Quando la realtà plasma la fantasia

Sacrifici e compromessi per l’età adulta

Jacopo Di Iorio
The Shelter
9 min readMar 22, 2017

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“E non avere vent’anni e non avere gli esami fidati è qualcosa in più”: così cantano I Cani nella loro hit Come Vera Nabokov, riuscendo a sintetizzare in maniera perfetta quanto sia difficile vivere nel limbo tra adolescenza ed età adulta venendo per di più giudicati. La via verso la maturità è già ardua di per sé e se si viene posti su un palcoscenico, sotto gli occhi di una platea insindacabile, diventare grandi potrebbe facilmente trasformarsi nella rappresentazione a tinte pastello dell’inferno. Basta chiedere alle Britney e ai Culkin della nostra glitterata cultura pop oppure, per rimanere in terra videoludica, basta andare a bussare alla porta delle grandi icone del nostro settore. Tra istrici sonici, idraulici baffuti e archeologhe maggiorate c’è davvero l’imbarazzo della scelta ma questa volta, messa da parte l’indecisione, spumante scontato del Lidl in mano e Valentino total look, si bussa a casa Square Enix per festeggiare il compleanno di una delle saghe più importanti di tutto il panorama videoludico: Final Fantasy.

Le candeline sulla torta del titolo giapponese quest’anno sono trenta, un traguardo davvero ragguardevole che ci viene prepotentemente sputato in faccia dal seguente video commemorativo, ulteriore occasione per riflettere, tra lacrimucce e sentimenti contrastanti, sull’inquietante fugacità del tempo.

Trent’anni. Ben quattro di più di chi scrive in questo momento. Tre decenni scanditi in quindici principali “fantasie finali”. Trent’anni di continua crescita, rinnovamenti e giudizi contrastanti. Giudizi che ci ricordano quanto, anche nel mondo lustrini e paillette dei “giochini elettronici”, sia difficile rimanere sopra un piedistallo senza mai cadere giù. O al massimo cadere per poi rialzarsi. Analizzare i trecentosessanta mesi di vita dell’antologia fantasy di Square Enix è, insomma, il modo migliore per aprire gli occhi su quanto sia difficile nel mondo dei videogiochi sopravvivere (con successo) agli anni. I trent’anni di Final Fantasy sono un’allegoria più grande. Sono l’emblema della necessità, soprendentemente tipica dell’industria videoludica, di modificarsi, lasciandosi cambiare dall’attualità e dalla sue mode, pur rimanendo sé stessi.

Cambiare tutto per non cambiare niente

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” sono le parole del principi Tancredi utilizzate ne Il Gattopardo, capolavoro firmato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per descrivere il ristagnante spirito della sicilianità dell’epoca. Parole illustri che risplendono di ardente concretezza quando si tratta di videogiochi. Perché è così: lavorare all’ultimo capitolo di una saga storicamente rilevante per il medium è dannatamente difficile. Da una parte bisogna esaudire i desideri dei fan più intransigenti e tradizionalisti, dall’altra è necessario cambiare, accogliendo nuove esigenze che, vuoi per moda, vuoi per il mercato, sono diventate imprescindibili. È richiesto, insomma, di trovare un equilibrio tra innovazione e tradizione spesso non così banale. I trent’anni di Final Fantasy sono un perfetto esempio di questo difficile processo di tuning dei parametri sopra citati.

Il video commemorativo dell’importante traguardo temporale raggiunto dalla serie antologica di Square Enix riesce, in un modo non troppo sottile, a dare un’idea chiara di quanto detto. Salendo il minutaggio, scorrendo gli anni e i titoli della fantasia finale, risulta evidente di quanto siano cambiate le cose. Tralasciando il lapalissiano sviluppo tecnologico e quindi anche visivo che ha caratterizzato la saga nel corso del tempo, è interessante notare la crescita narrativa a cui si è andati incontro. Non si è semplicemente passati dalla storia dei sacri cristalli, topos letterario della saga, a intrecci più complessi: il balzo è stato ben più elevato. Nel giro di quattro-cinque episodi quella che sembrava la risposta digitale giapponese a Dungeons & Dragons ha iniziato ad abbandonare gli usuali filoni narrativi per seguire strade nuove. I galeoni volanti rimangono, magari anche i simpatici pennuti gialli, mascotte della serie, e la cosmogonia generale ma le armature morali degli eroi senza paura si macchiano, le atmosfere si incupiscono affiancando ai classici castelli da favola nuovi terrificanti macchinari. L’incontaminato mondo fantasy si sposta un po’ più in là permettendo a nuovi elementi di andare a riempirne il vuoto. E sono proprio questi elementi a segnare una nuova era dove ogni capitolo è caratterizzato da elementi fortemente riconoscibili.

