Perché ho un problema con Monolith

Attenzione, l’articolo contiene spoiler

Alessandro Di Romolo
The Shelter
7 min readAug 19, 2017

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Al di là dei primi approcci risalenti all'inizio del decennio in corso, si è iniziato a parlare con una certa insistenza di rinascita del cinema di genere italiano solo dopo l’uscita di Smetto quando voglio nel 2014. Al netto di qualche ingenuità da opera prima, il film di Sydney Sibilia era un frizzante mix di stoner, heist e critica sociale contro la condizione dei ricercatori italiani e della generazione di quarantenni alla deriva. Un’opera che mostrava prima di ogni altra cosa che, parafrasando René Ferretti di Boris, un cinema italiano diverso dalla sacra triade drammi familiari/politica/cosa nostra era possibile.

Da questo punto di partenza, la rivoluzione tricolore ha intrapreso due strade divergenti. Da una parte, alcuni autori hanno tentato non solo di rendere credibili argomenti ed elementi lontani dal nostro bagaglio culturale senza rinunciare a location e volti italiani (Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, I peggiori), ma anche di importare logiche produttive ardite per il nostro mercato (i sequel di Smetto quando voglio realizzati back-to-back). Altri invece, probabilmente convinti dell’impossibilità di ambientare le loro storie su suolo italico, hanno ceduto alle sirene straniere, che di per sé non è un problema: maestri del cinema mondiale (prima che italiano) quali Sergio Leone o Lucio Fulci o ancora Mario Bava non si sono mai fatti grossi problemi a raccontare storie di ampio respiro internazionale o a ricorrere a maestranze e ambientazioni di altri paesi. Era però un periodo in cui avevamo qualcosa da insegnare agli altri; le opere frutto di tali collaborazioni ancora oggi rappresentano un’inestimabile fonte d’ispirazione per gli autori contemporanei e, soprattutto, mantengono una forte e ben distinta personalità.

Il mio problema con film come Mine e il recente Monolith è la loro tendenza a giocare a nascondino con le produzioni a basso budget americane e, dunque, a fare il gioco di chi è convinto che un film nostrano non meriti il prezzo del biglietto. Di quelli che dicono “non sembra un film italiano” pensando che sia un complimento, per intenderci.

Ad esempio.

Non ne faccio una questione di puro campanilismo, non fraintendetemi. Dico solo che pretendere di rivoluzionare il cinema di genere italiano attraverso una strategia imitativa è un’ammissione di inferiorità che mal si sposa con i recenti successi di prodotti che non hanno rinunciato alla propria italianità. Mine e Monolith sono high-concept movie molto simili. Per chi non avesse familiarità con il termine, si tratta di quei film dalla trama ridotta all'osso, ma basati su un’idea di partenza forte: la narrazione ruota attorno a uno scenario, a un “what if?”, e si sviluppa esponendo gli eventi che scaturiscono dalla premessa. Nel caso di Mine, il “what if?” è: che succederebbe se un soldato rimanesse bloccato nel deserto con un piede su una mina?

Monolith, dicevamo, è praticamente la stessa roba, tant'è che molti fan della pagina del distributore Vision Distribution sono convinti che sia diretto dalle stesse persone di Mine. Ha una premessa narrativa diversa e molto più forte, ma lo svolgimento è analogo, anche a causa di ristrettezze economiche. Prendi una star di dubbia fama (con un nome inglese, che fa figo), buttala per qualche ragione in mezzo al deserto, costringila a venire a patti con una questione privata, ritagliale addosso una situazione apparentemente senza uscita e mostra le soluzioni che decide di tentare per risolverla. Negli ultimi dieci anni Hollywood ne ha sfornati a bizzeffe di film così. Il perché è presto spiegato: sono facili da produrre, non servono budget esorbitanti, fai leva sulla paura dell’isolamento ricorrendo ad ambientazioni naturali (il deserto, il mare, una bara) e se azzecchi l’attore del momento (Buried, Paradise Beach) riesci anche a fare un bel po’ di soldini. C’è chi, come Danny Boyle, ricamando attorno alla struttura narrativa, sfruttando l’elemento “tratto da una storia vera” che fa sempre effetto e mettendoci in mezzo un attore migliore di quelli che mediamente accettano ruoli del genere (James Franco), ha addirittura sfiorato la gloria con 6 nomination agli Oscar del 2011.

Ma torniamo a Mine e Monolith. Arrivati alle ultime battute, si può scegliere fra due opzioni: il finale amaro, in cui scopriamo che effettivamente non c’era via d’uscita, o quello accomodante, che non è per forza malvagio. Mine è un film sulla necessità di superare le difficoltà e di andare avanti; lo spiraglio di luce in fondo al tunnel dopo aver passato le pene dell’inferno in un deserto pieno di pericoli (come se non bastasse il fatto di avere il piede su una mina) è la naturale conseguenza della morale della pellicola. Certo, per arrivarci rinuncia al genere e infarcisce il tutto di stereotipi, banalità e brutte sequenze oniriche, ma questo è un altro discorso.

