Sono un videogiocatore e me ne vergogno

Marco Tassani
The Shelter
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7 min readDec 18, 2015

Ebbene sì. Sono giunto a questa conclusione dopo qualche giorno di intensa meditazione sul trono di ceramica, quando puntualmente scorro la mia bacheca di Facebook godendomi la gente che si insulta a vicenda. In realtà il titolo non è propriamente corretto: io non mi vergogno affatto di essere un videogiocatore! Sì, ho le mie magliette da nerd, ho faticosamente creato con DAS, sudore e colori acrilici il mio personale Tentacolo Viola da tenere sulla scrivania, ma fondamentalmente aborro i vari motti “Non è vero che non ho una vita: ho scelto di averne molte” e compagnia bella che non fanno altro che peggiorare la situazione. Ciò di cui mi vergogno è la categoria a cui appartengo: la mitica e simpaticissima categoria dei videogiocatori. Quelli duri e puri. Quelli bravi. Quelli che hanno sempre ragione.

Probabilmente questo discorso può funzionare per qualsiasi categoria esistente, dagli amanti del Bridge agli appassionati di ciclismo, ma ahimé io conosco questa realtà e quindi pazienza. Noi indubbiamente siamo stati tra i più grandi sfigati della storia, rappresentati come individui occhialuti, brufolosi, talmente timidi da sfiorare il rinnego sociale e incapaci di rapportarci col resto del mondo. Gli anni ’90 son stati duri: ero il bimbo ciccione della classe, avevo già cominciato a odiare la razza umana (e no, la misantropia NON è l’incapacità di rapportarsi con gli altri, è proprio odio) e avevo già imparato ad amare le gioie dei videogiochi. Non mi sono perso un’avventura della LucasArts, ho combattuto insieme all’Orda su Warcraft II, ho ucciso Diablo, ho salvato Twinsen dalle grinfie del Dottor FunFrock, ho esplorato antiche tombe in compagnia di Lara e poi mi sono dedicato a una proficua attività mineraria a Minoc, in quel capolavoro di Ultima Online. Certo, nello stesso modo ho macinato decine di libri, cominciando con i Piccoli Brividi arrivando a quel tomo del Signore degli Anelli, e consumato quintali di videocassette e successivamente DVD, ma fondamentalmente mi son sempre definito un videogiocatore. E sì, ero lo sfigato di turno.

Il vero videogiocatore™ si riconosce perché ha la mappa di Britannia appesa in casa.

Condividere la mia passione con qualcun altro era un evento più unico che raro: ai miei amichetti fottesegava di Guybrush prima e di Gordon Freeman poi. Loro avevano il calcio, le moto, le limonate in disco e ai pub (stendiamo un velo pietoso, grazie) e quello che passava la televisione. Quando in qualche rara occasione si riusciva a incontrare un altro individuo con le stesse passioni era festa grossa, e il resto del mondo per qualche ora spariva completamente. Quindi sì, fanculo a tutti: ci isolavamo perché per quella rara volta potevamo confidarci pareri, tecniche e segreti. Non c’era internet, non c’erano i tizi su youtube a fare i gameplay -curiosa evoluzione del tempo passato in sala giochi a vedere i tizi che finivano Metal Slug con due gettoni- e l’unico modo che avevamo di resuscitare Aeris era indagare sulle esperienze altrui. Dio, quanto ci sarebbe piaciuto riuscire a condividere con tutti i nostri dubbi e i nostri pareri, ma ciò non era possibile: eravamo quelli sfigati che facevano i giochini.

Poi l’apocalisse. Non riesco a identificare bene il periodo storico o i motivi, ma il videogioco pian piano è diventato un medium diffuso in tutte le case. Il PC continuava a rimanere una macchina sconosciuta e pericolosa, ma era impossibile dire di no al fascino di una playstation: si attacca alla TV, si infila il disco -fin troppe volte tarocco comprato dal marocchino all’angolo- e si passa qualche ora di divertimento. Perché sì, sono giochini di merda, però cazzo, “Resident Evil è proprio figo quando spuntano gli zombi e pem pem, ma anche Metal Gear che ti nascondi e poi pem pem, per non parlare di Tekken che è tutto pem pem”. Tutti stavano diventando videogiocatori.

Cercavo un’immagine dell’evoluzione mammaria di Lara. Non l’ho trovata.

Scambiare due chiacchiere sul secondo episodio di Tomb Raider non era poi così complicato: in corriera trovavi qualcuno che l’aveva e che per sbaglio aveva sparato a un monaco. Il videogioco non era più un tabù, ma una cosa normalissima di cui parlare. Era bello? Cazzo se lo era. Con un pad in mano non esistevano più differenze sociali o economiche, come una moderna Livella di totoiana memoria. Il nerd sfigato e occhialuto, nell’immaginario collettivo, si stava trasformando nel ragazzo comune.

