal mero contesto dell’open world come lo conosciamo. La capacità di tenere sempre alto il ritmo e l’attenzione del giocatore senza stravolgere mai la meccanica di gioco ha del miracoloso. Horizon poteva essere un gioco lineare e sarebbe stato bellissimo lo stesso perché si arriva alla fine dell’avventura con il ricordo ben preciso di ogni luogo, di ogni evento caratteristico, di ogni bestia abbattuta.

Questo è il merito più grande di Guerrilla: aver saputo tenere le redini di un mondo vasto e affascinante sapendo costruire una geografia ineccepibile, priva di qualsiasi tempo morto. Così il mondo diventa un palco di gioco sempre presente, sempre attivo, capace di premiare il giocatore in ogni istante, con una sfida particolare o con uno scorcio panoramico particolarmente evocativo.

Perché la grafica non conta, oppure sì. Una sterile polemica inadatta a chi incapace di comprendere lo stretto rapporto che intercorre tra tecnica e arte, fra mezzo e messaggio, fra messa in scena e la capacità espressiva che la scena attua quando ha i giusti strumenti a sostegno. E per questo che il suo essere graficamente magnifico non è solo un traguardo tecnico di mera forza bruta, ma una caratteristica imprescindibile che segna e accompagna l’esperienza di gioco in tutta la sua interezza.

Ultimo importante dettaglio è la figura di Aloy: personaggio coriaceo e ostinato, volutamente scritto con l’obiettivo di esularlo da una qualsiasi carica erotica. Aloy acquisisce spessore all'interno di un contesto capace di valorizzarne la femminilità prima che l’effettiva carnalità. Una scelta azzeccata che risulta genuinamente chiara e priva di ogni malizia. Meta testualmente integrata nella trama e, aggiungiamo noi, quasi una rivalsa contro le critiche agli insipidi fascisti spaziali di Killzone. Una spolverata decisiva anche questa che fa tabula rasa del passato di Guerrilla e consegna questo studio ad una dimensione nuova, matura e decisamente brillante.

Sarà l’età. Sarà una certa saturazione data dall'esperienza. Sarà la perdita dell’innocenza, quando la fascinazione lascia spazio alla più razionale consapevolezza. Saranno tutte queste cose o forse nessuna, ma è sempre più difficile, per il sottoscritto, trovare un gioco che catturi veramente. Quel coinvolgimento onnicomprensivo che fa dimenticare del tempo e dello spazio. Horizon ci è riuscito senza reinventare la ruota, ma mettendo ogni pezzo al suo giusto posto. Riuscendo a rendere interessante anche la fetch quest più stupida, rendendo emozionante una arrampicata su una torre di controllo à la Ubisoft, grazie a un mondo così gratificante da esplorare che riempe occhi e cuore. Gli ingredienti sono noti, della tradizione, alcuni perfino indigesti al sottoscritto, ma la cucina di Guerrilla è stata capace di valorizzarli in modo fresco, genuino, dandogli un profumo nuovo e inebriante come solo Cannavacciuolo sa fare.

9

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Mauro Ferrante
The Shelter

Prima o poi troverà un lavoro serio, nel frattempo parla di videogiochi, scrive di videogiochi e pare addirittura stia provando a farne uno.