L’idea dietro il soggetto di Monolith è: cosa succederebbe se tuo figlio rimanesse bloccato nel deserto dentro un’automobile indistruttibile e inespugnabile? Ed è un’idea ottima, molto più forte del generico soldato americano intrappolato in una generica regione mediorientale, perché coniuga eventi di cronaca nera (i bambini lasciati a morire d’estate dentro le automobili a causa della negligenza dei genitori o inspiegabili vuoti di memoria) con una tecnologia futuribile: un’automobile realizzata in materiali indistruttibili, dotata di un’intelligenza artificiale capace di attivare sistemi di sicurezza a prova di aggressore. Proprio per questo la messa in opera indispone e irrita.

Glisso sui tanti momenti morti, sulla protagonista (Sandra, una macchietta che incarna tutti i cliché sulla madre snaturata che possano venirvi in mente), sui presunti problemi di logica e di coerenza (dei quali non me n’è mai fregato nulla) e anche sulle cose cinematograficamente molto brutte, come il fatto che, nonostante i margini per fare un film di pura azione e dialoghi ridotti all'osso, Monolith sia un film incredibilmente chiacchierone, che non di rado preferisce far gridare alla protagonista emozioni e sensazioni piuttosto che mostrarle.

Andiamo dritti alla ciccia. Al contrario di quanto rilevato da molti, non credo che Monolith sia un monito contro la tecnologia o, più nello specifico, contro chi delega a essa alcuni aspetti della vita di tutti i giorni. Lilith, l’intelligenza artificiale che governa l’automobile, non è Hal 9000 o Skynet: non ha deciso di ribellarsi all'uomo, né di eliminarlo perché ha considerato attraverso freddi calcoli che è necessario farlo al fine di raggiungere uno scopo. È una calda e simpatica voce femminile che addirittura ti chiede se vuoi disattivare i sistemi di sicurezza mentre stai facendo qualcosa contro l’incolumità dei passeggeri, tipo fumare in presenza di un bambino. L’evento che dà inizio alla vicenda non è tanto l’aver investito un cervo tramite la macchina, quanto piuttosto la reiterazione di un gesto sconsiderato di Sandra, ovvero di dare al bambino lo smartphone (dove c’è installata l’applicazione di controllo dei sistemi della macchina) per farlo stare buono.

Monolith (l’automobile) fa tutto quello per cui è programmata, e lo fa in maniera eccellente. Monolith (il film), invece, vorrebbe essere piuttosto punitivo nei confronti della protagonista. Parallelamente al desiderio di Sandra di vedersi riconoscere il titolo di “mamma” (David, il bambino, la chiama per nome), Monolith punisce l’atteggiamento puramente passivo nei confronti della tecnologia, la tendenza a ignorare i limiti di un device e a prendersela con lui semplicemente perché non fa quello che gli diciamo, la sicumera di chi si approccia a qualcosa di nuovo senza sapere cosa fa e come lo fa e, soprattutto, la viltà umana di scaricare tutte le proprie responsabilità su altri, che siano macchine o uomini.

Monolith vorrebbe essere punitivo nei confronti della protagonista

Dico “vorrebbe”, perché a mio avviso Monolith esce piuttosto male dal conflitto tra la sua vena (forse involontariamente) sadica e la volontà di stabilire un legame empatico tra lo spettatore e la protagonista. Vorrebbe mettere in guardia facendo leva su sentimenti forti (la compassione nei confronti del povero, incolpevole David), ma al contempo vorrebbe anche rendere il pubblico partecipe del dramma di quello che a conti fatti è il carnefice, cioè Sandra. Un carnefice che, tra l’altro, non fa che peggiorare la situazione con le sue maldestre soluzioni e che, come già detto, è un personaggio poco interessante che casca con tutte la scarpe in ogni cliché sulla madre snaturata.

In tal senso, Monolith apparecchia la tavola per uno squisito finale amaro. E invece ha un melenso e poco coraggioso finale che va contro tutto il discorso portato avanti durante il film. Non solo l’automobile viene mandata a quel paese per aver fatto quello per cui è stata realizzata (e per averlo fatto talmente bene da aver tenuto al sicuro il bambino anche dalle soluzioni “creative” della madre), ma Sandra si guadagna un premio che non merita, perché di fatto non ha imparato nulla.

Guardiamo in faccia la realtà: se Monolith fosse stato un film americano, da noi avrebbe avuto difficoltà a trovare una distribuzione in sala. Probabilmente sarebbe uscito direct to video nel catalogo estivo di qualche etichetta emergente, senza troppo clamore; che poi è la sorte riservata alla moltitudine di film identici con i quali si confonde e che negli States vengono prodotti in grande serie. Invece, il fatto che ci abbiano lavorato dietro personalità con un discreto curriculum, unito al supporto distributivo di Sky, gli ha garantito un battage pubblicitario e l’endorsement di personalità di spicco.

I primi risultati non sono incoraggianti: durante la prima settimana Monolith (distribuito in 200 sale) ha incassato meno di 200.000 euro e continua la sua corsa con una delle peggiori medie per sala della top 10. Complice l’uscita scriteriata a ridosso di ferragosto, a Vision Distribution non è riuscita l’impresa di trasformare un film che “non sembra italiano” in un evento. Forse proprio perché sembra un film americano come se ne vedono tanti. Forse perché il cinema di genere italiano non ha bisogno di andare a ritrovare se stesso nel deserto dello Utah.

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