Singularity 5: non fidatevi del microonde

Andrea Ortenzi
The Shelter
Published in
7 min readMar 1, 2019

La frase “la realtà virtuale è una figata pazzesca” è fra le tante che, un po’ da una parte, un po’ dall’altra (e sicuramente anche su queste stesse pagine) avrete sicuramente sentito, ma che senza aver mai indossato un caschetto e aver agguantato un paio di pad appositi non potete per forza di cose comprendere fino in fondo. Essì giovani, perché di fatto, il VR è un modo completamente nuovo di intendere il videogioco, e non può essere sintetizzato nell’ordine delle categorie, è doveroso che lo si menzioni in quello delle esperienze. Con un estremo tentativo di far capire ai profani della tecnologia sensoriale cosa ci si perde senza una prova sul campo, la differenza fra VR e videogioco non è quella fra home console e cabinato, quanto piuttosto la distanza che passa fra FIFA e l’indossare un fratino, prendendo fisicamente posizione su un campo da calcio.

Tuttavia è inutile negare che si tratti di una tecnologia ancora in fasce, con alcuni gravi problemi irrisolti (uno per tutti: la motion sickness) che allo stato attuale, specie per gli addetti ai lavori, possiede il fascino di un vaso di pandora ancora semi chiuso. Infatti, i pochi prodotti che riescono ad evadere il facile ma scontato binomio “caschetto in testa - fps” si contano sulle dita di una mano (Moss e Astro Bot, per dirne due di cui il prode Fabio ha già tessuto incredule lodi), mentre fra quelli che cascano con entrambi i piedi “nella scelta più facile”, non sono poi molti quelli che riescono comunque a cogliere nel segno, proponendo variabili tali da poter essere ricordate (SUPERHOT è ancora, per me, IL prodotto VR, insuperato per concept e design). Tuttavia, la scelta facile e scontata di cui sopra, la categoria dei First Person Shooter, ha anch’essa metri di misura variabili, che vanno dal compitino all’eccellenza (e nella seconda voce non si può non menzionare la pietra di paragone che utilizzeremo per il resto dell’articolo: il mirabolante Robo Recall, esclusiva Oculus griffata Epic Games). Quindi, come forse avrete già intuito, Singularity 5 dello studio indipendente Monochrome Paris, appartiene alla categoria delle “scelte facili”, appunto: gli fps.

Non c’è niente da dire, l’impatto estetico è indubbiamente strabiliante.

È il 2073. Cinque anni prima, la singolarità tecnologica (l’istante in cui le intelligenze artificiali hanno superato l’intelletto umano e gli si sono sostituite, prendendo il controllo del globo terrestre) è avvenuta sotto la razionale e calcolatrice dittatura di Moore, l’avanzatissima I.A. che ha decretato il cambio di vertice nell’ordine piramidale mondiale, scalzando aggressivamente dal primo posto il genere umano e decimando la propria razza progenitrice. Siamo a Parigi, e l’affascinante capitale del potere postumanista è un tripudio di architetture che rendono possibile l’ossimorico connubio fra minimal e barocco. Ambienti colorati di un bianco asettico si mescolano consapevolmente alle impossibili volute dorate, acchiocciolate, che chiudono i tetti dei grattacieli nel centro città, riportandoci l’enorme qualità della direzione artistica del lavoro di Monochrome Paris, da subito evidente. Il racconto architettonico di Singularity 5, difatti, schiva la cupa profezia del futuro sporco, claustrofobico e asfissiante tipica del Blade Runner di Ridley Scott, preferendole la pulita eleganza in plastica e metallo, in oro e bianco, dello skyline dei quartieri aristocratici di Ghost in the Shell.

Singularity 5 si compone di cinque livelli totali, nei quali dovremo fare le tre cose più classiche del mondo per un first person shooter: sparare, parare e schivare i colpi avversari. Le poche competenze del nostro avatar verranno inserite nella formula di gioco progressivamente (ad esempio la schivata, che nell’accezione VR del termine prevede uno spostamento fisico del giocatore, verrà introdotta nell’economia dello scontro solo al secondo livello di gioco), seguendo un criterio comunque subordinato ai tre livelli di difficoltà che il prodotto di Monoschrome Paris permette di selezionare all’inizio di ogni partita. L’azione si svolge seguendo la struttura di uno shooter su binari: occuperemo uno punto predefinito nello scenario, senza la possibilità di muoverci oltre al metro e mezzo/paio di metri quadri garantiti dallo spazio di gioco fisico della nostra camera. Gli avversari invece, splendidi robot che si sposano perfettamente con la già citata mirabile direzione artistica, ci raggiungeranno a gruppi più o meno nutriti, sparandoci dalla distanza e attaccando fisicamente una volta raggiunta la distanza d’ingaggio, fino a disporsi più o meno in fila di fronte a noi.

Il cattivone del gioco in tutta la sua austerità!

