Quest for Infamy è come il bombolone di CiccioSchifo

Marco Tassani
The Shelter
Published in
7 min readJul 29, 2014

Ragazzi, questa probabilmente è la mia prima recensione veramente difficile dell’anno. Seriamente, noi bestie senza cuore che saltiamo da un gioco all’altro ogni settimana rischiamo continuamente di prendere quell’orribile morbo chiamato La sindrome di Cazzu Io : codesta malattia, che colpisce prevalentemente tizi che scrivono robe e videogiocatori, spinge i poveri soggetti a trarre conclusioni troppo affrettate sui titoli su cui mettono le proprie mani. Chiari sintomi sono frasi come “Ho già capito tutto”, “Ho fiuto per queste cose” e “Mi basta una sola occhiata”. Io, lo ammetto con estrema vergogna, sono stato colto da questo malanno proprio durante i primi passi sull’opera prima degli Infamous Quests. Ora però ne sono uscito. Spero.

Il protagonista medita sulla mediocrità dell’avventura.

Il motivo per cui ho scritto questo delirio iniziale è che ho odiato con tutte le mie forze Quest for Infamy, tanto da abbandonarlo momentaneamente sperando che qualche miracolo mi evitasse il supplizio di riprendere in mano quest’avventura grafica vecchia scuola. Non guardatemi così male, i motivi alla fine erano anche fondati: basta dare una veloce occhiata agli screen sparsi per questa pagina (e magari guardare anche il bellissimo trailer del gioco) per farsi investire da un treno merci di nostalgia. Una pixel art da farci piangere lacrime di gioia, un anti-eroe come protagonista pronto a spargere infamie a destra e a manca, un piccolo assaggio di sani enigmi vecchio stampo e il danno ormai era fatto: dovevo assolutamente giocare a questa chicca.

La prima mezz’ora di gioco, però, si può paragonare a un bombolone alla crema di CiccioSchifo.

Per dovere di cronaca: CiccioSchifo è il soprannome dato ad un pasticciere che gestisce un piccolo laboratorio dolciario in una località marittima che per ovvi motivi ometterò. I suoi bomboloni alla crema sono una meraviglia per gli occhi: grandi, belli pieni e con una soave nevicata di zucchero a velo in superficie. Impossibile non desiderarne uno. Il sapore non è affatto male, anzi, i primi morsi sono un vero assaggio di paradiso e la sensazione di piacere perdura tranquillamente per i primi dieci minuti. Però, poi, qualcosa comincia a smuoversi borbottando nelle profondità dell’intestino. Un po’ dubbioso ti volti a fissare attentamente lo Chef pasticciere, giusto in tempo per vederlo darsi una soddisfacente grattata alla borsa infilando la mano dentro ai pantaloni, sturarsi un orecchio con il mignolo e prendere immediatamente altri due bomboloni da servire a nuovi clienti. Ormai i movimenti intestinali sono diventati insopportabili e sai che se non trovi un gabinetto entro dieci minuti sei spacciato.

Un rave party finito male.

Nello stesso modo, dopo i primi meravigliosi dieci minuti in cui guidiamo Roehm in un bellissimo villaggio medievale pieno di zone da scoprire e persone da conoscere, cominciamo a sentire i famosi movimenti intestinali: il doppiaggio è talmente amatoriale da fare invidia alle tracce audio che registrai in inglese con accento polacco per un gioco del Fiandra che però non vide mai luce; i dialoghi sono quanto di più piatto e noioso si possa trovare in giro; il girare senza meta per una vastissima mappa raccogliendo missioni e oggetti dalla dubbia utilità ci può inizialmente far sentire liberi e felici come una farfalla, ma poi la sensazione di essere dei disperati senza uno scopo prende il sopravvento facendoci deprimere; infine il vero motivo per cui ho lanciato virtualmente questo gioco dalla finestra: il sistema di combattimento assolutamente anonimo, insensato e imbarazzante che ci spinge a premere tasti a caso senza alcuna strategia. Per non parlare dell’impossibilità di mettere il gioco a schermo intero: seriamente, a me sta sul cazzo vedere le icone del mio desktop in background o, ancora peggio, Facebook mentre gioco. Mettetelo un dannato pulsante per far apparire almeno una cornice nera a questa finestrella minuscola.

Se vi sembro cattivo è perché mi sono veramente incazzato con i tizi di Infamous Quests! Cioè, sono stati in grado di creare qualcosa di così bello da vedere, con un vero e proprio cuore pulsante che spruzza anni ’90 in ogni dove, ma senza una vera e propria anima, dove basta una azione sbagliata nel luogo più impensabile per morire tragicamente (salvate spesso, porca zozza) e che soprattutto non spinge il giocatore a continuare le proprie avventure.

Ho sperato ardentemente che Kayanna fosse una pornostar. (Inutile, ho già cercato su Google)

Come potete immaginare la tragica recensione stava già per prendere forma, quando però sono stato illuminato da una luce divina che in qualche modo mi ha spinto a riprendere in mano il titolo. Così, dopo già cinque ore di “avventura” alle spalle in cui l’unica cosa degna di nota che abbiamo fatto è stata uccidere una bestia premendo tasti a caso per farci amico qualcuno ed esplorare ogni buco dell’enorme mappa, ho deciso di snocciolare bene a fondo Quest for Infamy cercando di capire cosa ci fosse di bello nel pisciare in ogni zona possibile (sì, sono serio) e affrontare a noiose e inutili spadate i vari mostri sparsi per le foreste.