Ciò che fa tendenza tra le strade delle nostre grigie città diventa fondamento estetico e non solo dei grandi mondi digitali di Final Fantasy

Gli anni Novanta sono proprio lo spartiacque tra un prima e un dopo per quanto riguarda tale fenomeno: la nascente cultura pop e l’avvento di internet, con il successivo naturale abbattimento delle distanze, sono stati solo alcuni degli elementi che hanno portato alla contaminazione del classico mondo fantasy a cui tutti erano abituati. Per esempio, la crescente popolarità anche in Occidente di designer giapponesi, quali Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, e della loro moda post-atomica, composta da indumenti svolazzanti e dai tagli irregolari, impatta pesantemente sul comparto artistico e visivo dell’ormai leggendario Final Fantasy VII, titolo che abbandona i classici stilemi fantasy per immergersi nella fantascienza più scura e, guarda un po’, apocalittica del cyberpunk. È invece guardando al mercato occidentale che viene confezionato il secondo titolo per Sony PlayStation: Final Fantasy VIII. Reduci dal successo planetario delle tragiche avventure di Cloud e amici, l’allora Squaresoft affonda le proprie mani in cerca d’ispirazione nelle ambientazioni collegiali americane. Il risultato è un titolo diversissimo dal suo successore che tenta molto ingenuamente di allontanarsi dalle sue radici giapponesi, adottando una direzione artistica più matura che aborra le carinerie chibi dei titoli precedenti. I personaggi son tutti adolescenti o pseudo milf, l’ormone si fa sentire e gli outfit non si vergognano a scimmiottare in una maniera tipicamente orientale le mode pop occidentali. Di conseguenza anche la trama si riempie di inaspettate sfumature da teen drama che non hanno nulla da invidiare ai grattacapi emotivi di Dawson sul suo fiume.

Il gioco è chiaro: ciò che fa tendenza tra le strade delle nostre grigie città diventa fondamento estetico e non solo dei grandi mondi digitali di Final Fantasy. Inizia un processo creativo nuovo, attualmente ancora in corso, che tenta, nel bene e nel male, di rappresentare nei drammi narrati dalla serie le mode della nostra realtà, facendo però attenzione ad accalappiare, nonostante un pacchetto ancora squisitamente giapponese, l’interesse del giocatore occidentale.

Il tema adolescenziale dell’ottavo capitolo torna nel tropicale Final Fantasy X. Il risultato finale è caratterizzato da una farraginosa ma interessante “panache”.

Per tenere infatti in vita l’interesse per una saga appesantita da un’eredità non indifferente non basta pasticciare con vestiti, personaggi e racconti, ma bisogna prima o poi spingersi a rinnovare anche meccaniche oramai cementificate. Non si possono chiudere gli occhi davanti alla necessità del cambiamento. Non si può fingere l’avvento di un mercato sempre più vicino in termini di gioco di ruolo alla bandiera statunitense. Nel corso degli anni così le dinamiche di gioco evolvono, si trasformano, perdono sempre di più la rigidezza tipica dei turni per concedersi, pian piano sempre di più, fasi di più ampio respiro. Si introducono nuove variazioni al battle system e nascono differenti sigle per descriverle: ATB (Active Time Battle), ADB (Active Dimension Battle) e CSB(Command Synergy Battle) per citarne alcuni. Scorrendo tutti questi differenti modi di menarsi le mani si può, da bravi analisti, scovare un semplice pattern, una evidente freccia del tempo: partendo dalla rigidezza di un contesto squisitamente a turni, impepando con nuovi elementi di contorno, quali dipendenze tempistiche o ulteriori condizioni, Final Fantasy ha lentamente abbandonato la sua natura per improntarsi maggiormente all’azione. Ne è rappresentativo il caso dell’undicesima e quattordicesima installazione della saga, in cui si abbandona la realtà tipica dei GdR giapponesi per approdare sulle spiagge dei MMORPG, genere che oltre a contare una nutrita fanbase riesce in maniera nuova a costruire vivaci universi fantasy.