E siamo al primo, vero problema del titolo: gli avversari in fila, che, in un numero sempre maggiore, occuperanno via via una porzione più ampia dello scenario di gioco, compromettendo in maniera proporzionale la leggibilità dello scontro. Scontro che, fra l’altro, si svolgerà con noi che spariamo ai robot, ricaricando furiosamente le armi senza che queste dispongano di un vero e proprio indicatore, magari fisico (la vibrazione del touch controller) o visivo (sì, se si guarda la pistola ci si accorge che è scarica, ma in un ambiente virtuale in cui la visione periferica è immensa, un minimo di hud non avrebbe guastato) che possa essere consultato a colpo d’occhio per capire quando stiamo effettivamente esplodendo colpi e quando invece il cane dell’arma batte su un bossolo esausto. Quasi tutti gli attacchi che possono muoverci contro i nostri avversari possono anche essere parati, se non proprio respinti al mittente. Nel caso dei colpi a distanza, Monochrome Paris ha sintetizzato le aggressioni avversarie attraverso delle granate che, una volta lanciate verso di noi, rimarranno qualche secondo a volteggiarci davanti al viso, dandoci tutto il tempo del mondo per rispedirle al mittente con un deciso movimento del braccio. La proiezione dei colpi fisici menati a danno nostro e la parata nei confronti di questi ultimi, invece, è decisamente più bizzarra: praticamente i robot si trasformeranno in cristalli (?) che punteranno nella nostra direzione e che dovremo rompere sempre con la classica sbracciata, secondo un tempismo, anche in questo caso, tremendamente permissivo che ci darà ben più di una manciata di secondi per occuparci della nostra difesa.

Il vr non è solo un visore: è anche spazialità e tattilità, elementi fondamentali per l’immersività ludica

Sembra caotico? Lo è, e tremendamente. Se già la folla di avversari è discretamente complicata da leggere nella concitazione dello scontro, il condimento di granate e cristalli non farà altro che incasinare ancora di più il vostro campo visivo, e in tutto ciò, come dicevamo qualche paragrafo più sopra, al giocatore non è consentito di dirigersi altrove, per prendere un attimo di respiro e rivalutare il da farsi. Purtroppo tutto questo caos va nettamente a discapito della strategia, di fatto totalmente sacrificata all’adrenalina. E, sfortunatamente, un sistema di comandi troppo legato ad una interpretazione “da pad” dell’esperienza, non aiuta assolutamente a fare ordine nella confusione: per lanciare una granata, cambiare armi (a scelta fra pistole e lanciagranate) o ricaricare l’accessorio nelle nostre mani, avremo dei tasti da premere invece che dei più comodi (e verosimili) movimenti da compiere.

Spiego meglio un argomento che secondo me è fondante nell’economia della realtà virtuale. Il vr non è solo un visore: è anche spazialità e tattilità, e l’importanza dei touch controller (e soprattutto del loro tracciamento spaziale) è fondamentale per l’immersività ludica, la vera rivoluzione di questa nuova, meravigliosa tecnologia. Per fare un esempio pratico, in Robo Recall (avevo promesso che sarebbe ricicciato), un titolo che trasforma la categoria degli fps vr in arte, il sostituire le raffinate pistole ai meno sofisticati fucili a pompa passa per il poggiare le mani sulle fondine virtuali ai nostri fianchi e agguantarne le impugnature; viceversa, per armarsi dei fucili a pompa, bisogna alzare il braccio fin dietro la schiena e stringere i grilletti dei touch controller, immaginando la posizione delle armi incrociata sulle scapole. Per ricaricare l’arma si butta a terra quella esausta (esatto, imbruttiti proprio come Reaper in Overwatch) e se ne recupera un’altra dall’apposita fondina. E la mancanza di intuizioni così brillanti e al contempo semplici da applicare nel contesto ludico di questo genere di prodotti, tradisce una competenza del mezzo virtuale ancora un pizzico acerba (condizione in fondo anche giustificata, se vogliamo, dalla natura giovane della tecnologia), che inevitabilmente contribuisce a compromettere un quadro già non del tutto sufficiente.

Le immagini rerstituiscono solo fino a un certo punto il caos dello scontro e la sua poca leggibilità.

Insomma, è innegabile che nel prodotto di Monochrome Paris ci sia del buono, soprattutto nella direzione artistica, ma anche nella qualità della colonna sonora che accompagna la nostra scalata verso lo scontro con Moore. Tuttavia, purtroppo, gli alti valori guadagnati in questi due importanti frangenti non sono comunque sufficienti a mettere in ombra le mancanze di design che inevitabilmente fanno la voce grossa all’interno di Singularity 5, troppo caotico nella lettura dell’azione di gioco e poco coraggioso nella gestione dei comandi. E la somma delle singole parti restituisce un prodotto complessivo che, nostro malgrado, si ferma alla sufficienza. Peccato, perché le buone intuizioni ci sono, le vedete negli screen che vi hanno accompagnati fino a questo verdetto, e in alcuni casi sono davvero degne di nota.

Mi sono lustrato gli occhi ma ho anche maledetto i pulsanti fisici sul touch pad grazie a un codice gentilmente offerto dagli sviluppatori del gioco. Ho giocato Singularity 5 su PC con il mio prode Oculus Rift che, nonostante il freddo di stagione, è ancora umidiccio del sudore speso a fare acrobazie per picchiare quanti più robot possibili. Se volete, trovate Singularity 5 su Steam e su Oculus Store all’ottimo prezzo di 8,19 €.

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