Per un mezzo miracolo riesco a parlare con il tizio giusto, nel posto giusto al momento giusto (ogni giornata di gioco si divide in mattina, tramonto e notte, e a seconda del momento sarà possibile trovare cose diverse in giro per i vari luoghi), e comprendo di aver fatto partire involontariamente l’avventura principale del gioco. Da quel momento in poi le cose piano piano hanno cominciato ad andare a posto, e tra un colpo di scena, un’esplorazione mirata a raccogliere informazioni, la voglia di saperne di più sulla storia e buoni enigmi da risolvere non sono più riuscito a staccarmi dal gioco, fino alla comparsa dei titoli di coda una decina di orette dopo.

Il sistema di combattimento è talmente brutto che i nemici si suicidano per la disperazione.

Il combattimento (che rimane orribile, sia ben chiaro) finisce drasticamente in secondo piano, la qualità dei dialoghi diventa sopportabile avendo cose più importanti a cui pensare e, incredibilmente, l’enorme quantità di luoghi da visitare prende veramente vita, dandoci in qualche modo l’impressione che tutto attorno a noi funzioni, e di essere in mezzo ad un villaggio vivo e vegeto.

All’inizio dell’avventura dobbiamo scegliere una classe per il nostro alter ego infame: il brigante, che fa spesso uso della forza bruta e rapina viandanti per i boschi; il ladro, silenzioso e con il vizio di infilarsi nelle case altrui; oppure lo stregone, capace di lanciare un bel numero di incanti all’occorrenza. Se inizialmente questa scelta può sembrare solo un piccolo pretesto per affrontare in modo diverso l’avventura, piano piano ci renderemo conto di quante cose saremo in grado di fare grazie a tale decisione, e nello stesso tempo noteremo tante cose da noi inutilizzate, utili magari per missioni dedicate ad altre classi. Anche queste cose, però, emergono con pazienza e tenacia.

Grandissimo il Fosso di Helm! È la mia struttura architettonica preferita!

Parlando di avventura grafica vecchia scuola non posso non soffermarmi sugli enigmi! Non è raro trovarci davanti a cose potenzialmente assurde, che richiedono non poca spremuta di meningi, colpo d’occhio ed esplorazione, ma una delle più grandi qualità di questo titolo è la possibilità di raccogliere informazioni ed aiuti direttamente in gioco, parlando con gente e cercando indizi nei posti giusti. Per essere un titolo così vasto non è qualcosa da dare per scontato, eh.

Vabbè, mi sono dilungato anche troppo a lungo sparlando di cose poco inerenti a quest’avventura, quindi è giunto il momento di tirare le somme. La delusione iniziale verso questo titolo è scomparsa, ma non la “rabbia” (tra virgolette) verso gli Infamous Quests per aver perso un’occasione d’oro: la trama si fa godere più che bene, a patto di inciamparci dentro; infilare combattimenti e stat system in una avventura grafica è stata una forzatura enorme; infine se vogliono far doppiare il gioco agli amici, almeno che questi abbiano un microfono decente.

“Per Columbia, da questa parte”

Vi consiglio di portarvi a casa questo gioco o no? Eh, bella domanda. In qualche modo mi piange il cuore, ma se non siete cresciuti negli anni ’90 e se non siete in carenza di qualche avventura Sierra del secolo scorso, non riesco a dirvi di comprarlo, almeno a prezzo pieno. Quando cominceranno a volare i primi sconti magari il discorso cambierà, sopratutto se siete amanti di avventure grafiche e di bellissimi pixel.

Il voto che vedete qui sotto è volutamente più alto di un punto rispetto a quello che merita l’avventura. A conti fatti, personalmente dubito che Quest for Infamy meriti più che una semplice sufficienza, ma voglio comunque emulare qualche mio vecchio professore: lo studente si è impegnato in un compito probabilmente troppo impegnativo, ed ha rischiato di perdersi fin dall’inizio del lavoro; però con costanza e dedizione è riuscito a finire il tutto, riprendendo la propria via nelle parti finali dell’opera. Insomma, la prossima volta, perché mi piacerebbe veramente che ci sia “una prossima volta” con gli Infamous Quests, consiglio di porre molta più attenzione alle piccolezze che rendono grande un’avventura grafica, e di non sforzarsi di infilare cose “in più” giusto per il gusto di farlo. No, davvero, molte cose riesco a perdonarle, ma questo sistema di combattimento me lo lego al dito.

Ah, sì. Mi stavo per dimenticare. Alla fine, cosa c’entra Quest for Infamy con i bomboloni di CiccioSchifo, visto che ‘sto gioco si è portato a casa un voto più che sufficiente?

Semplice. Nonostante tutto, ogni volta che si passa in macchina davanti a CiccioSchifo ci si ferma per mangiare un bombolone. E ne siamo felici.

7

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Marco Tassani
The Shelter

Scrive cose su The Games Machine, videogiocatore vecchio dentro e, inspiegabilmente, medico.