Abituato a esperienze sempre più istantanee e compulsivamente veloci, il giocatore moderno aborra la lentezza tipica delle vecchie glorie del passato

Senza andare a scomodare le multiplayer evoluzioni nell’etere della saga, l’azione stravolge anche i titoli che più classicamente continuano a sguazzare nella comfort zone della serie. In un settore primeggiato da nuove produzioni sparatutto, i combattimenti a turni — e per di più casuali — diventano terribilmente anacronistici. Abituato a esperienze sempre più istantanee e compulsivamente veloci, il giocatore moderno aborra la lentezza tipica delle vecchie glorie del passato a favore di un modo di fruizione del medium molto più immediato. Final Fantasy XII è il primo capitolo che cerca quindi di inseguire le nuove tendenze videoludiche senza però snaturare lo spirito della serie: gli incontri casuali con i mostri diventano un lontano e triste ricordo, il battle system si concede una nuova parziale libertà dalla sua pesante eredità. La storia poi si ripete con il criticatissimo tredicesimo capitolo. Final Fantasy XIII segue le tracce del suo predecessore portandole forse eccessivamente oltre il dovuto. Se da un parte Square Enix riesce a partorire uno dei cast più internazionali e iconici della sua storia, risultando straordinariamente meno giapponese del solito e più politically correct da un punto di vista razziale, dall’altra il volere creare un’esperienza dall’elevato fascino cinematografico e dai ritmi serrati gli sfugge di mano. Final Fantasy XIII non convince nella sua imperante linearità e in una narrazione abbastanza confusionaria, forse perché eccessivamente basata sull’utilizzo di video magnificamente confezionati da un punto di vista visivo, un po’ meno da quello narrativo. L’avventura di Lightning e amici riesce comunque ad accaparrarsi qualcosa di buono: il mondo rappresentato è una sintesi perfetta di una realtà sempre di più incentrata sulla tecnologia e, come accennato prima, i protagonisti della vicenda sono talmente interessanti da svincolarsi dai rigidi schemi della saga di Square Enix e andare a conquistare il mondo dell’alta moda, come già analizzato in queste pagine.

Arriviamo così a ieri: Final Fantasy XV. Dieci anni di travagliato sviluppo per l’avventura del principe Noctis e nuovamente Square Enix danza con la sua usuale ambiguità di intenzioni. In un settore affascinato da esperienze open world, la quindicesima installazione della serie porta sullo schermo dei giocatori di tutto il mondo quattro ragazzi (vestiti tra l’altro dall’emergente stilista giapponese Roen), un automobile lussuosa ma tamarra e la voglia di esplorare e cazzeggiare tra le lande sconfinate di Eos. Poi, che dopo un po’ di divertimento ci sia la necessità di affrontare l’età adulta, i lutti, i drammi e l’impellenza di salvare il mondo da una notte eterna, è soltanto una fatalità. Con l’obiettivo di essere dedicato ai vecchi appassionati e ai nuovi amici della saga, il titolo approdato nel novembre del 2016 svela orgogliosamente il gioco delle parti a cui Square Enix ha da sempre partecipato: unire tradizione, realtà e innovazione. Un intento che non è mai stato più chiaro di così. Il mondo di Eos è dichiaratamente la trasposizione della nostra realtà ma con su una leggera spolverata fantasy. Il road trip che occupa i due terzi dell’avventura del gruppo di amici è un continuo rimando a polverosi panorami americani e a lussureggianti città sudamericane ed europee di rarefatta bellezza. Smartphone, treni e strumenti della nostra vita comune affiancano tecnologie più avanzate e fantastiche. La moda di Eos, soprattutto escludendo alcuni personaggi che indossano inaspettate e sontuose tuniche, è qualcosa di attuale e straordinariamente quotidiano. Aggiungete un pesante product placement fin troppo schietto, che non si vergogna di far visitare al giocatore la vetrina di un negozio virtuale della reale stilista britannica Vivienne Westwood, mescolate e gustatevi una straniante sensazione domestica.

Final Fantasy XV è quindi l’ultima meta di un processo continuo di rinnovamento e calibrazione. Non c’è quindi da sorprendersi se i turni, i combattimenti casuali e tutti i teneri retaggi di un’epoca passata siano stati chiaramente superati, sacrificati sull’altare di un’era ludica molto più immediata. In conclusione, come le star della musica, anche i videogiochi devono superare gli psicodrammi del rimanere loro stessi e, allo stesso tempo, accettare in cambio di amore il cambiamento, l’ibridazione, la contaminazione. Basta pensare a tante altre saghe storiche per poter riuscire a trovare, sotto la loro pelle, una dura ossatura di compromessi. È successo con Final Fantasy, succede ancora e continuerà a succedere. È questo il cerchio della vita nel settore dell’intrattenimento videoludico. Sono queste le regole dell’attrazione. Sono questi i sacrifici dell’età adulta.

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Jacopo Di Iorio
The Shelter

Da piccolo volevo fare il pittore ora come ora il pirata. Scrivo di videogiochi, di cultura pop e di tutto ciò che “c’entra perché ci capa”.