Lion: non un altro film troppo triste per essere vero

Matteo Cinti
The Shelter
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4 min readFeb 20, 2017

A leggere la trama di Lion, o vedendone il trailer, l’impressione è che ci troviamo davanti ad uno di quei classici film strappalacrime: la tipica storia vera che ci devasta nel profondo, quei primi piani da telenovela, quella colonna sonora che ci ferisce ad ogni sviolinata. Effettivamente non si può negare che Lion non faccia commuovere, per certi versi facilmente, ripescando un po’ della roba qui sopra. Eppure le diverse nomination come miglior film (non ultima quella agli Oscar 2017) suggeriscono che, forse, Lion è un filino meno paraculo di quello che sembra.

La storia, ricordiamolo, è tratta dall’autobiografia di Saroo Brierley, un bambino indiano che perde la strada di casa all’età di quattro anni. Dopo diverso tempo da solo finisce in un orfanotrofio, dove verrà adottato da una coppia australiana con la quale, insieme ad un altro bambino adottato (e con un lieve ritardo mentale), Saroo passerà il resto della sua vita. A venticinque anni il ragazzo ha una sorta di epifania e inizia ad avere vaghi ricordi della sua vita in India, insieme alla madre e al fratello biologici. Il pensiero di ricongiungersi con loro diventa sempre più insistente, tanto da convincerlo ad iniziare le ricerche per ritrovare il suo paese natale. La domanda che ci viene posta già dal trailer, ci perseguita fino agli ultimi istanti del film: riuscirà Saroo a ricongiungersi con la famiglia biologica?

Messa così, per l’appunto, pare una storia per il target di C’è Posta per Te. In verità, Garth Davis, al suo esordio come regista cinematografico, prende l’elemento più drammatico della storia — la separazione di Saroo dalla famiglia — e lo posiziona ai poli del film, all’inizio e alla fine, costruendo nel mezzo tutto un’altro percorso, visivo ed emozionale. La narrazione è divisa principalmente in due atti. Nel primo viviamo i momenti della perdita di Saroo, dalla partenza in treno dal suo paesino fino all’adozione. In questo frangente, la parte probabilmente più interessante del film, Davis ne approfitta per descrivere l’India degli anni Ottanta, tra paesaggi naturali sconfinati e piccole metropoli in via di sviluppo. Le sequenze iniziali, dei campi lunghissimi su praterie e montagne (che poi ritroveremo anche più avanti come ricordi di Saroo) hanno quasi un aspetto documentaristico per quanto sono descrittive. Già soltanto per questa prima parte capirete che è valsa la pena scegliere questo film.

Il secondo atto è quello che invece calca maggiormente l’aspetto “defilippiano” della vicenda. I colori esotici dell’India del piccolo Saroo lasciano il posto ad ambienti più asettici e rassicuranti, dai toni freddi, magari non proprio evocativi dell’Australia, ma in qualche modo traduzione dello stato d’animo di Saroo. Mentre la ricerca di casa prosegue, Davis si prende tutto il tempo per indagare i conflitti interiori di Saroo e i rapporti con la famiglia adottiva. Quindi anche in questo caso, seppure l’ossessione per la ricerca è sempre più pressante, c’è comunque del materiale aggiuntivo persino più interessante. È in questa parte che emergono con prepotenza le doti recitative dei protagonisti, Patel e la Kidman, rispetto al resto del cast, che invece resta particolarmente anonimo. Non sto neanche a dirvi quanto siano emozionali gli ultimi minuti di girato: Davis la tocca pianissimo, con una sequenza di immagini tra passato e presente — effettivamente qui è stato un po’ furbo — che ci agganciano ad un tornado emozionale tutto in crescendo, con un colpo di coda finale che potrebbe lasciarvi secchi, sul serio.

Lion è dunque un film che fa leva sulle emozioni, questo è evidente, ma non è mai patetico o ridicolo. Dato che stiamo attingendo da un soggetto già esistente, che il film venisse bene o meno era per la maggior parte una responsabilità di Davis. Il suo approccio stilistico è drammatico quanto basta — anche perché per quanto puoi indorare la pillola, parliamo di un orfano di quattro anni che si ritrova da solo a settecento km da casa e appena vent’anni dopo cerca di tornare dalla madre — ,inoltre è molto interessante come si sia servito di questa storia per raccontare, come dicevo, l’India dell’epoca tramite delle immagini meravigliose. Sicuramente non è il film più bello dell’anno, ma la visione è altamente consigliata.

7

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Matteo Cinti
The Shelter

Vorrei dire di saper scrivere bene ma non posso. In compenso guardare serie tv e leggere fumetti mi riesce benissimo anche a testa in giù.