L’amara provincia di Vanni Santoni

Lorenzo Bonaffini
The Shelter
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6 min readOct 13, 2017

Ho sempre avuto un tarlo per la testa: è possibile parlare di giochi di ruolo da tavolo in modo non autoreferenziale, magari riuscendo anche a dire qualcosa sul mondo e la società in cui viviamo? Per anni sono rimasto convinto che fosse impossibile, data la natura fortemente auto-ghettizzante di un medium che ha portato per anni i giocatori a nascondersi in rifugi, casalinghi o non, esercitandosi in una sorta di escapismo più o meno giovanile. Per questo la pubblicazione de La Stanza Profonda, scritto dal giovane scrittore fiorentino Vanni Santoni, non mi aveva detto molto, pre-giudicandolo stupidamente come una banale glorificazione di un esercizio intellettuale che amavo sin da bambino, ma che da sempre era stato in tensione con la mia volontà di uscire da quella stanza. Mi sbagliavo: nelle pagine de La Stanza Profonda si muove invece la necessità di fissare alcuni pilastri. La volontà è quella di sdoganare un mondo da sempre percepito come invalicabile, ma che l’autore riesce ad ammantare dello spirito del tempo, utilizzando una struttura narrativa ibrida che alla sua base ha sempre il romanzo, ma più di una volta strizza l’occhio al saggio.

Ho iniziato a giocare di ruolo da bambino, approfittando del mio vicino di casa che aveva una grande taverna nel piano sotterraneo, nonché la disponibilità economica per arredarla come un’amatoriale ludoteca. D&D, videogiochi e Warhammer era il nostro triangolo dell’amore ludico, entro il quale sperimentavamo per la prima volta cosa potevano significare quelle nostre prime passioni. Crescendo l’amore verso il concetto di “ruolismo” si è canalizzata nello sfavillante mondo digitale, ma negli anni continuavo ad accumulare manuali, magari senza neanche avere la possibilità di giocare, mentre l’adolescenza mi apriva al mondo delle prime esperienze di vita: le prime sbronze, le prime canne, le prime ragazze, ma assieme, in un angolo del mio cervello, c’era sempre spazio per immaginare storie che avrei voluto raccontare ma che, purtroppo, non sembravano attrarre la maggioranza delle persone che frequentavo. L’inizio dell’università, e il conseguente trasferimento in una città nuova di zecca , mi aprirono a un mondo diverso e mi fece conoscere il mio primo gruppo di gioco serio che mi ha accompagnato per quasi dieci anni della mia vita.

Vanni Santoni durante un’intervista per finzionimagazine.it

Santoni ci accoglie nella stanza con parecchie suggestioni: dal bildungsroman generazional-malinconico alla narrativa frammentaria della gioventù cannibale, sullo sfondo il gioco di ruolo come metafora di quel tentativo di riappropriarsi di quello che c’è intorno, riordinarlo e come viene detto nel testo, “dargli senso”. Uomini persi in strade e case che lentamente stanno morendo, sconquassate da quel moto verso i grandi centri urbani che dietro di sé lascia solo la scia insoddisfatta di chi rimane nell'amara periferia. Santoni parte proprio da qui: i personaggi, ben inseriti all'interno di un’ambientazione che non è solo paesaggio antropizzato ma anche saggio di quello che è oggi la provincia italiana, social-psicologia di una generazione. Il gruppo di amici che si ritrova intorno alla figura del protagonista, ovviamente il master delle loro partite, è il blocco di partenza, ma assieme anche l’orizzonte, della poetica dello scrittore. L’ambientazione valdarnese non perdona, come non perdona la Storia, che non ne esce benissimo dal romanzo; la provincia meccanica italiana non è né significato né significante, ma solo segno minore davanti alle cifre delle vite del gruppo dei protagonisti. La storia di questi sovversivi, come amano definirsi in un impeto di orgoglio contro il vuoto della periferia che mangia tutto e non risputa più fuori nulla, è quindi in realtà una storia di resistenza. La cooperazione che porta master e giocatori a ricreare quel momento, pienamente culturale, in cui fruizione e creazione si confondono è quindi la vera “polvere” che ammanta le loro esperienze. Realtà e finzione si agitano all'interno di tutto questo, ma è proprio la condivisione di un mondo, l’ambientazione di una partita, e di un sistema di regole, le meccaniche ludiche, a rendere vero ciò che il gruppo di amici sperimenta. Tematica sempre più attuale se si pensa alla grande tensione tra reale e virtuale che si consuma all'interno della nostra società e che Santoni inserisce coscientemente all'interno del romanzo.