All’alba del 2016 possiamo definirci tutti videogiocatori, nessuno escluso. Sì, anche i vostri genitori, che ancora si mettono gli occhialini sulla punta del naso quando devono affrontare una tastiera, di nascosto si godono una bella partita a Candy Crush sul telefonino. E non voglio sentire storie a riguardo: loro, in quel momento, sono videogiocatori. In ogni centro commerciale c’è un GameStop, ogni catena di articoli elettronici offre sconti assurdi su console di ultima generazione, e tra social network e siti in flash anche durante le pause di lavoro è possibile concedersi una divertente pausa. Cosa potrebbe andare storto, ora che anche in televisione parlano del nostro hobby preferito? C’è che proprio noi che abbiamo visto crescere il medium, proprio noi che abbiamo seguito minuziosamente l’evoluzione delle tette di Lara Croft, proprio noi che abbiamo coperto con un cuscino il modem 56K per non far casino di notte, proprio noi abbiamo cominciato a rompere il cazzo.

Siamo diventati gelosi e protettivi nei confronti della nostra passione, al pari di Gollum col suo Tessoro. Loro, i “nuovi” videogiocatori, non hanno il diritto di dichiararsi con tale appellativo. Non ci va bene avere un hobby accettato e condiviso da tutto il mondo: dobbiamo per forza tornare a cantarcela e suonarcela da soli. Chiunque vada alla GameStop a comprarsi il nuovo Call of Duty è un coglione che non capisce un cazzo a cui piacciono i giochi di merda. Siamo diventati vecchie zitelle insofferenti, pronti a puntare il dito su qualsiasi titolo solo perché piace alle masse. Ovviamente non piace perché ha una buona trama, diverte e offre gameplay originali. Piace perché nessuno capisce una sega. Nel tentativo di ritagliarci l’ennesimo buco in cui vantarci di essere gli unici a capire il vero senso dei videogiochi abbiamo trovato gli indie: titoli di nicchia, creati da team piccolissimi senza soldi ma con tanta voglia di esprimere qualcosa. A giocare a Braid eravamo in quattro gatti. “Braid era bellissimo. Braid era originale. Braid era il futuro. Assassin’s Creed merda”.

“Ah ma allora ti piace lammerda!”

Poi sfiga vuole che il resto del mondo ha scoperto anche l’esistenza degli indie, e guarda caso li ha apprezzati e ha cominciato a giocarci. Eravamo fottuti. Non potevamo più vantarci nemmeno di quelli, e pian piano persino i titoli indipendenti sono diventati merda. “Shovel Knight bello? Nah, è una brutta copia dei titoli del passato. I titoli del passato sì che erano belli. I titoli del passato ora sono roba nostra”. E poi sono arrivati i remake.

E ora che non c’è rimasto più nulla, noi “veri” videogiocatori come impiegando il nostro tempo? Quale genere o attività riesce a renderci veramente felici? Spalare merda su qualsiasi cosa. Siamo diventati come i vecchi agli angoli delle strade che agitano il pugno verso i ragazzini, lamentandosi della gioventù bruciata -e ribelle, aggiungerei- e rimpiangendo i bei tempi in cui avevamo difeso la patria durante la guerra. Non ci va bene più nulla: ogni singolo videogioco che tocca uno scaffale deve essere assolutamente preso a pesci in faccia, nello stesso modo dell’utenza che lo apprezza. Negli scorsi anni un paio di programmi televisivi che trattavano il nostro tema preferito sono riusciti a ritagliarsi un piccolo spazio nel palinsesto di qualche rete abbastanza famosa, e noi cosa siamo riusciti a fare? Insultare i conduttori, l’utenza e i temi trattati. E il Drago d’Oro, premio italiano dedicato ai videogiochi? “Merda fumante condotto da ignoranti, pilotato e ridicolo”.

Dino ci manchi, anche se ormai ti si vede ovunque.

Solo noi siamo degni di poter parlare del nostro hobby. Gli altri, quelli più giovani, più carini, meglio vestiti, meno colti, più alti, meno ricci e quello che vi pare sono zecche giunte a rubarci la passione. Non possono comprendere l’emozione di impersonare Stanley. Loro si accontentano del solito gioco fotocopia, creato per le pecore.

Ci siamo talmente allontanati dal concetto di videogioco che ormai non siamo più in grado di divertirci: maciniamo titoli su titoli, di cui non ne portiamo a termine nemmeno la metà, e passiamo il tempo libero a commentare negativamente le esperienze di chi invece si diverte come pazzi nello scalare tetti e sparare su pianeti lontani. Noi, che abbiamo visto crescere ed evolvere il medium videoludico, siamo gli stessi che lo stanno riaffossando nella nebbia. Amici, finché siamo ancora in tempo, smettiamo di comportarci come i saputelli del cazzo che si sentono obbligati a dire che il giocatore medio è scemo, che non è in grado di distinguere una buona opera e che l’unico, vero verbo è quello pronunciato da una ristrettissima schiera di appassionati. Adoro essere un videogiocatore di vecchia data. È della categoria che mi vergogno.

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Marco Tassani
The Shelter

Scrive cose su The Games Machine, videogiocatore vecchio dentro e, inspiegabilmente, medico.