L’ostilità del mondo intorno si scontra quindi con la volontà di definire la pratica del gioco di ruolo. Una ricerca di legittimazione che all'interno della narrazione vedrà anche alcuni momenti di tensione non scontati. Ma lo sguardo dell’autore non è sicuramente ingenuo, perché nelle parole dei suoi protagonisti c’è anche la disillusione, c’è anche spazio per un certo fallimento terapeutico di sedute ruolistiche più simili a uno spazio di fuga, nonostante questo concetto venga rigettato dal gruppo di amici, che a riunioni carbonare. Alla fine sono sempre gli squarci di realtà a ferire, come quell'avvolgibile che si chiude male e lascia entrare nella stanza un poco di luce. Nella stanza oltre al gioco c’è pure tutto il resto: Santoni non è miope e riesce a vedere un quadro di insieme, composto da svariati accenni a sotto-culture che hanno accompagnato la società occidentale negli ultimi trent'anni. Ad esempio il mondo dei rave e dei free party, protagonisti per altro di Muro Di Casse, un’altra ottima prova letteraria di Santoni, non è scelto casualmente. I nati tra la fine degli anni ’70 (l’autore è del 1978) e la metà degli anni ’80 possono sentire propri molti di questi riferimenti. La narrazione privata diventa narrazione di un’intera generazione che è vissuta a cavallo tra l’analogico (reale?) e il digitale (virtuale?) e ha sempre dovuto vivere tra due mondi, in modo deliziosamente post-moderno. Non è un caso che l’autore sia molto vicino alla scena che ruota intorno a Nazione Indiana, i Wu Ming e tutto quel laboratorio di scrittura che a cavallo tra i due millenni in Italia ha creato una breve, seppur fervida, stagione letteraria.

La forza di questo libro risiede nel fatto che alla fine al suo interno c’è davvero tutto di noi

Il mondo di Santoni è osservato da punti di vista laterali, è vero, ma l’abilità è sempre quella di mettere in una tensione costante il micro e il macro, come vero e proprio motore della narrazione. Ed è così che la marginalizzata periferia toscana si fa paradigma e, sostituendo i nomi ciascuno di noi, ci può trovare gli stessi formati, archetipi come quelli dei giochi. Ma la sua non è un’operazione nostalgia, è piuttosto un guardarsi indietro, consapevoli ormai che il tempo, quella cenere umida che si poggia in una soffitta impolverata, sta per fare il suo corso e che c’è necessità di fissare alcune cose. Quello che rende questo libro un piccolo gioiello è, come spesso accade, l’urgenza che colora le 150 pagine scarse del romanzo in un affresco dannatamente vivace, nonostante quelle punte amarognole che solo la malinconia del ricordo di qualcosa che non potrà più esserci riesce a dare, perlomeno non nei termini esatti di com’era. L’uso della seconda persona plurale del narratore, a metà tra un master che racconta la sessione della vita e una sorta di voce della coscienza, richiama all’ordine il lettore dicendogli: ehi, guarda che fai parte anche tu di questa storia, esattamente come se tu fossi in una delle stanze profonde, e puoi capire i miei riferimenti e vedere la provincia che descrivo solo da poche frasi.

Al netto di tante parole, e un po’ banalmente, la forza di questo libro risiede nel fatto che alla fine al suo interno c’è davvero tutto di noi. O perlomeno di noi che abbiamo sempre avuto questo bisogno dell’esercizio dell’immaginazione, ma che nel frattempo siamo sempre riusciti a rimanere attaccati al mondo. Forse grazie proprio anche a quei momenti in cui il mondo potevamo lasciarlo fuori. Si giocava a D&D, ma poi si andava alle feste, ci masturbavamo intellettualmente immaginando tutte le possibili ambientazioni, ma nel frattempo ci innamoravamo stupidamente della più bella del liceo. Desiderio di inclusione, con alcuni riti sociali, ma anche di esclusioni, con la sessione di gioco: rituale ultimo.

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Lorenzo Bonaffini
The Shelter

Avrebbe voluto essere il capitano di un rimorchiatore, invece si ritrova a scrivere di videogiochi.